STORIA: La cittadinanza romana
24 Gennaio 2012
di Costanza Caredio
In ambito cristiano, il primo che pose il problema della cittadinanza fu Paolo di Tarso: “non c’è dunque più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna” (Galati, 3,28). Paolo era fariseo, cittadino romano, abitante in Asia Minore in territorio di antica colonizzazione greca e influenza persiana. E questa era certo la linea riformista a lui attribuita. I Farisei erano borghesia ebraica, colta, morale, elitaria in lotta contro governi ellenistici, accusati – come è uso – di corruzione. Avevano pagato un duro prezzo sotto la monarchia di Alessandro Ianneo, re-sacerdote della Giudea (103-76 a.C). 6000 di essi furono uccisi e 800 crocifissi (Giuseppe Flavio).
La cittadinanza a tutti gli abitanti fu concessa da Caracalla (212 d.C.), ovvero da quella interessante congrega che governò Roma, dominata da donne di potere siriane, causa probabile di disastri militari. In compenso fu avviato il sincretismo politico-religioso con apertura verso le comunità cristiane. Giulia Domna si circondò di una corte di uomini dotti, filosofi e medici (Galeno), e promosse anche una alternativa laica al Cristianesimo sponsorizzando Apollonio di Tiane, un santone-mago. Gesù di Nazareth, infatti, essendo discendente di David, re d’Israele, era di famiglia principesca, oltre che assunto a divinità al pari di Augusto e quindi difficile da gestire da parte del potere senza il consenso dei fedeli.
La cittadinanza concessa, il controllo sulle comunità cristiane e la repressione di boicottaggio e rivolte, furono le premesse per l’accordo di Costantino, che però si trovò ad aver risolto un problema del passato: il nuovo erano i popoli del nord e dell’est che si stavano muovendo verso il Mediterraneo: occorreva un governo saldo e la collaborazione di una Chiesa di Stato.
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