STORIA: LETTERATURA: Don Aurelio Frezza. Una testimonianza di guerra di valore storico e letterario
21 Febbraio 2020
di Bartolomeo Di Monaco
Vi ho giĂ detto del libro di guerra che sto leggendo, “I militari italiani nei campi di prigionia francesi”, di cui è autore Andrea Giannasi, editore anche della casa editrice che l’ha pubblicato, la quale sta formano una collana invidiabile dedicata alle due guerre mondiali con documenti e testimonianze di guerra difficilmente trovabili altrove.
Nella lettura mi sono imbattuto di una testimonianza rara per bellezza narrativa, con un suo splendore che la innalza sopra le tristezze della guerra. Essa appartiene a don Aurelio Frezza, cappellano militare in Algeria, catturato dai degollisti, ossia i soldati francesi della Francia libera di De Gaulle. I prigionieri italiani era trattati malissimo dai francesi, il quale si erano legata al dito la nostra proditoria dichiarazione di guerra contro la loro Patria, mentre già stavano soccombendo sotto le massicce forze tedesche, ormai stremati e vicini alla resa. Considerarono quella dichiarazione di guerra un “coup de poignard dans le dos”, vale a dire una pugnalata alle spalle, e dunque li trattavano come se fossero tenuti in un lager.
Don Aurelio era diventato un punto di riferimento per tutti gli italiani ivi rinchiusi in varie baracche, e anche dei vari parroci che si trovavano con lui a proteggere le anime dei reclusi. Anch’essi traevano il coraggio necessario dalla forza e vigoria di questo sacerdote, che non ebbe paura di niente e seppe affrontare con rispetto ma con decisione le autoritĂ onde convincerle ad un trattamento piĂą umano.
La sua testimonianza è in pratica, per la sua consistenza, un libro dentro il libro, e lo illumina, lo rende prezioso. Ho letto tanti diari, tante relazioni di guerra e di prigionia, ma il lavoro di don Aurelio Frezza si eleva a opera d’arte, maturata nel dolore e affrontata con coraggio e serenitĂ dello spirito.
Purtroppo non posso farvi leggere qui che un breve stralcio, ma vi assicuro che la luminositĂ di contenuto e di forma che troverete in questo brano accompagna ogni pagina del diario.
“IL CONDANNATO A MORTE
L’avevo visto passare qualche volta nel cortile, sempre accompagnato da un guardiano armato. Mi avevano raccontato la sua storia ma non avevo mai avuto il coraggio di salutarlo o comunque di rivolgergli la parola. Cosa del resto che era anche proibita dal regolamento.
All1 indomani della condanna, il comandante della prigione mi chiamò per dirmi:
“Il tenente Oberlè, sapete, quello che è stato condannato a morte ieri, ha espresso il desiderio di avervi qualche ora con lui. Siete disposto? Si tratta di sostenergli il morale. Non gli ricorderete certo che sarĂ ucciso, nĂ© gli parlerete di politica. Voi saprete parlargli di religione, di fede, ecc.”
“Sta bene. Accetto.”
Avvenne così che mi trovai tutti i giorni, due ore al mattino e tre ore nel pomeriggio, chiuso a chiave con lui e con un sottufficiale francese, condannato anche lui, con l’incarico di distrarre e sorvegliare Oberlè, nel piccolo cortile dell'”Ă©bouillantage”.
Da principio mi sentii preso da una strana sensazione di smarrimento, come chi affronta qualche cosa di inusitato ed oscuro. E pensai alla noia, alla tristezza dei lunghi giorni che mi attendevano lĂ in quel piccolo recinto. Ma dovetti ricredermi ben presto.
Con Scharf, il capitano tedesco condannato nel medesimo affare, sarebbe stato diverso. Vi avrei certamente perduto la testa o avrei dovuto dare le dimissioni. Oberlè invece mi rivelò una tempra d’uomo e di cristiano che mi incoraggiò. Una frase da lui pronunciata dice tutto:
“La piĂą bella morte deve essere proprio quella che mi aspetta. Ho il tempo di prepararmi, e poi … un attimo … e si passa. Non vi pare?”
Egli aveva ritrovato la fede qualche tempo prima e l’aveva rinvigorita in prigione. Una fede quadrata, operosa, senza incrinature e sdolcinatezze, quale si riscontra nelle “Lettere di S. Paolo” e nella “Vita di Cristo” del Papini, due libri che leggevamo e commentavamo assieme.
La sua buona cultura, lo spirito aperto e soprattutto il suo forte morale ci permettevano di fare lunghe discussioni sui piĂą svariati temi.
Non mancavano le distrazioni: il gioco delle bocce con ciottoli raccolti nell’orto del comandante e le spassose trovate del buon Toffolì, chioggiotto di origine, spagnolo un tempo, francese ultimamente. Inoltre non mancavano gli scherzi ai secondini.
Oberlè aveva sempre pronto un rebus, una frase a doppio senso, un complimento malizioso, con cui soverchiava i guardiani che l’attorniavano.
Conquery, uno di questi, mal si adattava alle stoccate:
“Sempre lo stesso, voi. Ma quando sarete al muro mi farete regalo della vostra testa. ”
“Mi dispiace di non poterlo fare. Una zingara mi ha assicurato che non sarò giustiziato. Quindi attenderete invano. ”
Le guardie si lagnavano che noi tre davamo piĂą da fare che non tutti gli altri messi assieme. Questo a causa di quella porta arrugginita che dovevano aprire parecchie volte al giorno.
Specialmente Blanc era un pigrone ogni qualvolta lo si chiamava. Una volta aspettavo inutilmente da parecchio tempo che mi venisse ad aprire. Niente.
Poco dopo mi vide arrivare di corsa, ansante, col cuore in gola:
“Blanc, Blanc, presto.”
“Che succede?”
“LaggiĂą si stanno picchiando. Baruffano. Venite, presto.”
E via tutti e due di corsa attraverso il cortile fra la meraviglia dei detenuti. Arrivati davanti alla famosa porta arrugginita, Blanc l’aperse in un volo, precipitosamente.
“Grazie, Blanc! ”
E Blanc, ansante sulla soglia, dovette suo malgrado ridere di fronte ai miei due compagni, sereni e tranquilli come due agnellini.
Si scherzava, dunque, ma non è detto che fossimo disposti a porre una firma per restare lĂ dentro. Oberlè pensava alle probabilitĂ della Cassazione, piĂą tardi al ricorso di grazia. Toffolì pensava alla sospensione della pena o all’amnistia. “Perdinci, il 14 luglio dovran pure concedere una amnistia!”
Io sognavo il giorno in cui me ne sarei andato. Mi sforzavo di non farlo capire e quando mi si diceva:
“Eh, voi uscirete presto; il vostro caso non sta in piedi.” Rispondevo:
“Cari miei, se quelli lĂ si attengono alla politica che sapete, son capaci di condannarmi a dieci anni. Non bisogna farsi illusioni. Vedrete, io sarò ancora qui quando voi due uscirete. ”
“Possibilissimo – rispondeva Oberlè – che io esca prima di voi una di queste mattine, all’alba, con una scorta armata.”
“(Oh lĂ , lĂ , sempre così voi. Ma andiamo, dunque, non ci pensate. Noi ci incontreremo un giorno e berremo un bicchiere assieme. A Belluno magari! Non è vero signor Cappellano?”
Cosi lo redarguiva Toffolì, con un tono comicamente irato, ogni volta che Oberlè accennava alla fucilazione.
Oberlè l’avrebbe sicuramente desiderato. Si notava in lui un travaglio continuo nel valutare le probabilitĂ positive e negative. Attraverso le poche notizie che riuscivamo ad avere, i creava di scoprire un eventuale cambiamento di politica, in rapporto ai suoi ideali, diceva lui; in rapporto alla sua sorte, pensavo io. In realtĂ la pena capitale gli era stata decretata non tanto per i fatti imputatigli quanto per le esigenze del momento. E un “revirement” in alto gli avrebbe certamente spalancato le porte.
Questo affanno, questa attesa angosciosa, sebbene bellamente simulata, ci opprimevano e noi cercavamo di portargli notizie c di interpretarle in senso favorevole.
Tre mesi e mezzo passarono così. Dato che un’esecuzione doveva aver luogo entro i tre mesi dalla condanna, i giorni che si succedevano al di lĂ del termine potevano costituire un buon segno. Lui ci credeva e non ci credeva.
Una sera nel lasciarci, gli dissi come d’abitudine:
“A domani.”
“Si – mi rispose con un sorriso amaro – a domani… forse.”
E poiché io lo rimbeccavo, replicò:
“Non si sa mai. Devo pur tenermi sempre preparato, no?” Confesso che ogni mattina passando davanti alla sua cella un vago timore mi prendeva di vederla vuota. Ma no, egli era ancora lĂ dietro le sbarre, che mi attendeva per scambiare il buon giorno. Allora salivo con il cuore piĂą leggero a dire la mia Messa.”.
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