di Manlio Lupinacci
[dal “Corriere della Sera”, lunedì 2 marzo 1970]
Un gradino al di sotto dell’alto piedistaIlo sul quale si allineano, vincitori a pari merito, i quattro grandi del Risorgimento (Cavour, Mazzini, Garibaldi, Napoleone III; ndr), spiccano due fi gure, e due sole: quella di Massimo d’Azeglio e quella di Bettino Ricasoli; anzi: del cavalier d’Azeglio e del barone Ricasoli, tanto per rammenta re la loro appartenenza al ce to degli ottimati e, con essa, la parte che questo ebbe nel la formazione dell’unità (e non per il calcolo egoistico del troppo sfruttato principe di Salina: bisogna che tutto cam bi perché tutto resti tale e quale, come oggi certi storio grafi si affannano a far cre dere). Ancora un gradino più basso stanno tutti gli altri personaggi della generosa e for tunata avventura: i cospirato ri, i politici, i combattenti. Se d’Azeglio o Ricasoli non pos sono stare alla pari dei primi quattro, così nessun altro può stare alla pari di Ricasoli e di d’Azeglio per decisiva influen za sul volgere degli avvenimenti. Massimo d’Azeglio col salvare lo Statuto dopo Nova ra mantenne intatto il segno di raccolta delle speranze di ge nerazioni che ebbero la ventura di congiungere inscindibil mente l’indipendenza e la li bertà; Bettino Ricasoli travol gendo tutti gli ostacoli oppo sti all’unità dopo Villafranca piantò di forza, a martellate la prima pietra dell’edificio unitario: e così entrambi ap paiono i mediatori indispensa bili fra i quattro che riassumono le aspirazioni risorgi mentali nell’altitudine della lo ro missione storica e tutti gli altri, che nel servire la stessa missione troppo spesso la im piccolirono in visioni particolari ed anguste.
Uniti da questi comuni me riti verso la patria non anco ra nata, sarebbe difficile immaginare due tipi umani più separati in tutto quello che forma il carattere, la fisiono mia degli individui. Le incom patibilità fra loro sono tante e così pronunciate, che vi è da rallegrarsi che la storia ab bia concesso loro abbastanza spazio per muoversi in essa senza molte occasioni di in contro (si sarebbe acconten tato, Ricasoli, del proclama di Moncalieri, per uscire dalla confusione demagogica del do po Novara?). Da un lato il d’Azeglio: temperamento d’ar tista, del tutto sprovvisto di fanatismo, signorilmente por tato ad avvolgere la intima serietà della fede in certi va lori con il garbo di una levità scanzonata; formatosi attra verso esperienze giovanili da non soffocarlo in complessi e chiusure, ma al contrario, ta li da arricchirlo di umana in dulgenza. Dall’altro lato, Ri casoli: l’austerità fatta perso na, la severità in carne e os sa; nato probabilmente con la vocazione del censore e del missionario, ma spinto ad aiz zarsela dentro dalle dure re sponsabilità domestiche che gli gravarono addosso fin dal la prima giovinezza.
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Sosteneva Curzio Malaparte che è molto difficile essere toscani: io non so se non sia altrettanto difficile essere, per esempio, moldo-valacchi, ma quello che so è che al tempo della « Toscanina », esser to scani doveva essere piacevole. Ogni volta che mi affaccio su gli avvenimenti toscani del ’59, come ora attraverso questa biografia del Ricasoli della compianta Enrica Viviani del la Robbia, non riesco mai a far tacere la voce del Baldasseroni, l’ultimo ministro del Granduca, che dalle pagine delle sue Memorie così mi sus surra, descrivendomi il regi me e il paese: « qui mite, non superbo il comando; facile, non servile l’obbedienza; mol ta la tolleranza, ricambiata da generale affezione ». Davanti a questo quadretto, a questo acquerello dai toni così deli cati e sfumati, una gran ten tazione mi prende, lo confes so con tutta la contrizione del caso, di dar ragione agli auto nomisti, di dirmi che se fossi vissuto al tempo loro e nato toscano, il granduca col tri colore e lo statuto mi sarebbe ro apparsi una soluzione ec cellente e questo barone Ricasoli che la faceva da dittatore per impedirla a ogni costo, o via!, l’avrei guardato più che di traverso. Certamente, così sarei stato colpevole di cam panilismo: ma quando il cam panile è il campanile di Giot to…
Eppure è proprio questa tentazione che mi fa compren dere e ammirare la grandezza del Ricasoli in quell’anno, la fermezza, la saldezza di carattere che gli ci volle per non lasciarsene prendere anche lui. La sua intransigenza lo isola va, lo circondava di una soli tudine che non poteva essere alleviata dai consensi che gli venivano da gente che non appartenevi al suo mondo di notabili e il cui estremismo gli ripugnava, mentre in coloro ai quali lo legava l’educazione avvertiva il malumore e la cri tica. E’ in questo che Ricasoli primeggia su tutti quelli che nello stesso anno, a Bologna, a Modena, a Parma, lottavano per la medesima causa.
Costoro avevano di contro soltanto il nemico esterno: la diplomazia, la minaccia del l’intervento straniero, le ne cessarie esitazioni del Piemon te dopo Villafranca, che oggi a noi magari si rivelano come arte, ma che allora, a chi sta va sulla breccia, potevano anche apparire anticipazioni di rassegnazione e rinuncia; ma accanto e alle spalle non ave vano che concordia e fervore, per lo meno quanto all’impos sibilità di far rivivere il vec chio regime, cui non andava più nessun rimpianto che aves se peso. I governanti degli ex -ducati e delle ex-legazioni non sentivano intorno a sé malin conie latenti, rimpianti velati, nostalgie accorate che non sempre riuscivano a celarsi nei consensi sospirosi alla demo lizione del passato: non così, invece, Ricasoli in Palazzo Vecphio; Ricasoli, che nel suo stesso segretario ed estensore dei suoi manifesti e decreti, il Tabarrini, aveva un rassegna to che nel suo diario si scusa di quel che ha scritto per ispi razione del barone definendo si: « un calamaio ai servigi di tutti »; Ricasoli, che nei col leghi di ministero intuiva la scarsa convinzione che mette vano nel seguirlo e dalla quale spesso nascevano ripicche, im puntature, bizze, che il barone sconfiggeva con perentoria ar roganza.
Niente Toscanina: « se si tratta della solita Toscanina, fate voi, io non c’entro », dirà appena invitato a prender po sto nel governo provvisorio; e nemmeno regno dell’Italia centrale con Gerolamo Napo leone: unione immediata alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele, e basta. Ma come: Firenze ridursi a semplice prefettura piemonte se? No, non piemontese, ma italiana, ché non c’è un vecchio regno sardo da estendere, ma un regno nuovo da costi tuire, nel quale il Piemonte dovrà scomparire come la To scana.
Questa la meta del barone Ricasoli: la medesima di Mas simo d’Azeglio. Invano però cercheremmo nelle parole del primo in quell’anno qualche cosa che rassomigli al grido di generoso dolore del secon do, allorché qualche anno do po sarà Torino a diventar pre fettura e Firenze a diventare capitale. Il gonfaloniere gran ducale del ’48 è scomparso senza lasciar traccia nel capo del governo provvisorio tosca no del ’59; almeno, traccia vi sibile: duro e intransigente con se stesso non meno che con gli altri, si può pensare che se anche ne avesse provati, di rimpianti, li avrebbe estirpa ti come male erbe, come segno di debolezza da vergognar sene.
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Provvidenziale certo per l’Italia che egli fosse tal uo mo, nelle vicende del ’59; ma se deve al suo fanatismo da apostolo di aver assunto, in quegli avvenimenti, e non sol tanto sulla scena toscana, ma su quella italiana, la parte del protagonista contendendo la perfino a Cavour ritornato al potere, non si può negare che ugualmente debba a que sto suo carattere tutto spigoli di fierezza araldica, tutto nu vole di sensibilità altezzose e di impazienze irose la ben scarsa simpatia che ispira.
Questa biografia della si gnora Viviani della Robbia pubblicata dall’UTET nella sua collezione « La vita socia le della nuova Italia » diretta da Nino Valeri, è attenta, mi nuta, diligente e sorretta da una approfondita conoscenza
dell’uomo e del suo tempo (peccato solo che la morte prematura abbia impedito all’autrice di por mano a certe revisioni di stile che avrebber giovato alla forma del libro ma il sentimento con il quale si posa il volume non vi ha trovato nessun appiglio per un palpito di calore cordiale che mescoli all’ammirazione un ingrediente più casalingo; se mai, di fronte a tanto spiegamento di durezza, di intransigenza, di oppressiva volontà predicatoria si può sentirsi indotti a dubbi di pietà discreta, che però appena sorti ritraggono intimiditi da quella grinta che gli fa da cane da guardia sulla soglia della su vita segreta.
« Se Mazzini è il profeta della Sinistra, Ricasoli si può considerare a buon diritto come il profeta della Destra scrive Spadolini in « Firenze capitale >; giustissimo: sol che a Mazzini fu risparmiato, tranne che nel breve e violento esperimento della Repubblica Romana, il confronto con la realtà che invece Ricasoli dovette affrontare, dopo il trionfo del ’59, nei problemi e nelle responsabilità di un governo regolare, con i suoi limiti e le sue transazioni necessarie: così Mazzini rimane con intorno al capo l’aureola di profeta luminosa di tutti i suoi raggi, mentre quella del profeta Ricasoli rimane intatta solo nelle icone che lo rappresentano in Palazzo Vecchio mentre sacrifica sentimenti, ricordi, abitudini sull’altare della propria ispirazione morale.