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STORIA: I MAESTRI: Vittorio Emanuele III e il suo vicario Acquarone

29 Dicembre 2011

di Indro Montanelli
[dal “Corriere della Sera”, sabato 22 agosto 1970]

La bibliografia sul « Re Soldato » si è arricchita in questi giorni di una nuova impor ­tante opera: un Vittorio Ema ­nuele III scritto da Silvio Ber ­toldi e pubblicato dalla UTET in un bel volume rilegato di 480 pagine.

Essa non contiene, intendia ­moci, nulla di rivoluzionario ed esplosivo che dia al perso ­naggio una nuova dimensio ­ne e c’imponga una revisione di giudizi. Forse questo po ­trebbe accadere solo se l’ex-re Umberto si decidesse a render note le carte che il padre, se ­condo qualcuno, gli avrebbe dato. Ma noi dubitiamo che queste carte esistano real ­mente: e, anche se esistono, dubitiamo che contengano ele ­menti tali da ribaltare i dati ormai acquisiti alla Storia e illuminarli di una nuova luce. Anche perché, se così fosse, non sapremmo come giudi ­care la renitenza del figlio â— molto migliore del padre e attaccatissimo alla sua memoria â— alla loro divulgazione.

Tuttavia l’assenza di sensa ­zionali rivelazioni non toglie nulla ai meriti di questo li ­bro, cui Bertoldi è approdato quasi per fatalità. Autore di un Mussolini, di un Umberto e di un Badoglio, eccellenti per coscienziosità di documen ­tazione e distacco critico, egli possedeva già tutti i punti di riferimento. Ma a questi ha potuto aggiungere qualcosa di inedito: l’archivio privato del duca Pietro Acquarone, mini ­stro della Real Casa, forse il solo uomo che abbia goduto la fiducia del diffidentissimo sovrano. Ho l’impressione che Bertoldi si sia sentito un po’ tenuto a ripagare il favore suggerendo di questo perso ­naggio una valutazione che non ci trova del tutto con ­senzienti. Che Acquarone sia stato, per Vittorio Emanuele, un « uomo del destino » e che abbia svolto, negli ultimi drammatici avvenimenti, una parte di protagonista, ne conveniamo. Ma è sul giudizio sui frutti di questo connubio che dissentiamo.

*

 

Acquarone entrò per la prima volta nella vita del re co ­me ufficiale di cavalleria e istruttore del principe Umberto. Ma allora ci rimase po ­co e dentro i limiti di que ­ste modeste funzioni ippiche. Quando ci rientrò, nel ’39, era un accreditato uomo d’af ­fari, arricchito un po’ dalla dote della moglie, ma ancora di più dalla propria abilità. Il re, che ai suoi soldi ci te ­neva (nulla di male), lo scelse appunto perché glieli ammini ­strasse. Acquarone glieli am ­ministrò benissimo, salvandolo fra l’altro da una « bidona ­ta » di Kreuger, il grande av ­venturiero svedese. Ma a qua ­lificarlo agli occhi del sovrano non fu solo questo; fu anche, e di più, una parentela di carattere. Non si sapeva chi dei due avesse più sfiducia negli uomini e più li considerasse, dal primo all’ultimo, ladri e traditori in atto o in potenza. Entrambi erano guardinghi, coperti, aridi, fru ­gali, rispettosi delle forme e nemici di ogni retorica. En ­trambi avevano la passione del segreto da cui escludevano an ­che le proprie mogli. Entram ­bi avevano della politica una concezione « giusnaturalistica »: la consideravano un in- trigo, in cui non c’era posto né per sentimenti né per scru ­poli. Era fatale che il loro rapporto si traducesse poco a poco in omertà e che il mini ­stro della Real Casa, statutariamente tenuto a semplici compiti di pubbliche relazioni, diventasse insieme il padre Giuseppe e il tutto-fare del sovrano.

Naturalmente non si posso ­no addebitare ad Acquarone le decisioni che il re prese, o si lasciò imporre, al momento della svolta fatale. Entrato in servizio nel ’39, egli non era certo in grado nel 40 d’impedire, e neanche di sconsigliare, il reale assenso alla dichiarazione di guerra. Non abbiamo neanche nessu ­na difficoltà a credere che sin da principio egli si sia reso conto della catastrofe a cui eravamo avviati e che sin d’al ­lora abbia cercato di prepa ­rarvi il sovrano e di predisporre qualche scappatoia. Ma tutto ciò cominciò a tradursi in azione â— e cautissima â— solo ne gennaio del ’43, quan ­do gli avvenimenti avevano acquistato tale eloquenza da non avere più bisogno d’interpreti.

Concediamo dunque ad Acquarone tutte le attenuanti,   e prima di ogni altra la difficoltà dell’uomo con cui aveva a che fare. Conquistarne la fi ­ducia non dovette essere un’impresa rapida e facile: se si fosse « scoperto » anzitempo l’avrebbe irrimediabilmente perduta. E concediamogli anche il merito di averla saputa sfruttare, vincendo la renitenza all’azione del suo principale. Senza dubbio fu lui a andare in avanscoperta e a fa ­re i primi sondaggi sulle per ­sone che si potevano attrarre in una congiura che in realtà non acquistò mai precisi contorni, ma che prevedeva un golpe  militare. E qui c’è da porsi una domanda, a cui sinora nessuno ha mai saputo rispondere: questo golpe, i ge ­nerali italiani sarebbero stati capaci di farlo? Monelli dice di sì, e lo dice da par suo. Ma noi ne dubitiamo assai. Visti poi all’opera, i vari Bado ­glio, Carboni e Castellano ci sembrano tutti dei Di Lorenzo avanti lettera, fertilissimi di « piani », ma anche preoccupa ­tissimi del « ruolo di avanza ­mento ».

Acquarone dice che « il re, anche prima che si riunisse il Gran Consiglio, e indipenden ­temente dal suo voto, mi ave ­va resa nota la sua ferma de ­liberazione di sostituire Mus ­solini e di far cadere il regi ­me ». Sì, ma quando? C’è da temere che questo quando non sarebbe venuto mai, o sarebbe venuto solo il giorno in cui gli Alleati, già sbarcati in Sicilia, fossero stati alle porte di Ro ­ma, se il Gran Consiglio non avesse agito per conto suo. L’unica raccomandazione che il re fece a Grandi il 3 giu ­gno, data dell’ultimo loro in ­contro, fu: « Non abbiate fretta ».

*

 

Ma veniamo al dopo che resta, per Vittorio Emanuele e il suo vicario, la pagina più nera. Reduce dall’infocata not ­te del 25 luglio, Grandi trovò a casa sua Acquarone in an ­siosa attesa e gli disse pres ­sappoco: « Noi abbiamo tatto quello che ci spettava. Ora il re ha il pretesto costituzionale per dichiarare Mussolini deca ­duto e procedere alla sostitu ­zione. Mi permetto raccoman ­dare ancora una volta il mare ­sciallo Caviglia, unico militare che non abbia mai patteggiato col fascismo e disposto a pro ­vocare un incidente coi tede ­schi che ci faccia trovare automaticamente in   guerra con loro prima che occupino il nostro territorio »

Le cose invece andarono nel modo che sappiamo.   Il successore di Mussolini fu Badoglio, cioè uno dei generali più compromessi col regime, e la stesura del proclama fu affi ­data al vecchio Orlando, in ­ventore della bella trovata: « La guerra continua ». Chi suggerì queste scelte al re che, dopo aver ricevuto il vecchio statista, avrebbe detto con di ­sprezzo: « Ha ricominciato a piangere al punto in cui aveva smesso nel 1922 »? Secondo Grandi, non ci sono dubbi: fu Acquarone. E, anche se non ne abbiamo le prove, molte cose c’inducono a crederlo. Il re non faceva più nulla sen ­za consultarsi col suo ministro della Real Casa, e quelle de ­cisioni recavano il segno di un’ambiguità ch’era nel carat ­tere sia dell’uno che dell’altro. Se essi l’avessero presa già prima del 25 luglio non sap ­piamo, e forse non lo sapremo mai perché entrambi erano troppo sospettosi per rivelare a qualcuno le proprie intenzio ­ni o metterle nero su bianco in qualche carta.

Ma insomma, tutto sembra confermare la nostra vecchia convinzione che il colpo di Stato del 26 sia stato il frutto di due congiure svoltesi paral ­lelamente, ma senza precisi rapporti tra loro. Il re e il suo ministro pensavano a una so ­luzione militare, per la quale però sin allora non avevano predisposto nulla, neanche la data. I contatti che avevano avuto con Grandi e Ciano era ­no soltanto precauzionali, in ­tesi a creare una divisione nello stesso « vertice » del re ­gime, che ne prevenisse o in ­debolisse la resistenza. Gli uomini del Gran Consiglio agi ­rono nella speranza, forse ad ­dirittura nella persuasione di avere dalla loro il Quirinale, ma senza averne ricevuta nes ­suna garanzia. Se l’indomani Mussolini, invece di andare a Villa Savoia, fosse andato da Kesselring e avesse mobilitato la sua milizia, per quanto scal ­cagnata, dubitiamo molto che la Corona avrebbe preso aper ­tamente le parti dei ribelli.

Per il re e il suo ministro il voto del Gran Consiglio fu il classico cacio sui macche ­roni. Essi mostrarono gran ­de abilità e prontezza di rifles ­si nell’impadronirsene imme ­diatamente e strumentalizzarlo ai loro fini. Mi chiedo se da soli avrebbero mai osato af ­frontare un duce ancora vivo, per quanto stremato dalle di ­sfatte e senza più alcun segui ­to nel Paese. Il Gran Consiglio riduceva quel compito alla se ­poltura di un cadavere: e tutti sappiamo come fu eseguita. Poi il re e il suo vicario ripre ­sero ad agire secondo il loro piano: e tutti abbiamo visto in che condizioni ci condusse ­ro all’8 settembre.

Si poteva far meglio? Non lo sappiamo. Sappiamo sol- tanto che non si poteva far peggio. Quanto di questo peggio sia da attribuirsi al re, e quanto al suo vicario, resterà sempre materia di congetture. Ma che la simbiosi fra loro abbia dato buoni frutti, non si può certo dire. Si somiglia ­vano troppo.


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Bart