STORIA: I MAESTRI: Perché Leningrado non si arrese19 Gennaio 2017 di Enzo Passanisi Quasi un milione di lapidi nel cimitero di Leningra do ricordano una delle più spaventose tragedie del la seconda guerra mondiale: l’assedio delle armate hitle riane alla città da cui spriz zò la prima scintilla della rivoluzione bolscevica. E’ sta to il più lungo assedio del l’era moderna, novecento gior ni di sofferenze indicibili, di fame, di stragi, di gloria. Una lotta per la vita che accomunava i soldati dell’Ar mata rossa con due milioni e mezzo di abitanti della cit tà; un simbolo della incrol labile resistenza del popolo russo di fronte all’aggressio ne nazista. Per molti anni tuttavia â— gli anni cupi della dittatu ra staliniana, e anche dopo â— la storia dell’assedio di Leningrado è stata coperta da un’impenetrabile cortina di silenzio stesa implacabil mente dal vertice. Stalingra do, la battaglia davanti a Mosca, le travolgenti avan zate verso il cuore della Ger mania, sono le pagine sulle quali punta l’agiografia uffi ciale: su Leningrado â— sul dramma della città, dei suoi abitanti, dei suoi soldati â—, nulla, o soltanto, nella lun ga parentesi buia, pochi ac cenni, quasi imbarazzati. I motivi di questo silen zio, che fece conoscere ai so pravvissuti il sapore amaro dell’ingratitudine, costituisco no il contributo forse mag giore dell’imponente lavoro di ricerca che lo scrittore e gior nalista americano Harrison E. Salisbury ha dedicato all’as sedio con il suo I novecento giorni (ed. Bompiani, pp. 560, L. 6000). Due motivi, ed entrambi le gati al gioco politico del dit tatore, a quell’equilibrio di forza e di terrore dal quale Stalin traeva la base del suo dominio. Il primo riguarda l’imprevidenza del despota, di fronte ai segni sempre più palesi dell’imminente attacco hitleriano e alle centinaia di avvertimenti, da un capo al l’altro del mondo: Churchill da Londra, la spia Sorge da Tokio, gli stessi avamposti di fron tiera davanti ai quali si am massavano i panzer dalla cro ce uncinata. Ma Stalin si cullò fino all’ultimo nell’illu sione che i tedeschi non avrebbero attaccato ed è di appena otto giorni prima del grande assalto una sua ma linconica nota nella quale si smentivano le voci di un im minente conflitto e si riaf fermavano i vincoli di ami cizia con il terzo Reich. Que sto mentre già i carri ar mati si preparavano a scal dare i motori e duecento di visioni tedesche erano schie rate per dilagare nelle pia nure russe. Persino quando già comin ciarono a tuonare i canno ni, all’alba del 22 giugno 1941, e quando già la Luftwaffe aveva distrutto al suo lo buona parte dell’aviazio ne sovietica, a Mosca ci si chiedeva ancora se l’attacco non fosse soltanto una « pro vocazione » di pochi generali nazisti guerrafondai. Dopo, quando non fu più possibile dubitare, Stalin fu colto da una crisi di depressione così forte che per almeno tre set timane, le settimane crucia li, dovette lasciare nelle ma ni dei suoi luogotenenti gli affari politici e quelli mili tari. Una serie di imperdo nabili errori dei quali dovet tero fare le spese il popolo russo e soprattutto gli uomi ni di Leningrado. La Venezia russa costituiva uno degli obiettivi primari dell’alto comando nazista, un obiettivo sul quale puntava no due armate e il più forte corpo corazzato della Wehrmacht, agli ordini del mare sciallo von Leeb, il generale che aveva conquistato la Maginot. Da Leningrado, i te deschi avrebbero poi puntato verso Sud, con un movimento a falce, per prendere alle spalle Mosca. I panzer avan zarono nel vuoto, travolgen do le inesperte truppe get tate nella fornace, le divisioni del popolo di operai e di ragazzi del Komsomol. A set tembre erano davanti a Le ningrado; una cintura di fer ro e di fuoco stretta attor no ai sobborghi. La propaganda nazista ave va già annunciato l’imminen te caduta della seconda cit tà russa, ma proprio quando tutto sembrava perduto, sol dati e volontari del popolo, sulla linea dell’ultima resi stenza, riuscirono a compiere il miracolo, ad arginare la va langa. « Prenderemo Lenin grado per fame â— fu la ci nica risposta del comando te desco â—, inutile sprecare uo mini in un assalto frontale. E non ci saranno bocche da nutrire perché gli abitanti sa ranno tutti morti di inedia ». Cominciò l’assedio dei no vecento giorni, l’epopea dei soldati, e dei cittadini, sotto il martellare dell’artiglieria, con le razioni sempre più scarse affidate ai precari ri fornimenti aerei e alla lun ga, infida pista tracciata fra i ghiacci del lago Ladoga. Un incubo senza fine che ri proponeva, moltiplicandoli, gli orrori dell’assedio di Parigi; i morti abbandonati per le strade, uomini e donne ridot ti a larve, gli episodi, per sino, dì cannibalismo. Quasi un milione le vittime â— non è stato mai possibile fare un bilancio preciso â— quando fi nalmente la morsa fu spez zata e l’invasore ricacciato. Fu un gran giorno, nell’in credulità, quasi, di ritrovarsi vivi, ma presto venne l’oblio. Leningrado, l’isola rossa nel la marea nazista, non era stata una vittoria di Stalin. Era stata, almeno in parte, la vittoria di Zdanov, il se gretario del partito della cit tà, animatore della resisten za, già considerato il delfi no del dittatore. Ma Stalin non amava i vice che si met tessero troppo in luce. Ed ec co il secondo dei motivi del lungo silenzio sull’assedio: non si doveva parlare di Zda nov, non si doveva parlare di Leningrado. Fino al gior no della misteriosa â— e for se « organizzata » â— morte dell’ex-pupillo del despota, sul finire degli anni quaranta e anche dopo, fino al XX con gresso. L’oblio scese cosi sul milione di caduti della città di Lenin.
Letto 1750 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||