STORIA: Le donne nella storia: Louise va alla guerra
26 Gennaio 2008
di Loreta Cerasi Mandrelli Â
[L’ultimo romanzo di Loreta Cerasi Mandrelli: “Arlette. Il romanzo di una donna dell’anno Mille concubina del duca di Normandia Roberto il Magnifico e madre di Guglielmo il Conquistatore”, Il Segno dei Gabrielli, 1999]
Jean Bouvet trascinava la gamba rigida bestemmiando ogni volta che s’impigliava in qualche spallaccio o, peggio ancora, nei finimenti aggrovigliati di cavalli e di traini d’artiglieria che affioravano dal terreno melmoso, invisibili nella notte. Â
Dalla spalla destra gli pendeva un rozzo sacco a strisce, che un tempo era stato la fiammante copertura del pagliericcio sul quale aveva consumato la sua prima notte di nozze; ora, rigonfio e deformato, sembrava nascondere un cadavere. Inciampò nel corpo di un dragone semi sommerso dal fango e, imprecando, lasciò cadere il sacco. Tastò tutto il corpo del morto con mani esperte, spiando intorno le ombre furtive che si aggiravano nel buio, pronto a difendere la preda. Le dita sporche di sangue scivolarono sulle tasche rovesciate, tirando rabbiosamente la cinghia che aveva sorretto una borsa, forse pingue, e che ora, tagliata, pendeva mestamente sulla coscia del dragone. Sollevò una gamba del morto e, con un’ennesima bestemmia, constatò che era priva dello stivale: qualcuno, prima di lui, si era preso cura di quel soldato. Sospirando, ne afferrò la testa che pendeva contorta sulla spalla sinistra e mise in luce il grande squarcio – certamente una sciabolata – che aveva quasi reciso il collo. Assentì davanti a quello che gli parve un lavoro ben fatto; poi gli slacciò la cinghia sotto il mento e gli sfilò l’elmo, scoprendo i fitti capelli che la pioggia e il sudore avevano appiccicato alla cute. Nel gesto, il capo del morto si rovesciò all’indietro, cadde la mandibola e rivelò nella notte una chiostra di denti bianchissimi che sembravano sorridere.
“Poveraccio anche tu… “, mormorò con un sospiro. “Com’eri giovane… “. Quindi si accinse a sfilargli i pantaloni. Terminata la bisogna, cacciò nel sacco l’elmo e gli indumenti del ragazzo ucciso che rimase completamente nudo in mezzo al fango, sotto la pioggia sferzante.
Era quasi la mezzanotte. Da qualche parte, verso ovest, gli giunse portato dal vento il lontano rumore di raffiche di fucileria e di saltuari colpi di cannone.
Jean aveva atteso per ore, sotto la pioggia, accucciato sul ramo di un albero, nascosto dalle fronde, irrigidito nella scomoda posizione dal terrore che lo schiacciava contro il fusto della pianta ogni volta che una palla di cannone gli passava ronzando vicino alle orecchie. Mille volte si era infuriato con se stesso per la curiosità che lo aveva spinto, fin dal mattino, ad appollaiarsi tra i rami di una vecchia quercia per assistere allo spettacolo della battaglia ed essere il primo a far bottino spogliando i caduti al termine dello scontro. Mai avrebbe pensato che la cosa sarebbe andata tanto per le lunghe: era calata la notte, pioveva forte e ancora si combatteva.
Durante il giorno aveva visto ben poco. Il fumo della fucileria e delle migliaia di cannonate, mescolandosi ai vapori che il sole di giugno levava dal terreno bagnato da piogge torrenziali, non avevano consentito al suo sguardo di spaziare intorno. Sopraggiunta l’oscurità più cupa, gli era parso di essere diventato cieco e aveva stentato a riacquistare un barlume di vista; solo quando aveva sentito allontanarsi il rumore della battaglia e farsi un gran silenzio di morte intorno, era sceso dalla pianta per cominciare il suo lavoro. Altri, evidentemente, erano stati più svelti, come poté giudicare dai sacchi pesanti, trascinati da indistinte sagome umane che gli scivolavano vicine, lasciando profondi solchi nel fango. Tuttavia, non c’era di che lamentarsi: cadaveri e feriti, in mucchi alti come case, attendevano ancora di essere spogliati.
Erano caduti falciati a grappoli, ed ora, sciabolati, fucilati, spappolati dai cannoni a mitraglia giacevano a terra formando cataste di membra, corazze, elmi, cavalli, da cui si levavano i lamenti degli agonizzanti. Altrove, invece, i corpi erano allineati in file ordinate, così com’erano stati schierati davanti al nemico.
Jean Bouvet sentiva con indifferenza i gemiti dei feriti; si stupiva soltanto che tanti chiedessero pietosamente acqua, sotto la pioggia insistente. Scuotendo la testa commiserò quegli sciocchi che, invece di lamentarsi, potevano ben aprire la bocca per alleviare la loro sete da dissanguamento.
Giunto al centro di quello che era stato il campo di battaglia, intravide un luccicare d’elmi e un agitarsi di cavalli sventrati che sembravano far ribollire il terreno. Ristette solo un attimo, indeciso se occuparsi di una fila di granatieri caduti ben allineati sulla sua sinistra, oppure dei cavalieri schiacciati dalle loro bestie che scorgeva a destra. Pensò che c’era tempo per gli zaini dei soldati e preferì scegliere le borse dei cavalieri, dove era più facile e meno faticoso trovare qualche napoleone d’oro. Si precipitò dunque verso il luccichio di elmi e corazze, saltellando sulla gamba valida e trascinando il sacco ormai stracolmo.
Molti, prima di lui, avevano avuto la stessa idea.
Quando giunse presso la montagna di caduti, vide alcune torve figure di donna che si erano date convegno su quel bottino. Simili a iene, mostravano l’una all’altra il digrignare dei denti nel buio della notte, esibendo minacciosamente le lame dei coltelli che stringevano in mano e usavano senza scrupoli se un ferito cercava di far resistenza alla sua spoliazione. Ma tanta era la messe che, imprecando, urtandosi e ignorandosi a vicenda, ciascuna si dette a tagliare quante più borse poteva dalle cinture dei caduti.
Jean non fu da meno.
Più d’uno fra i saccheggiatori di cadaveri racimolò in quell’occasione abbastanza monete d’oro da fondare la fortuna della propria famiglia, virtuosamente borghese presso i posteri.
Jean Bouvet, gettata una dozzina di borse nella capace tasca della casacca, si volse a prestare le sue cure a un altro soldato; inciampò, scivolò e cadde con la faccia nel fango. La tensione della giornata gli esplose dentro come un proiettile e cominciò a imprecare ad altissima voce, piangendo e colpendo con i pugni la sua gamba storpia che aveva causato la caduta.
Gli sciacalli al lavoro nei pressi gli saltarono addosso per zittirlo, temendo che le sue urla richiamassero l’attenzione di qualche pattuglia di Prussiani in giro per il campo di battaglia. Le donne – se tali erano ancora – lo afferrarono per le braccia e cominciarono a percuoterlo, ingiungendogli di tacere e inveendo a voce bassa contro di lui, finché Jean smise di lamentarsi e scoppiò in un pianto disperato, con la faccia rivolta al cielo.
 Lacrime e pioggia gli rigarono il viso fangoso e stravolto.
 Fu come se qualcosa si rompesse nel petto di quelle disgraziate, perché più d’una prese a singhiozzare e a tremare. Parve che, solo in quel momento, all’improvvisa interruzione dell’ansia rapace che le sosteneva, quello sparuto gruppo di derelitte prendesse coscienza della macabra situazione e si avvedesse finalmente dell’orrore di quella giornata.
A un tratto le nubi si aprirono e il plenilunio di giugno lasciò cadere un torrente di luce chiarissima su tutto il campo.
Le donne si videro quali erano: streghe infangate e striate di sangue rappreso, grondanti pioggia, i coltelli in mano, le facce tutte simili, con gli occhi accesi di cupidigia e il ghigno bianco dei denti. Ai loro piedi, i sacchi rigonfi di bottino.
Il moto di ripugnanza che, loro malgrado, le aveva pervase, passò com’era venuto e tutte, guardandosi di nuovo con sospetto, già si accingevano a riprendere il disgustoso lavoro, quando apparve ai loro occhi un’insolita scena: al centro del cerchio che avevano inavvertitamente formato, c’erano due corpi esanimi, vestiti della divisa degli ussari e strettamente abbracciati nella morte.
La luce bianca della luna batteva sui grandi occhi sbarrati del soldato disteso a terra. Il resto del viso era celato dai capelli dell’altro che aveva perso il berretto e mostrava, semi nascosta nel fango, una massa di riccioli biondi inzuppati di pioggia. Le forme piene e armoniose, strette nell’attillata uniforme, rivelavano, se pur ce ne fosse stato bisogno, che si trattava di una giovane donna, prona sul corpo del compagno. Lei gli sorreggeva il capo, stringendolo a sé con un braccio, mentre l’altro posava sul volto dell’ucciso, come ad accarezzarlo. La morte l’aveva colta nell’attimo dolente dell’ultimo bacio.
Gli sciacalli contemplarono in silenzio la coppia di amanti. Nessuno osò alzare la mano a perquisire i due sventurati. Lentamente, allontanandosi l’uno dall’altro, ciascuno tornò ad immergersi nell’ombra, riprendendo il lugubre saccheggio.
Jean Bouvet aveva osservato anch’egli con occhi attoniti; guardò le donne che se ne andavano e, improvvisamente svuotato di ogni energia, s’incamminò zoppicando verso la sua capanna di carbonaio. Â
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Louise aveva appena compiuto diciassette anni quando, a Laon, tornando a casa con le amiche dal collegio di suore dove studiava, aveva assistito all’ingresso dello squadrone di ussari nella cittadina. Li aveva visti accamparsi nella piazza principale e si era attardata ad osservare l’allegria e l’eccitazione che, a scapito evidente della disciplina, sembravano essersi impossessate di quel drappello. Avvicinandosi, aveva notato che i militari portavano appuntata sul kepi la coccarda tricolore, al posto di quella bianca. Mentre li guardava perplessa, un giovane tenente l’aveva abbracciata e, quasi sollevandola da terra, le aveva gridato raggiante:
“Napoleone è tornato! L’Imperatore è a Parigi! Viva l’Imperatore!”
Poi l’aveva fissata, sempre sorridendo, come in attesa.
Louise, quasi incredula, si era slacciata il cappello di paglia dall’ampia tesa e l’aveva lanciato in aria gridando anch’essa: “Viva l’Imperatore!”, quindi, con una gran risata liberatoria, aveva gettato le braccia al collo del giovane ussaro e lo aveva baciato. Soltanto dopo s’era resa conto della sua audacia e, arrossendo violentemente, ne aveva attribuito la colpa all’entusiasmo del momento. In fondo, lei era nata quando Napoleone aveva già conquistato l’Italia e l’Egitto, ed era cresciuta venerando quel nome; non c‘era stata sera che non fosse rimasta sveglia, con gli occhi sgranati, a sentire il padre leggere sul giornale i bollettini delle vittorie. Aveva imparato a cucire coccarde tricolori e a sferruzzare calze e maglie per i soldati che combattevano sempre più lontano, su fronti sconosciuti, sognando ad occhi aperti d’essere anche lei sui gloriosi campi di battaglia. Una volta aveva perfino visto l’Imperatore, o, meglio, la sua carrozza con lo stemma imperiale che passava al gran trotto attraverso Laon; dentro la vettura, solo un pastrano grigio da cui spuntava una mano bianca che si agitava verso le ali di folla. Poi, la terribile sconfitta di Lipsia, l’orrore del passaggio delle truppe prussiane e russe, le minacce, le violenze, le spoliazioni, il racconto di gesta innominabili perpetrate nelle campagne; e, ancora, la boria di vecchi nobili vestiti in modo strano che tornavano da chissà dove e pretendevano l’inchino al loro passaggio.
Più tardi, l’Imperatore esiliato all’isola d’Elba! E i discorsi nostalgici dello zio che aveva perso il naso, congelato durante la ritirata da Mosca, e inalberava con fierezza un’appendice di cuoio degna di Cirano in mezzo alla faccia segaligna e baffuta. Ora il poveretto, dopo aver conquistato sul campo i gradi di capitano, si vedeva ridotto a mezza paga e deriso in piazza a cagione del nastrino della Legion d’Onore con cui seguitava a ornare i risvolti del pastrano.
Louise era felice. L’Imperatore era tornato.
Quel giorno di marzo corse nei campi, raccolse un mazzo di violette e, prima di sera, tornò nella piazza di Laon, rivide il suo ussaro e gli lanciò con un sorriso i fiori che lui raccolse al volo guardandola incantato e sorpreso.
Il reggimento si era acquartierato nella cittadina e il giovane tenente passeggiava spesso sulla via principale di Laon levando inutilmente lo sguardo verso le finestre della casa di Louise: la ragazza era tornata in collegio.
Vi rimase per alcune settimane, fino alla primavera inoltrata, quando i venti di guerra persuasero le suore a chiudere in anticipo l’anno scolastico.
Cominciò tra i due giovani un fitto scambio di sorrisi e di sguardi; Louise seppe dalle amiche il nome del bell’ussaro: Henri.
Poco tempo dopo, nel quadro delle cerimonie imperiali che a Parigi culminarono nel ‘Campo di Maggio’, tutti i borghesi di Laon si contesero gli ussari in ricevimenti, balli e feste. La famiglia di Louise non fu da meno e accolse un folto gruppo di brillanti ufficiali impennacchiati che si affollarono nel ‘salone’ (così era stato ribattezzato, per l’occasione, il vasto soggiorno sgombrato dei mobili da pranzo per far posto a poltrone, sgabelli e divanetti disposti lungo le pareti).
Louise appariva deliziosa nell’abito di tulle giallo, scollato e senza maniche. Affiancava i genitori intenti agli onori di casa ed era complimentata da tutti per l’avvenenza, il brio e l’impegno che metteva nell’andare incontro, fin sulle scale, agli ospiti che intravedeva giungere al portone: aspettava Henri.
Di lì a poco lo vide arrivare, sorridente e bellissimo nella scintillante divisa da parata guarnita di spalline e fitti alamari d’oro.
Il giovane salì i gradini e si diresse a passi spediti verso Louise; stringeva in mano un mazzolino di violette che, inchinandosi compitamente ai padroni di casa, porse risoluto alla ragazza. Louise arrossì e, portandosi al volto i fiori, ne aspirò lungamente il profumo guardando di sottecchi il bel tenente. Poi, incurante degli sguardi di biasimo dei presenti, si allontanò dall’atrio e: “Voi siete Henri, non è vero?”, disse infilando con grazia e disinvoltura un braccio sotto quello del giovane; poi, ridendo lo sospinse nel vano di una finestra, dietro le pieghe della tenda.
“Vi aspettavo.”, gli disse d’impulso.
“Louise! Vi ho riportato le violette che mi offriste il giorno del mio arrivo; mi sono state talmente care che, come vedete, non sono mai appassite!”.
Louise gradì il garbato complimento.
“Sono le violette dell’Imperatore… sono fiorite quando Lui è tornato e… quando siete arrivato voi… “, disse arrossendo. Poi, temendo di essere stata troppo ardita, chinò il capo e nascose il volto nel mazzetto di viole. Henri le allontanò i fiori dal viso e le prese il capo tra le mani per guardarla negli occhi; le sue dita affondarono nella massa di riccioli biondi, temette di scompigliarle l’acconciatura e la lasciò, ma strinse, serrandolo, il braccio di lei che reggeva i fiori. Erano vicinissimi. Louise sentiva emanare dal corpo del giovane l’odore del cuoio dorato degli alamari mischiato a quello dell’acqua di colonia, forse la stessa – pensò – che l’Imperatore usava copiosamente ogni mattina, dopo il bagno, come riferivano le cronache. Si accorse che le girava la testa e desiderò di essere baciata. Pentita, ritirò di colpo il braccio facendo cadere qualche petalo di quei fiorellini tardivi. La fanciulla li raccolse pensierosa e li posò sul davanzale della finestra, incerta tra il giovanile impaccio e l’audacia di donna; arretrò di un passo, quindi di nuovo si avvicinò al giovane e sfiorò con una carezza lieve la mano di lui posata sull’elsa della sciabola. Confusa e felice prese a parlare per nascondere l’eccitazione.
“Ditemi di voi… Da quanto tempo siete nell’esercito? Avete mai visto l’Imperatore?”
Henri annuì sorridendo e gonfiò il petto. “Ho combattuto a Lipsia e, su quel campo, ho conquistato i gradi di luogotenente. E’ stato l’Imperatore in persona a conferirmi la promozione dopo che il mio reparto aveva respinto un attacco russo.”.
“Ma Lui, Lui, com’è?”
Henri la guardò con occhi ridenti: Louise gli sembrava una bambina golosa che non ha tempo di aspettare il dolce a fine pranzo.
“Lui arrivò all’improvviso, elogiò il comportamento della guarnigione e poi chiese ad alta voce chi fosse stato il più valoroso in quella giornata. I miei commilitoni indicarono me e l’Imperatore, dopo avermi chiesto da quanto tempo fossi sotto le armi, bruscamente mi disse: ‘Avete guadagnato i gradi di luogotenente.’  Quindi fece un cenno a uno degli ufficiali che lo seguivano e spronò il cavallo allontanandosi. L’anno successivo ho fatto tutta la campagna di Francia, ma non ho più avuto l’occasione di vedere da vicino l’Imperatore.”
Henri, mentre parlava, l’aveva sospinta fuori del vano della finestra e condotta verso un divano. Louise sedette senza accorgersene, bevendo le sue parole, immobile e trasognata.
“L’Imperatore, l’Imperatore in persona vi ha parlato, vi ha elogiato e promosso sul campo… Che uomo! Come sa riconoscere i migliori!”
Arrossì di nuovo e riprese, con tono tra il frivolo e l’ansioso: “Parlatemi ancora di Lui; com’era vestito, come parla… insomma com’è?”
Henri ebbe il suo daffare a raccontarle com’era l’uomo dal piccolo cappello e dal pastrano grigio, il tono della voce, il magnetismo dello sguardo, la bardatura del cavallo, il modo abile ma scomposto, di stare in sella. Louise pendeva dalle sue labbra e non cessava di fargli ripetere all’infinito quelle descrizioni. Infine, l’ussaro riuscì a trascinarla in un valzer e s’immerse nella contemplazione del volto radioso della fanciulla, godendo a stringerne la vita sottile e nervosa.
La serata finì troppo presto per i due giovani.
Louise dormì con le violette sul cuscino, sognando Henri e l’Imperatore. Le due figure si confondevano e si sovrapponevano nel sogno, e su tutto aleggiava l’odore galeotto del cuoio, delle viole, dell’acqua di colonia.
Henri si addormentò beato, con il sorriso di Louise negli occhi e la sensazione di quel tenero corpo di donna abbandonato sul suo braccio durante la danza. Quando ricordò come, nell’inchinarsi alla fine del ballo, aveva sfiorato col viso la spalla nuda di lei cosparsa da un velo di sudore, percependone effluvi di giovinezza e femminilità , si sentì quasi venir meno dall’eccitazione e si abbandonò ai sogni più voluttuosi.
Nei giorni che seguirono l’ussaro e la fanciulla s’incontrarono con vari espedienti.
Louise seguiva il reggimento quando manovrava per le esercitazioni nelle campagne circostanti; vestita da amazzone, montava una scattante cavallina dalla gualdrappa ricamata con la ‘N’ imperiale. Spesso, imbrigliati i cavalli a un cespuglio, i due giovani passeggiavano a lungo, tenendosi per mano e scambiandosi sguardi appassionati. Nei loro discorsi si alternavano brevi momenti di effusioni a lunghi ragionamenti sulla personalità e la sorte dell’Imperatore. Le notizie che le gazzette portavano da Parigi in quello scorcio di maggio facevano presagire la guerra, e i due innamorati congetturavano sulle mosse che avrebbe fatto Napoleone. Era il loro idolo, di più, era un amore, una passione, un’esaltazione comune che faceva delle loro un’unica anima, un unico sentire. Inevitabilmente, i baci e le carezze via via più audaci seguirono a quell’intimità di natura, per così dire, ‘politica’, ma, sempre, quando le ragioni del cuore e dei sensi prendevano il sopravvento, si sentivano a disagio, quasi avessero tradito il vero amante.
Nei primi giorni di giugno i segnali di guerra si fecero più insistenti. Si vociferava che Wellington stesse raccogliendo un esercito a Bruxelles per marciare contro la Francia. Giunsero cadetti a rinforzare i ranghi del reggimento e le esercitazioni divennero più intense.
Dopo lunghe preghiere Louise ottenne da Henri una vecchia divisa, la portò a casa e, lavorando nascostamente di forbici e cucito, l’adattò alla sua figura.
Una sera uscì di casa con un pretesto, si cambiò d’abito presso un’amica compiacente e si presentò sul campo delle manovre vestita da ussaro.
Le donne in uniforme non erano cosa rara nell’Armée. Napoleone l’aveva vietato, ma ufficiali e truppa disobbedivano di continuo; molti portavano con sé la propria donna in divisa militare, mentre i commilitoni fingevano di non accorgersene. La cosa non era certo ignota allo stesso Imperatore che, tuttavia, come sempre quando si trattava dei suoi soldati, chiudeva un occhio.
Improvvisamente il reggimento ricevette l’ordine di mettersi in marcia verso la frontiera belga. Henri, disperato, non poté far altro che lasciare un biglietto a Louise.
 “E’ la guerra! Ci dirigiamo verso il Belgio. Addio. Tornerò. Ti amo.”
Louise pianse tutto il giorno e la notte seguente. All’alba del 10 giugno scrisse un biglietto per la famiglia:
“Vado a raggiungere l’esercito. So che mi riterrete pazza, e forse lo sono. Vi chiedo perdono. Pregate per me, per Henri e per l’Imperatore. Che Dio ci aiuti! Vi voglio bene. Addio!”
Indossò la divisa da ussaro, buttò in una sacca pane, formaggio e una bottiglia di vino, montò la sua cavallina e si gettò a spron battuto sulle tracce del reggimento. Lo raggiunse dopo trentasei ore. Cercò il suo ussaro, lo trovò e gli volò fra le braccia. Un profluvio di lacrime, sorrisi, confuse spiegazioni, rimproveri e dichiarazioni d’eterno amore si mescolarono a frenetici abbracci, a baci, a morsi di passione…
Grazie alla comprensione degli ufficiali che dividevano la tenda con Henri e che si allontanarono con discrezione, finalmente i due ragazzi rimasero soli. Gettate furiosamente le divise a terra, caddero sul primo pagliericcio che trovarono e si amarono. Era la prima volta. Fu un’unione intensa, tenera e ardente, gioiosamente ripetuta.
I giorni successivi i due amanti cavalcarono a fianco a fianco in estenuanti marce e manovre. Il 16 giugno si trovarono incorporati nel IV corpo di D’Erlon, sulla strada che congiunge Ligny a Quatre Bras. Sentivano tuonare il cannone dalle due località e spasimavano dal desiderio di combattere. Purtroppo, ordini ambigui e contrordini del Maresciallo Ney fecero sì che il IV corpo passasse la giornata a marciare avanti e indietro sulla strada che collegava i due campi di battaglia, senza potersi misurare in nessuno dei settori di guerra.
La delusione fu tale che, la notte seguente, Henri e Louise, anziché amarsi, stettero all’addiaccio, davanti a un fuoco di bivacco, partecipando alle infinite discussioni sull’accaduto. Ogni tanto – gran brutto segno! – affiorava nei commenti di questo o di quell’ufficiale la parola tradimento! Il nervosismo che pervadeva tutto l’esercito si era impossessato anche dei due innamorati. Louise imprecava come un soldataccio contro i generali e scuoteva la testa ogni volta che si nominava il Maresciallo Ney, ricordando che aveva giurato fedeltà al Borbone e promesso, dopo lo sbarco di Antibes, di riportargli l’Imperatore in una gabbia di ferro. Henri la zittiva, ma senza asprezza, perché in cuor suo pensava le stesse cose. La guardava con tenero compiacimento mentre lei, con gli occhi accesi da una fiamma più forte di quella del bivacco, arringava gli altri ufficiali e gridava: “Abbasso i traditori! Viva l’Imperatore! “, suscitando un coro di consensi e il ritmico grido: “Vive l’Empereur!” che sembrava propagarsi da un fuoco all’altro degli attendamenti, dall’uno all’altro campo di battaglia in una sorta d’isteria collettiva.
Come Dio volle, anche quella nottata passò.
Il diciassette, tutto l’esercito si schierò nella piana di Mont-Saint-Jean. Si sapeva che i Prussiani erano in fuga, inseguiti dal Maresciallo Grouchy con un terzo dell’armata e che, oltre la cresta del modesto rilievo chiamato Mont-Saint-Jean, Wellington stava raccogliendo le sue truppe.
Quel giorno non si sparò. I soldati impiegarono il tempo a ripulire e ricucire le divise e a domandarsi, scuotendo la testa, perché non ci si affrettasse ad attaccare il nemico ancora in fase di riorganizzazione.
Henri e Louise, finalmente, videro l’Imperatore.
Egli, nel corso di un’improvvisa sortita, apparve tra un nugolo di ufficiali di stato maggiore e staffette, ispezionò attentamente il terreno, fece piazzare batterie di cannoni, rivolse qualche parola ai suoi prediletti granatieri, quindi inchiodò lo stallone davanti agli ussari e li fulminò con gli occhi. Era pallido e gonfio, sotto il piccolo cappello a due punte, e indossava una redingote grigia sopra la divisa dei cacciatori a cavallo ornata dalla sola croce della Legion d’Onore.
Louise si sentì morire quando lo sguardo d’acciaio si posò e ristette su di lei. L’Imperatore non disse nulla; accennò soltanto un lieve sorriso che gli rialzò gli angoli della bocca, spianandogli la ruga tra le sopracciglia, scrollò le spalle e girò la cavalcatura, allontanandosi al galoppo. Forse aveva riconosciuto una donna nella divisa di ufficiale, forse aveva ripensato all’avventura vissuta al Cairo quando, scoperta l’avvenente Bellitote vestita da soldato accanto al marito, lungi dall’infliggere punizioni, aveva rispedito in Francia il consorte e si era tenuto lei – divisa e contenuto – come amante.
Henri e Louise si guardarono con espressione di sollievo, poi, felici ed esaltati da quell’incontro, tornarono sorridendo a lucidare sciabole e a rassettare uniformi. Quella notte dormirono sul campo, avvolti in una coperta, in mezzo al fango, sotto una pioggia battente. Si amarono in silenzio, freneticamente, insaziabilmente, cercando di spegnere nell’amplesso l’eccitazione per l’incontro con l’Imperatore e quella più sottile, mista a paura, per la grande battaglia dell’indomani.
La mattinata del diciotto, fin quasi a mezzogiorno, fu esaltante. Le truppe si schierarono ordinatamente al suono delle fanfare e dei tamburi; ottantamila uomini ornati di rutilanti divise manovrarono in ordine perfetto sul ristretto campo di battaglia.
Louise, sempre accanto al suo Henri, ammirava estasiata gli squadroni dei corazzieri, dei dragoni, dei lancieri, le guardie a cavallo e, più lontano, i folti battaglioni dei granatieri della Guardia Imperiale, i quali – rassicurante presagio di vittoria – avevano indossato la divisa da parata e calzato il berrettone di pelo d’orso, custodito gelosamente nelle sacche di cuoio. Era l’uniforme delle grandi sfilate davanti all’Imperatore, ma anche la livrea della morte, indossata quando si prevedeva che i granatieri sarebbero andati al fuoco per dare il colpo di grazia al nemico. La Guardia Imperiale era l’ultima, decisiva riserva, accuratamente risparmiata dall’Imperatore in tutte le campagne.
A mezzogiorno, o poco prima, tuonò il cannone. Louise sentì il cuore batterle forte e strinse la sua cavallina allo stallone di Henri.
Poi fu l’inferno.
Il fumo dei mortai e della fucileria, i vapori che si levavano da terra, il rombo incessante delle armi da fuoco, le grida degli ufficiali, il nitrire dei cavalli impedivano di vedere, di sentire, di capire cosa stesse accadendo.
Andò avanti così per ore.
Louise affiancava Henri come un automa, procedendo con il reggimento, ritirandosi, avanzando di nuovo. Se si guardava intorno, vedeva i ranghi degli ussari farsi via via più sottili; quelli che avevano perso il cavallo, ucciso durante una carica, tornavano all’attacco correndo aggrappati alla staffa di un cavaliere con la bestia ancora indenne. Il terreno diventava sempre più malagevole a causa dei corpi caduti che ostacolavano la marcia. Dopo un po’ la fanciulla non ci fece più caso e continuò a seguire il battaglione, ridotto a un drappello, spronando la sua bestiola che grondava sangue, calpestando con indifferenza morti e feriti, lo sguardo attento ormai solo al suo Henri e alla bandiera.
I cavalieri sembravano un’onda che avanzava e si ritraeva seguendo quel vessillo che, troppo spesso, cadeva di mano all’alfiere colpito ed era risollevato da un altro ancora vivo. Nessuno sapeva cosa stesse succedendo.
Quando la stanchezza, la confusione e il terrore rischiavano di avere il sopravvento, Louise gridava: ‘Viva l’Imperatore’, e l’acclamazione veniva ripetuta da tutti i soldati ancora validi che, rincuorati, riprendevano la marcia incitando il cavallo esausto.
Verso le sei del pomeriggio ci fu un attimo di pausa. Per qualche istante un silenzio innaturale cadde sul campo di battaglia. Louise fu presa dal terrore e si sporse ad afferrare una mano di Henri che si guardava intorno cercando di capire. Il fumo che gravava su quell’immenso mattatoio prese a diradarsi; un rumore ritmico e sordo crebbe alle loro spalle. Qualcuno gridò: “La Guardia va al fuoco!” Il grido, ripreso da mille altri, si propagò in tutto il campo.
Tra le nubi di fumo che si sfioccavano verso nord, apparvero i massicci battaglioni della Guardia. Le facce di granito sotto i berrettoni di pelo, i fucili spianati, il passo lento e pesante, marciavano al rullo dei tamburi che segnavano il pas de charge. Henri e Louise si fecero da parte mentre l’implacabile schieramento della ‘Guardia di Mezzo’, ultima riserva, si avvicinava.
Alla testa delle colonne, accanto alla bandiera tricolore con l’asta ornata dall’aquila imperiale, a piedi, col suo bicorno, il pastrano grigio, le mani dietro la schiena, marciava l’Imperatore.
Fu proprio all’altezza dei superstiti ussari, a pochi metri dai due giovani, che alcuni ufficiali presero a implorarlo di fermarsi, di non andare oltre sotto il fuoco nemico. Napoleone sembrava non ascoltare, tanto che, alla fine, fu trattenuto con la forza. La Guardia proseguì impassibile mentre i tamburi acceleravano il ritmo per affrettarne il passo; ogni dieci metri, da quella massa d’uomini avviati in ranghi serrati verso la morte, si levava il grido “Vive l’Empereur“.
Poi fu ancora l’inferno, mentre il campo di battaglia scompariva nuovamente, avvolto dal fumo delle artiglierie.
Caddero i cavalli e i due giovani si abbracciarono impetuosamente.
Louise si avvinghiò a Henri in preda alla più grande esaltazione.
“La Guardia, la Guardia va all’assalto! La battaglia dunque è vinta! Questo è il colpo di grazia dell’Imperatore!”
Henri, stordito, la stringeva a sé aguzzando gli occhi verso la linea del fuoco, nel vano tentativo di seguire il corso del combattimento. A un tratto strinse Louise con più forza: le masse brune dei granatieri che marciavano all’attacco stavano ondeggiando, si fermavano… Che cosa accadeva? Una voce gridò: “La Guardia indietreggia!”
Louise guardò Henri, quasi implorandolo: “Non è possibile, non è possibile, la Guardia non può essere fermata, la Guardia è il suggello della vittoria… Henri, Henri!” Scuotendo l’amante che sembrava inebetito, domandò convulsamente: “Ma che sta succedendo?”
Henri fissò sbalordito il volto di Louise annerito dal fumo delle fucilate.
“Louise, la Guardia si ritira… si ritira… “, mormorò con voce di pianto.
Sfilavano davanti a loro, indietreggiando, i battaglioni della Guardia, falcidiati, ma sempre compatti; le cannonate abbattevano intere file di granatieri, ma subito i superstiti ricomponevano i ranghi. Il terrore s’impadronì dell’esercito: fuggiaschi di tutti i reparti gettarono le armi intralciando l’ordinato ripiegamento della Guardia. Mentre i granatieri formavano i quadrati per ritardare l’avanzata del nemico, si gridava “Tradimento!” e “Si salvi chi può!”
Anche gli ussari caddero in preda al panico. Henri, con la spada sguainata, cercò di fermarli e raggrupparli. Una fucilata lo colse in pieno petto. Cadde, e Louise si gettò a terra accanto a lui. Gli sollevò il capo e lo sorresse stringendolo a sé mentre puliva alla meglio il sangue che gli colava tra le labbra. Henri le posò faticosamente un braccio intorno alla vita e la guardò con impotente passione, cercando invano di parlare. Louise si chinò a baciarlo. Un proiettile le squarciò la schiena inarcandole improvvisamente il corpo e sollevandole il capo all’indietro. Perse il berretto e i capelli si sparsero sul volto stupito, mentre un fiotto di sangue le sgorgava dalla bocca. Con uno sforzo immane chinò di nuovo la testa sul volto di Henri e lo baciò confondendo il proprio sangue col suo.
Così morirono i due amanti. Così furono trovati la mattina del 19 giugno 1815, sul campo insanguinato di Waterloo.
Fra i corpi depredati dei tanti caduti, i due innamorati giacevano avvinti e composti, nell’ultimo, rispettato abbraccio.
Nota
Lo sciacallaggio sul campo di Waterloo è documentato in tutti i resoconti. La cosa era, del resto, abituale su ogni campo di battaglia. L’esempio veniva dagli stessi soldati dell’esercito vincitore, che si sbandavano e rapinavano i morti e i feriti, mentre le truppe migliori inseguivano il nemico battuto. A Waterloo il generale Cambronne, colpito in fronte da una palla di fucile in mezzo ad uno degli ultimi quadrati della Guardia, fu trovato, ancora vivo (morirà nel 1842), ma completamente spogliato: letteralmente nudo. Â
S’ignora il nome dei due amanti, ammesso che l’episodio dei due cadaveri abbracciati sia vero e non frutto, ad colorandum, della fantasia di uno dei tanti memorialisti superstiti della battaglia.
Certamente il fatto è plausibile perché, a Waterloo, oltre alle vivandiere e alle mogli di soldati e ufficiali, ci furono anche donne in divisa, ‘arruolate’ clandestinamente dai loro amanti.
Chi ha interesse può leggere alcuni ottimi libri:
- David G. Chandler: ‘Le campagne di Napoleone’, Milano, 1968.
- D.G. Chandler: ‘Waterloo’, Milano, 1982.
- Georges Blond: ‘Storia della “Grande Armée”, Milano, 1979.
- John Sutherland: ‘Uomini di Waterloo’, Roma, 1967.
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