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STORIA: LETTERATURA: I MAESTRI: Sulle rive della Trebbia

29 Marzo 2016

di Francesco Gabrieli
[dal “Corriere della Sera”, venerdì 17 luglio 1970]

Quanti, correndo in treno o in macchina per i rettilinei della Via Emilia (non parliamo della Strada del Sole), son di ­sposti a divergere a destra o si ­nistra, per puro richiamo di memorie? Per nostro conto, pur abbastanza sensibili a quel richiamo, abbiamo atteso pa ­recchio a intraprendere una di quelle progettate diversioni, a risalire da Piacenza la Val del ­la Trebbia, in cerca della fa ­volosa Bobbio, il cui solo nome ci alita in viso un soffio di Al ­to Medioevo. Ci attiravano là San Colombano, Angelo Mai, Maria Corti, che lì pochi anni or sono ha condotto un giro del suo Ballo dei Sapienti, o professori che dir si voglia. Membri anche noi di questa corporazione un tempo onora ­ta, ora alquanto in ribasso, non volevamo mancare di affacciar ­ci alfine, sia pur da isolati visitatori, in così degno teatro, e perciò di recente, fuggendo la calura padana, ci siamo inol ­trati in Val di Trebbia verso l’Appennino.

Assai prima di San Colomba ­no, la grande storia è passata da queste parti con Annibale; ma invano, subito fuor di Pia ­cenza, il nostro sguardo cercava dalle vetrate della corriera il fiume famoso, i villaggi di Casaliggio e Campremoldo ove De Sanctis localizza la prima battaglia sulle sue rive (altre ce ne sono poi state sulla Treb ­bia assai più tardi, e fra esse quella ove combatteva nell’esercito repubblicano in ritirata il ventenne capitano Ugo Fosco ­lo). L’ancor piatta pianura, e molteplici cortine di verde li ­mitano qui al massimo la vi ­sta, e per rievocare il passato bisogna una volta di più chie ­dere aiuto alla poesia. Ci soccorre Heredia, che qui come sempre ha stretto nelle maglie dei quattordici versi un basso ­rilievo di bronzo: la cavalleria numida che si abbevera al fiu ­me, lo squillo delle trombe romane, il barrito di un elefante, le piétinement sourd des légions en marche… Ma ecco alfine la Trebbia, non gonfia come in quel giorno d’inverno quando i legionari dovettero guadarne, per affrontare il nemico, le ge ­lide acque in piena; oggi, un magro filo d’acqua passeggia per il vasto letto ghiaioso, che sempre più a monte ormai del campo di battaglia va restrin ­gendosi nell’abbraccio delle pri ­me colline appenniniche. Addio antichità, ci viene incontro il Medioevo.

Veramente Bobbio viene incontro al visitatore in aspetto tutt’altro che medievale, ma di bene attrezzato luogo di villeg ­giatura, fra civettuole villette alberghi, e altre comodità del ­l’età nostra. I Sapienti della Corti dopo tutto non avevano scelto male il luogo del loro convegno; ma l’isolato sapiente si affretta verso ciò che resta (o la sua ignoranza presumeva restasse) dei secoli oscuri, la basilica di San Colombano e relativa abbazia. Come a Montecassino, a Nonantola e in con ­simili luoghi dai celebri nomi, credevamo vedere le tracce del ­l’illustre passato entro uno scenario ben mutato certo nel corso dei secoli, ma pur con ­servante dei tempi famosi qual ­che superstite traccia: qualche codice, qualche cimelio, qual ­che documento.

A Bobbio, trovate una gra ­devolissima basilica quattro ­centesca, un mosaico del millecento, e s’intende la tomba del santo fondatore, anch’essa nobile opera del Rinascimento. Ma resti anche minimi dell’an ­tica abbazia, di una qualsiasi biblioteca, di vero Alto Medio ­evo, nulla. Il tempo ha spaz ­zato fin le rovine dell’Antico, dove fu l’abbazia adiacente al ­la chiesa sono oggi scuole e scuolette locali, di codici e palimpsesti con o senza il De Republica di Cicerone, neanche più l’ombra. Resta il gran nome, e il ricordo di un’antica gloria. Resta anche, ripeto, il sarcofago del santo, effigiato dormiente sul coperchio in pu ­re forme rinascimentali. So ­stiamo a contemplarlo, e il pen ­siero ci corre alla sua isola di smeraldo, oggi divisa e scon ­volta da scissioni e contrasti e passioni che egli ignorò. La bol ­lente deputatessa cattolica e il furibondo pastore protestante d’Irlanda, troverebbero qui, di ­nanzi al loro comune progeni ­tore, un motivo di concordia e d’intesa? Ahimè, crediamo di no, gli uomini non amano ciò che li unisce, ma piuttosto ciò che li divide e dà loro motivo di combattersi, sopraffarsi e odiarsi, per dar ragione all’an ­tico saggio che diceva la eris regina del mondo; e i più ac ­caniti seguaci e promotori della eris, lo sappiamo tutti, sono proprio quelli che predicano la finale riconciliazione universale.

Lasciamo in punta di piedi Colombano dormente, stretto al fianco il lungo rocco con cui pasturò ai suoi giorni ecclesiastici e laici, e trattò da pari a pari con re longobardi e ponte ­fici di Roma. Ringraziamo il Rinascimento, che anziché il solito sei e settecento ha rive ­stito esso qui della sua grazia leggera quanto restava della medievale epopea. Ben poco d’altro offre Bobbio nella pa ­glietta del Touring; ma per noi c’era un privato supple ­mento, fuori guida del Touring, che ci aveva anch’esso non ul ­timo attirati fin là. In un an ­golo del suo cimitero, alto sul ­la Trebbia e aperto sulla chio ­stra dei verdi monti, abbiamo cercato un nome, di una perso ­na mai direttamente conosciu ­ta da viva, ma ben fitta nella nostra memoria. Si chiamava Umberto Ceva, era un giovane chimico di Milano che poteva farsi i fatti suoi, e godere degli affetti familiari della famigliuola adorata, e tutto invece sacrificò, affetti e avvenire e la vita stessa, alla passione per giustizia e libertà, come ricor ­da l’epigrafe di quella tomba. Nel Natale del ’30, negli anni del regime più saldamente as ­siso nel nostro paese, quando l’Ovra provò per la prima volta le sue grinfie, egli si uccise in Regina Coeli a Roma, per lo sgomento e il ribrezzo di una delazione abbietta, e la rete di insidie e manovre poliziesche che tendeva a caricar lui e i suoi amici, contro ogni verità, di sanguinosi crimini terroristi ­ci come l’attentato del piazzale Giulio Cesare, di due anni prima. Per non compromettere gli amici, e non essere infan ­gato di altrui delitti rimasti poi sempre oscuri, Ceva pre ­ferì togliersi la vita, e chiese di essere sepolto là, tra i suoi monti, dove vari anni dopo lo raggiunse la madre dei suoi fi ­gliuoli, la « dolce e ferma com ­pagna » dei suoi ideali di li ­bertà. Ma ha un senso ricor ­dare ancora queste cose, e per esse ancora commuoversi al giorno d’oggi, con tanta altra storia passataci sopra in que ­sti quarant’anni, con frutti di quello e tanti altri sacrifizi, che a volte ci appaiono così inade ­guati e deludenti? E’ come domandare il frutto del sacrifizio di Catone: vince Cesare, si sus ­seguono e poi scompaiono i Ce ­sari, muore per sempre l’ideale di libertà dell’aristocrazia ro ­mana, e mille e più anni dopo qualcuno vede in quel sacrifi ­zio l’espressione di un ideale più largo e più alto, la salvezza dell’anima umana. Sapiente, fermati in tempo nelle tue po ­vere meditazioni. Sfiora d’una carezza l’edera che incornicia la stele di marmo, ove una fi ­gura maschile e una femmini ­le si chinano ad alimentare di un pio soffio la fiamma; e con ­templa con animo il più possi ­bile placato la verde Trebbia che scorre laggiù, ignara di bat ­taglie e di dolori.

 


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Bart