STORIA: LETTERATURA: I MAESTRI: Marciare cantando23 Ottobre 2011 di Carlo Laurenzi In uno dei film triviali che le platee apprezzano in queste settimane, c’è una scena ab bietta immediatamente seguita da uno scatto di grazia. Ci troviamo in una città del Ve neto, puntualmente e ipocrita mente corrotta: un personag gio barbuto, «umanista » equi voco, sta in agguato nei pa raggi di un vespasiano. Mera vigliarsene, scandalizzarsene? Che candore. Ma d’improvvi so uno squarcio, la luce del technicolor si fa giallastra, rag giante; trent’anni vengono abo liti nel lampo; il personaggio è ancora lui, barbuto, giovane con occhi dardeggianti in fez e sahariana, energico ma fles suoso nel passo, e un drap pello di ragazzi in divisa lo segue, né si danno dubbi sul tipo di affezione del capomanipolo per quel suo drappello. « Forza fioi, voce fioi » esorta il capomanipolo, petto in fuo ri e sguardo assassino. La marcia è ritmata da un inno: « E va, la vita va, con sé ci porta, ci promette l’avvenir ». Si tratta dell’inno ufficiale dei Giovani Fascisti, che comin ciava incredibilmente con le parole: « Fuoco di Vesta che fuor dal tempio erompe ». Il pubblico ride. Buona parte del pubblico ha dimenticato quel l’inno; parecchi non l’avevano udito mai. * Me ne sto pensieroso. Non a causa del capimanipolo del la GILdalle tendenze aber ranti: non ne ho conosciuti. Mi rammento solo di capima nipolo (una minoranza dei quali con barba) la cui viri lità era o sembrava veemente. Avevano semmai baffetti sot tili, talché credo che Clark Cable fosse il loro modello. Abusavano di brillantina; i loro crani ben chiomati pare vano elmi. Formavano una setta di uomini vanitosi, quasi sempre stupidi. Il sabato era il loro pomeriggio di gloria. Suscettibili, potevano spinger si a schiaffeggiare i ragazzi dal fazzoletto giallo-cremisi, se sospettavano manomesso il proprio sussiego. « Non m’importa se sei boxeur, hai capi to, cialtrone, non m’importa se sei boxeur » gridava un piccolo, isterico capomanipolo a un gregario, e lo scuoteva per la giubba. Toscanamente pronunciava boissièr; il ragaz zo, reo di non avere spento la sigaretta al segnale di aduna ta, lasciava fare. Era torpido, quasi bovino; prometteva be ne come medio-massimo. Re pentinamente il suo sinistro scattò, e non ho mai veduto un k.o. così perentorio. Queste sono memorie futili, memorie goliardiche. Da un certo punto di vista, è chiaro, divengono struggenti, man ma no che il tempo passa. Chi di noi, compresi coloro che ci credettero, non ha rinnegato il carnevale fascista? Ma Silvio Negro una quindicina d’anni fa (a proposito: fanno giusto dieci anni ora, giorno più gior no meno, che Negro ci ha la sciati) dovette preparare per la televisione un programma rievocativo sul ventennio di Mussolini. Lo condusse a ter mine con senno e onestà: no nostante questo, o appunto per questo, la critica di sinistra e di destra lo colmò di contu melie. Parlandomene Negro ruggì (egli era solito ruggire): « Che diavolo vogliono? Ho cercato di essere obiettivo, e può darsi che non ci sia riu scito. Dimenticano una cosa importante: io, al tempo degli squadristi, ero giovane. Lo sanno che significa, nell’amore o nell’odio, la giovinezza? Non restano né amore né odio: re sta la giovinezza, il rimpianto della giovinezza, e non c’è null’altro che conti ». Io, che al lora non capii, credo adesso di cominciare a capire. * Rivedo quei ragazzi dal faz zoletto giallo-cremisi (o azzurro: i nostri, segno di supre mazia culturale o castale, era no azzurri), e odo quell’inno, altri inni. L’inno degli studenti universitari, che alternavamo al « Fuoco di Vesta », ritraeva verità degne di commiserazio ne, in anni nei quali la mag gioranza delle case â— e delle aule, e dei pensionati goliardici â— era priva di riscalda mento: « Oh nude stanze – fredde e squallide nell’ora di studiar – dove speranze – sogni e canti ognor ci vengono a trovar »: durava la goliardia delle caterinette, Addio giovi nezza con appena un ondula re di swing. Il fascismo â— oh il fascismo â— mordeva poco, sebbene preparasse catastrofi. Alcuni di noi lo esecravano, di quell’esecrazione ilare e di rei misericordiosa che era pe culiare dell’adolescenza. Quan do cantavo: « E va, la vita va, con sé ci porta, ci promette l’avvenir », l’impeto dell’avve nire accarezzava sogni di li bertà, regicidio, deicidio. Na turalmente, eravamo in mino ranza. Lo sciocco inno ci uni va agli altri, ai conformisti. Molti, cantando e marciando, erano fieri del duce, del re, dell’impero, dell’asse, del ma re nostrum. Moltissimi non pensavano a nulla, non sape vano nulla. Siamo stati da gio vani (lo proclamano i giovani d’oggi) una generazione ba lorda. Possiamo tentare di riabili tarla? Inclino a pensare di sì: eravamo balordi, ma dignito si, umili, sentimentali, anche coraggiosi. Quando venne la guerra, tutti a poco a poco (anzi, rapidamente) smisero di giurare nel duce; nondime no abbiamo fronteggiato la carneficina. Opaco sangue ita liano è stato sparso nel mon do. La resistenza, infine, è sta ta nostra; una dose d’orgoglio ci premia, non importa se ste rile. Quelli che non pensavano a nulla e non sapevano nulla furono i più bravi: la memo ria di martiri senza nome o di trascurabile nome. Anche la ricostruzione (la Ricostru zione,la Resistenza, così si scriveva ieri) è stata nostra. L’avvenire â— « l’avvenir » del quale cianciava l’inno â— è in noi, su noi, divenuto presente che non ha lusinghe. Ma non è questo il veleno di ogni ge nerazione? Dinanzi ai giovani d’oggi e al loro scherno e ai loro atti d’accusa, non mi sento di calcare la mano sulle nostre colpe. Reagendo alla moda: non mi sembra affatto sensato adulare i giovani d’og gi. I loro problemi non sono più gravi di quelli che furono i nostri. Se la caveranno. Deb bono a noi l’essere liberi, non meno che l’avvalersi e il lagnarsi delle tecnocrazie. I nostri autentici « fratelli mi nori » sono i ragazzi che pro vano rassegnazione o disgusto nei paesi dove regna l’ordine, costretti a marciare cantando. * Per concludere. Una cosa che non capisco è il partico lare tipo di pessimismo che vien su dalle pagine del cao tico libro di Alberto Baumann Se esco vivo da qui, fresco di stampa. Libro caotico ma, si badi, non impoetico: contiene, per esempio, accenni a un idil lio ginnasiale o liceale ricco di una penetrante purezza. Chiunque ha il diritto di professarsi pessimista; ma Baumann è, talvolta, illecitamente piagnucoloso. In un certo sen so, ho simpatia per lui: supe rati i trentacinque anni, si ostina a dichiararsi un ragazzo battuto. Non lo conosco di persona; un amico me lo di pinge come un raro « anar chico socialdemocratico », e infatti Baumann fornisce al quotidiano socialdemocratico Umanità prose di sapore anar coide. Nel libro Se esco vivo da qui (sottotitolo: « Racconti di strade e di tempo ») Alber to Baumann non cessa di com miserarsi in quanto ebreo, « ragazzo ebreo » umiliato e offeso alla stregua dei paria. Questo atteggiamento, consi derata la realtà Israele nella quale Baumann afferma di credere, non ha più senso: Israele fortezza assediata; e scuola di perseveranza. Coraggio Baumann. Al di là delle «convenienze » politiche Israele ci scuote; i suoi freddi ragazzi-soldati rendono vero un paradigma che avremmo voluto nostro. Il loro canto â— ammesso che cantino inni â— è consapevole: il diritto come libertà, la disciplina come ri schio, la pazienza come av ventura, la democrazia come orgoglio con semplicità. Letto 2025 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||