STORIA: I MAESTRI: Una guerra persa nel 191918 Dicembre 2011 di Vittorio Frosini Cinquant’anni or sono, nel clima ancora febbrile di pas sioni e di sacrifici dell’imme diato dopoguerra, l’Italia af frontava il cammino della ri presa d’una vita civile ordina ta, mentre i reduci riaffluiva no alle loro case, le fabbriche e le organizzazioni sorte per i fini bellici smobilitavano, la lotta politica riprendeva al l’aperto sulle piazze. Fu in quell’anno, che nello stato d’animo di depressione dopo uno sfor zo a lungo durato, e di fru strazione per lo sconvolgimen to subito e non ancora risana to, venne coniata e immessa nella circolazione culturale una formula, escogitata da Gabriele d’Annunzio: la « vittoria mu tilata ». L’immagine, che il poe ta derivava da uno dei suoi miti prediletti, quello della statua di antica bellezza dis sepolta e ritrovata offesa dalla violenza subita dai tempi di trascuratezza e barbarie, venne adattata alla situazione politi ca del momento. L’Italia, che aveva combat tuto una guerra sanguinosa e vittoriosa, appariva defraudata nelle sue aspettative di com penso e di conquista al tavolo della pace di Versailles, per opera degli antichi alleati e delle nuove nazionalità indipendenti. Si apriva così allora quel processo di revisionismo dell’equilibrio politico europeo, che sboccherà nel secondo con flitto mondiale, in cui l’Italia si ritroverà accanto agli eredi degli Imperi Centrali â— Ger mania ed Austria-Ungheria â— controla Francia, l’Inghilter ra, gli Stati Uniti d’America. E’ lecito chiedersi oggi in che cosa consistesse l’origine di un risentimento politico, che avrebbe portato alla conseguen za di un totale rovesciamento di fronte dell’Italia in Euro pa; e la risposta non va più cercata, ovviamente, in quei motivi di propaganda politica e di polemica spicciola, che ali mentarono per vent’anni la pubblicistica dell’epoca fascista. Che la vittoria fosse « mutila ta » per la mancata annessione di Fiume, poi acquisita all’Ita lia, o per le limitate conces sioni territoriali in Dalmazia, o per l’esclusione dell’Italia dalla spartizione coloniale, non è argomentazione sufficiente a giustificare lo spirito di pro fonda insoddisfazione e di au tentico rancore, che indubbia mente si diffuse in Italia verso le potenze dell’Intesa, fino al punto di superare l’ostilità nei confronti di paesi ex-nemici. Tali questioni di politica este ra, in quel periodo di grande rivolgimento sociale, non pote vano far presa sul sentimento comune di una nazione, che aveva da poco tempo raggiunta una difficile unificazione, e aveva conosciuto un’esperien za poco entusiasmante e red ditizia di espansione coloniale. Bisogna perciò volgersi alle condizioni della vita economica e sociale, per rendersi meglio conto della suggestione eserci tata dalla formula della « vit toria mutilata ». Nella sua relazione su « La grande guerra e la crisi econo mica dell’Europa », tenuta al congresso di storia del risor gimento a Trieste nello scorso novembre, e ora pubblicata nella Rassegna Economica di retta da Epicarmo Corbino (1968, n. 6), lo storico dell’eco nomia Luigi De Rosa apporta alcuni elementi davvero chiari ficatori di quel travagliato pe riodo. Dalla sua analisi infatti risulta, che a termine della pri ma guerra mondiale l’Italia do veva considerarsi, dal punto di vista economico, non già fra i paesi vincitori, ma bensì fra i paesi vinti, ai quali cioè la guerra aveva lasciato uno stra scico terribile di passività. Mentrela Francia riparò le per dite economiche della guerra nel giro di tre anni, ed anzi richie se in quello stesso periodo, tra il 1919 e il 1921, l’aiuto di mano d’opera di lavoratori im migrati dalla Spagna e dall’Ita lia stessa; mentre in Gran Bre tagna le industrie, convertite alla produzione di pace, furono sommerse da ordinativi e as sorbirono rapidamente i com battenti smobilitati; mentrela Cecoslovacchia,la Romania, perfinola Jugoslavia (partico larmente esposta alle distruzio ni) traevano in varia misura benefici dalla vittoria; l’Italia invece veniva a trovarsi in una situazione assai simile a quella della Germania, dell’Austria, dell’Ungheria. Basteranno alcuni cenni. La differenza della bilancia dei pagamenti era passata da un saldo attivo di 299 milioni di lire nel1914 aun passivo di 10.600 milioni di lire nel 1918. Se prima della guerra le spese statali venivano coperte per il 94% dalle entrate effettive, la percentuale si ridusse dopo la guerra al 30%. La svalutazione della lira, parallela all’aumento dei prezzi, fece volatilizzare tutto il risparmio monetario. E intanto, le industrie di guer ra, prodotto artificiale dell’eco nomia bellica, che avevano as sorbito circa un milione di la voratori, dovevano ormai chiu dere, gettando sul lastrico gli operai disoccupati; mentre il bracciantato agricolo dell’Italia meridionale era costretto a ri prendere la via dell’emigrazio ne, che raggiunse rapidamente oltre le 600.000 unità nel 1920, segnando una perdita di forze lavorative pari a quella dei ca duti nella guerra. Il prestito di guerra, con tratto con gli ex-alleati, am montava ormai a 3.600 milioni di dollari. Questo quadro è sta to riassunto da uno studioso oggi scomparso, Rodolfo Morandi, nella frase che « il quinquen nio successivo alla guerra segnò il contraccolpo inevitabile, pro dotto dalla rottura repentina e violenta dell’equilibrio che già esisteva »; si potrebbe dire, nei termini nuovi dell’analisi econo mica, che l’Italia subì un brusco decollo industriale e una pre cipitosa ricaduta. Sotto il pro filo politico, lo sbocco della crisi fu la dittatura fascista, risultato ultimo d’una « contestazione » giovanile del regime parlamentare, operata dalla ge nerazione formatasi nel duro clima della lotta armata, della disciplina militare, della stasi della discussione politica duran te la guerra. Il 1919 fu, insomma, un anno fatale per l’Italia, in cui le difficoltà economiche vennero accresciute e intensificate da quelle d’ordine sociale, conse guenti al processo di riassesta mento di grandi masse, mobili tate per la guerra in una mi sura veramente spettacolare per il nostro paese. Si aggiunga che il fanatismo ideologico conta giato dalla rivoluzione sovieti ca e la mancanza di realismo politico e di cultura economica dei quadri dirigenti socialisti e sindacali crearono le condizio ni per l’acuirsi di una tensione sociale, che si manifestò in for me di convulsione collettiva e si risolse in una grave scon fitta delle forze democratiche; in questo senso, per le masse popolari, che avevano combat tuto e sofferto nella speranza di un domani migliore, di una patria libera e prospera, quella di Vittorio Veneto divenne dav vero una « vittoria mutilata », e la pace apparve una pace perduta, A cinquant’anni di distanza, in una situazione storica certo profondamente mutata, gli eventi del 1919 conservano però il loro valore di mònito: non si può giocare alla rivoluzione, senza correre il rischio di per dere la posta della libertà, an che se ad esigere il pagamento del pegno si presenti stavolta la forza massiccia di un nuo vo collettivismo, interessato al cambiamento di fronte interna zionale, che sospingerebbe l’Italia sulla via di nuove sventure. 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