Libri, leggende, informazioni sulla città di LuccaBenvenutoWelcome
 
Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

STORIA: LETTERATURA: I MAESTRI: Marciare cantando

23 Ottobre 2011

di Carlo Laurenzi
[dal “Corriere della Sera”, venerdì 7 novembre 1969]

In uno dei film triviali che le platee apprezzano in queste settimane, c’è una scena ab ­bietta immediatamente seguita da uno scatto di grazia. Ci troviamo in una città del Ve ­neto, puntualmente e ipocrita ­mente corrotta: un personag ­gio barbuto, «umanista » equi ­voco, sta in agguato nei pa ­raggi di un vespasiano. Mera ­vigliarsene, scandalizzarsene? Che candore. Ma d’improvvi ­so uno squarcio, la luce del technicolor si fa giallastra, rag ­giante; trent’anni vengono abo ­liti nel lampo; il personaggio è ancora lui, barbuto, giovane con occhi dardeggianti in fez e sahariana, energico ma fles ­suoso nel passo, e un drap ­pello di ragazzi in divisa lo segue, né si danno dubbi sul tipo di affezione del capomanipolo per quel suo drappello. « Forza fioi, voce fioi » esorta il capomanipolo, petto in fuo ­ri e sguardo assassino. La marcia è ritmata da un inno: « E va, la vita va, con sé ci porta, ci promette l’avvenir ». Si tratta dell’inno ufficiale dei Giovani Fascisti, che comin ­ciava incredibilmente con le parole: « Fuoco di Vesta che fuor dal tempio erompe ». Il pubblico ride. Buona parte del pubblico ha dimenticato quel ­l’inno; parecchi non l’avevano udito mai.

*

Me ne sto pensieroso. Non a causa del capimanipolo del ­la GILdalle tendenze aber ­ranti: non ne ho conosciuti. Mi rammento solo di capima ­nipolo (una minoranza dei quali con barba) la cui viri ­lità era o sembrava veemente. Avevano semmai baffetti sot ­tili, talché credo che Clark Cable fosse il loro modello. Abusavano di brillantina; i loro crani ben chiomati pare ­vano elmi. Formavano una setta di uomini vanitosi, quasi sempre stupidi. Il sabato era il loro pomeriggio di gloria. Suscettibili, potevano spinger ­si a schiaffeggiare i ragazzi dal fazzoletto giallo-cremisi, se sospettavano manomesso il proprio sussiego. « Non m’importa se sei boxeur, hai capi ­to, cialtrone, non m’importa se sei boxeur » gridava un piccolo, isterico capomanipolo a un gregario, e lo scuoteva per la giubba. Toscanamente pronunciava boissièr; il ragaz ­zo, reo di non avere spento la sigaretta al segnale di aduna ­ta, lasciava fare. Era torpido, quasi bovino; prometteva be ­ne come medio-massimo. Re ­pentinamente il suo sinistro scattò, e non ho mai veduto un k.o. così perentorio.

Queste sono memorie futili, memorie goliardiche. Da un certo punto di vista, è chiaro, divengono struggenti, man ma ­no che il tempo passa. Chi di noi, compresi coloro che ci credettero, non ha rinnegato il carnevale fascista? Ma Silvio Negro una quindicina d’anni fa (a proposito: fanno giusto dieci anni ora, giorno più gior ­no meno, che Negro ci ha la ­sciati) dovette preparare per la televisione un programma rievocativo sul ventennio di Mussolini. Lo condusse a ter ­mine con senno e onestà: no ­nostante questo, o appunto per questo, la critica di sinistra e di destra lo colmò di contu ­melie. Parlandomene Negro ruggì (egli era solito ruggire): « Che diavolo vogliono? Ho cercato di essere obiettivo, e può darsi che non ci sia riu ­scito. Dimenticano una cosa importante: io, al tempo degli squadristi, ero giovane. Lo sanno che significa, nell’amore o nell’odio, la giovinezza? Non restano né amore né odio: re ­sta la giovinezza, il rimpianto della giovinezza, e non c’è null’altro che conti ». Io, che al ­lora non capii, credo adesso di cominciare a capire.

*

Rivedo quei ragazzi dal faz ­zoletto giallo-cremisi (o azzurro: i nostri, segno di supre ­mazia culturale o castale, era ­no azzurri), e odo quell’inno, altri inni. L’inno degli studenti universitari, che alternavamo al « Fuoco di Vesta », ritraeva verità degne di commiserazio ­ne, in anni nei quali la mag ­gioranza delle case â— e delle aule, e dei pensionati goliardici â— era priva di riscalda ­mento: « Oh nude stanze – fredde e squallide nell’ora di studiar – dove speranze – sogni e canti ognor ci vengono a trovar »: durava la goliardia delle caterinette, Addio giovi ­nezza con appena un ondula ­re di swing. Il fascismo â— oh il fascismo â— mordeva poco, sebbene preparasse catastrofi. Alcuni di noi lo esecravano, di quell’esecrazione ilare e di ­rei misericordiosa che era pe ­culiare dell’adolescenza. Quan ­do cantavo: « E va, la vita va, con sé ci porta, ci promette l’avvenir », l’impeto dell’avve ­nire accarezzava sogni di li ­bertà, regicidio, deicidio. Na ­turalmente, eravamo in mino ­ranza. Lo sciocco inno ci uni ­va agli altri, ai conformisti. Molti, cantando e marciando, erano fieri del duce, del re, dell’impero, dell’asse, del ma ­re nostrum. Moltissimi non pensavano a nulla, non sape ­vano nulla. Siamo stati da gio ­vani (lo proclamano i giovani d’oggi) una generazione ba ­lorda.

Possiamo tentare di riabili ­tarla? Inclino a pensare di sì: eravamo balordi, ma dignito ­si, umili, sentimentali, anche coraggiosi. Quando venne la guerra, tutti a poco a poco (anzi, rapidamente) smisero di giurare nel duce; nondime ­no abbiamo fronteggiato la carneficina. Opaco sangue ita ­liano è stato sparso nel mon ­do. La resistenza, infine, è sta ­ta nostra; una dose d’orgoglio ci premia, non importa se ste ­rile. Quelli che non pensavano a nulla e non sapevano nulla furono i più bravi: la memo ­ria di martiri senza nome o di trascurabile nome. Anche la ricostruzione (la Ricostru ­zione,la Resistenza, così si scriveva ieri) è stata nostra. L’avvenire â— « l’avvenir » del quale cianciava l’inno â— è in noi, su noi, divenuto presente che non ha lusinghe. Ma non è questo il veleno di ogni ge ­nerazione? Dinanzi ai giovani d’oggi e al loro scherno e ai loro atti d’accusa, non mi sento di calcare la mano sulle nostre colpe. Reagendo alla moda: non mi sembra affatto sensato adulare i giovani d’og ­gi. I loro problemi non sono più gravi di quelli che furono i nostri. Se la caveranno. Deb ­bono a noi l’essere liberi, non meno che l’avvalersi e il lagnarsi delle tecnocrazie. I nostri autentici « fratelli mi ­nori » sono i ragazzi che pro ­vano rassegnazione o disgusto nei paesi dove regna l’ordine, costretti a marciare cantando.

*

Per concludere. Una cosa che non capisco è il partico ­lare tipo di pessimismo che vien su dalle pagine del cao ­tico libro di Alberto Baumann Se esco vivo da qui, fresco di stampa. Libro caotico ma, si badi, non impoetico: contiene, per esempio, accenni a un idil ­lio ginnasiale o liceale ricco di una penetrante purezza.

Chiunque ha il diritto di professarsi pessimista; ma Baumann è, talvolta, illecitamente piagnucoloso. In un certo sen ­so, ho simpatia per lui: supe ­rati i trentacinque anni, si ostina a dichiararsi un ragazzo battuto. Non lo conosco di persona; un amico me lo di ­pinge come un raro « anar ­chico socialdemocratico », e infatti Baumann fornisce al quotidiano socialdemocratico Umanità prose di sapore anar ­coide. Nel libro Se esco vivo da qui (sottotitolo: « Racconti di strade e di tempo ») Alber ­to Baumann non cessa di com ­miserarsi in quanto ebreo, « ragazzo ebreo » umiliato e offeso alla stregua dei paria. Questo atteggiamento, consi ­derata la realtà Israele nella quale Baumann afferma di credere, non ha più senso: Israele fortezza assediata; e scuola di perseveranza.

Coraggio Baumann. Al di là delle «convenienze » politiche Israele ci scuote; i suoi freddi ragazzi-soldati rendono vero un paradigma che avremmo voluto nostro. Il loro canto â— ammesso che cantino inni â— è consapevole: il diritto come libertà, la disciplina come ri ­schio, la pazienza come av ­ventura, la democrazia come orgoglio con semplicità.


Letto 2025 volte.


Nessun commento

No comments yet.

RSS feed for comments on this post.

Sorry, the comment form is closed at this time.

A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart