STORIA: SCRITTORI DI GUERRA LUCCHESI: Divo Stagi: “Racconto della mia vitaâ€22 Ottobre 2019 di Bartolomeo Di Monaco Classe 1924, 95 anni compiuti, nativo di Fagnano, il paese confinante con il mio di Montuolo, Divo Stagi sembra un giovanotto. Fisico praticamente asciutto, di buona altezza, lucida la mente, invidiabile la memoria, lo conoscono in tanti a Lucca per il suo carattere gioviale, il piacere della conversazione e soprattutto l’amore per il prossimo. Si può dire che abbia mantenuto intatte le qualità che lo hanno contraddistinto nella vita. Tuttora si adopera per gli altri, a cui dona il proprio ottimismo e il prorompente desiderio di diffondere il bene. Quest’anno, 2019, si è voluto levare la soddisfazione di scrivere anche un libro sulla sua vita. Vanità ? No. Ancora una volta un servizio agli altri. “Attribuisco la mia formazione per il 50% alla mia famiglia, per il 40% ad alcuni dei tanti insegnanti della scuola che ho frequentato e per il 10% al gruppo e alla società .â€. È, questa, la rappresentazione di una società scomparsa, e una delle testimonianze più forti del racconto autobiografico che andremo a leggere. La famiglia e la scuola sono state fino alla metà del secolo scorso il caposaldo formativo di ogni generazione, fosse essa aristocratica, o borghese, o popolana. La famiglia soprattutto. La scuola lo è diventata a poco a poco, a mano a mano che l’insegnamento si diffondeva anche tra le classi più umili. Le amicizie avevano pure un loro peso, meno la società in cui si era inclusi, valendo molto di più la semplice vita dei rioni in città e delle corti in campagna. Oggi tutto è rovesciato. La famiglia si è disgregata e le coppie facilmente si dividono al primo sentore di sofferenza e di inadattabilità , scomparso il dovere e il sacrificio soprattutto nei confronti dei figli. La scuola ha perso rigore e competenza, mobile ad ogni spirare di vento; lo studio e la preparazione didattica, anche del corpo docente, sono diventati una opzione individuale. Per fortuna, ancora ci sono famiglie, studenti e insegnanti capaci di testimoniare i propri doveri morali e civili, ma il loro numero è così esiguo che la loro influenza nella società è assai ridotta. Disciolti questi valori, l’individuo si forma sull’esempio modaiolo diffuso da chi mira all’egoismo e al guadagno, diventando così, anche inconsapevolmente, una delle tante canne al vento. Libertà e desiderio si sono allontanati dal senso della coerenza e del dovere. La ragione è stata messa al servizio del piacere e del permissivismo, così che la società punta a divenire uno sfrenato e orgiastico sabba piuttosto che una comunità regolata da diritti e doveri. La prima parte del libro, narrando l’infanzia e la prima giovinezza dell’autore, rievoca, appunto, usanze e tradizioni, tanto religiose che popolari, che si sono perse o non hanno più il rilievo e la suggestione del passato. Ecco come si svolgeva il rito della comunione agli infermi: “A volte dopo la Messa c’era da portare la comunione agli ammalati e allora dalla porta laterale della chiesa si snodava tra le nebbie del mattino una piccola processione di povera gente con alcuni ceri accesi e Tanislao, il sacrestano che faceva l’infermiere all’ospedale, alzava con gesto solenne sopra il prete un ombrello di seta ricamato dalle suore di Vicopelago. Io precedevo il prete e portavo appeso al collo un altarino in legno pregiato fatto da Pellegro. Giunti alla casa del malato tutta la gente della processione sostava fuori in preghiera. Il prete ed io venivamo ricevuti dai familiari con tanto rispetto e accompagnati in camera del malato. A quel punto io aprivo l’altarino e lo posavo sul comò dove trovavo sempre steso un centro di lino bianco ben ricamato e due candele accese. Il prete tirava fuori da una scatolina d’argento che teneva appesa al collo l’ostia consacrata e tutti ci si inginocchiava per seguire le preghiere e la cerimonia della comunione. Al termine, se la casa del malato era vicina, la piccola processione rientrava in chiesa compatta, altrimenti si scioglieva fuori dopo un’ultima preghiera recitata tutti assieme.â€. La fanciullezza di Divo si dispiega tra la famiglia, molto religiosa, soprattutto la madre Emma che gli inculca “quello spirito di Fedeâ€, e la Chiesa, che ha in Fagnano un parroco, don Federico, che lo vuole sempre vicino a sé, il quale gli lascia in eredità un bel tavolo da cucina affinché si ricordi sempre di lui. A don Federico succederà don Gino Modena, “Aveva 26 anni ma ne dimostrava ancora meno. Alto, magro, faccia bianca da studente appena sfornato dall’esame di maturità .â€, al quale sarà lui a fare il discorso di benvenuto e ad offrire un mazzo di fiori. Don Gino morirà giovane, a 49 anni, nel 1955, a causa di un male incurabile. Aveva retto la parrocchia dal 1932 al 1955: “Quel prete influì molto nella mia formazione sia religiosa sia culturale.â€. Anche il padre Agostino (soprannominato Gustino), antifascista risoluto, sarà importante: “Ecco chi sono quelle persone lì, si chiamano fascisti e io sono antifascista. Per il momento non è il caso di dirti altro. Ne riparleremo quando sarai più grande ma da quella gente stacci più lontano che puoi.â€; “Gustino aveva una fede robusta in Dio ma voleva saper poco di Chiesa e ancor meno di preti.â€. Aveva trascorso vent’anni in America e “a San Francisco in California era riuscito a comprare un’isola creandovi una fattoria con 80 operai.â€. Siccome Divo, incoraggiato dalla madre Emma, chiamata in famiglia la Baiocca (per via del suo cognome Baiocchi), tutte le mattine si alzava per andare a servire la Messa delle sei, Gustino non mancava di dire la sua, a lui e alla moglie, ossia che era tutta fatica sprecata: “Quando il Signore sa che gli vuoi bene, non occorre andargli a rompe’ le scatole tutti i giorni.â€. Teme che il figlio sia indotto a farsi prete e un giorno, il ragazzo più grandicello, gli ricorda che lui tra i 5 figlioli è il più piccolo, ma l’unico maschio e deve tramandare il cognome di famiglia (ho conosciuto tre delle quattro sorelle di Divo, che in casa chiamavano anche col soprannome di Poldo: Diva, che abitava a Montuolo, come me – lei e mia suocera Angioletta erano molto amiche e anche parenti per parte del marito Americo detto Vincenzo -, Silvia e Lola. Non ricordo di avere conosciuto, invece, Gina). Il fascismo, coi suoi riti, lo attrae. Gli inni patriottici soprattutto, e li insegna addirittura nella sede del Fascio a Fagnano. Ogni volta che si tengono riunioni fasciste è preso da entusiasmo: “A me questi incontri piacevano e ci partecipavo con orgoglio con la mia bella divisa ben stirata dalle mie sorelle e gli scarponi alla militare ammorbiditi col grasso di maiale, la sugna.â€. Ci racconta di una sfilata al suo paese in occasione dell’anniversario della marcia su Roma, che avvenne il 28 ottobre 1924. Il corteo doveva fare omaggio ai caduti della Prima e della Seconda guerra mondiale, i cui nomi sono elencati nella lapide murata sulla parete del campanile della chiesa parrocchiale. Mentre sfilano, sull’uscio di casa ad osservarli c’è un certo Lazzaro Stagi, sui 60 anni. Il Vicesegretario Federale, Ceragioli, lo invita a prendere parte al corteo, ma lui rifiuta, cosicché il fascista “lo schiaffeggiò e lo spinse in casa a calci.â€. Divo ci fa sapere quanto quest’uomo odiasse il fascismo rivelandoci che aveva, per questo motivo, rifiutato di congiungersi al corteo che si recava a deporre una corona d’alloro presso la lapide dove erano scritti i nomi dei caduti del paese, di cui il primo era quello di suo figlio e il secondo quello di suo nipote. È il primo degli episodi che lo indurranno a riflettere sulla vera natura del fascismo. Il secondo (“Pochi istanti che rovesciarono la mia vita.â€) gli accade nel corso dell’adunata che si tiene in piazza San Michele in occasione della dichiarazione di guerra pronunciata da Benito Mussolini il 10 giugno 1940: “In quel clima sentii sbottare il Prof. Favilli che era proprio al mio fianco. Disse con voce alta e ferma: ‘Che come maestro quell’uomo non era buono a nulla, lo sapevo ma che come statista non si renda conto che con questa dichiarazione di guerra porta l’Italia alla rovina, non lo potevo supporre.’ Un ragazzo di cognome Vignolo che aveva scritto sulla parete del gabinetto “Abbasso il Duceâ€, “fu sospeso per sempre da tutte le scuole del Regno.â€. Sorprende in questa lettura la lucida memoria dell’autore che non solo non dimentica i fatti che sono accaduti intorno a lui, ma ricorda anche fisionomie, nomi e soprannomi dei protagonisti. Bravo in tutto, come risulta dalla sua autobiografia, ha avuto in dono una memoria mirandolesca. Si potrebbero fare esempi a iosa, ma scelgo questo, assai suggestivo, poiché ci descrive un esorcismo fatto dall’insegnante di religione, padre Birindelli, un domenicano del convento di S. Romano, a Lucca: “Un pomeriggio di novembre, all’uscita della scuola quando già cominciava a far notte, io e un gruppetto di sei studenti dei più coraggiosi, bussammo alla porticina sul dietro del convento di S. Romano all’ora convenuta e Padre Birindelli ci fece entrare. Un corridoio stretto e poco illuminato conduceva alla grande chiesa che a quell’ora era chiusa ai fedeli. Siamo nel 1941, e anche Divo si prepara, insieme con altri giovani, alla guerra: “… l’inizio del nuovo anno scolastico, mi portò un’altra sorpresa: l’obbligo di seguire il corso premilitare che impegnava il pomeriggio di tutti i sabati dell’anno fino al richiamo alle armi: una bella doccia fredda! Per i giovani della mia zona si svolgeva nel paese di Montuolo. Eravamo una trentina dei quali solo io e un altro di Cerasomma avevano proseguito gli studi oltre la quinta elementare. La scrittura dell’autore è spontanea e discorsiva, gergale quando occorre e affabulatrice, e rende in immagini ciò che racconta. Divo si era costruito da solo una radio a galena e seguiva attraverso i comunicati di Radio Londra “l’andamento della guerra sui vari fronti…â€; “Venivo così a sapere che ai primi del 1942 le operazioni sui vari fronti non andavano come ci veniva descritto dai nostri giornali o dai nostri professori, tutt’altro.â€. Nel 1943 si diploma ragioniere, ma corre il pericolo di essere arruolato nella Milizia, insieme con tanti altri studenti che avevano superato l’esame di Stato. Al Teatro del Giglio, dove sono stati radunati (“Il palcoscenico era affollato di Gerarchi in divisa e noi, più di un centinaio, ci fecero sedere nelle poltrone di platea.â€), i gerarchi che presero la parola li invitavano ad arruolarsi poiché la Patria aveva bisogno di loro e “al fronte aspettavano queste forze fresche e che noi dovevamo arruolarci volontari nella Milizia.â€. Intanto apprende dalla sua radio a galena che il 10 luglio di quell’anno gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Arriva il famoso 25 luglio con la caduta di Mussolini: “La gente sembrava impazzita e gli italiani diventarono improvvisamente da tutti fascisti a tutti antifascisti! Per prima cosa si avventarono sugli stemmi e simboli del fascio. Bruciarono ritratti del Duce e gagliardetti fascisti, con lo scalpello distrussero fregi e stemmi e cancellarono tutte le scritte sui muri inneggianti a Mussolini. I gerarchi diventarono invisibili ma, almeno da noi, nessuno li cercò e non mi risulta che ci siano state ritorsioni su di loro o che siano state loro restituite purghe di olio di ricino.â€. L’avanzata degli Alleati è inarrestabile. Le sorprese per Divo non mancheranno. Già si è reso definitivamente conto che le sue simpatie verso il regime fascista erano sbagliate e avrebbe voluto chiedere scusa a suo padre che era stato più lungimirante e lo aveva perfino avvertito sin da ragazzo, lasciandolo però libero di comportarsi come preferiva. Chi ha conosciuto Agostino (mia moglie tra questi), lo descrive come persona abile e intelligente, difficilmente ingannabile, molto attento e risoluto. Buona e generosa la madre Emma, la Baiocca. Siamo all’8 settembre. Divo ha 19 anni, “in età di leva militareâ€: “Ricordo che in quei giorni mio cugino ‘Tondolino’, il compagno di giochi della mia infanzia che era militare in aeronautica di stanza all’aeroporto militare di Metato (PI), arrivò in corte col suo Capitano alla guida di un camion militare pieno di viveri. Il Capitano lo fece fermare in mezzo alla corte e dette ordine alle persone del posto di prendere tutto. Poi abbandonarono il camion nel greto del Serchio e si tolsero la divisa. L’esercito non c’era più!â€. È il momento in cui i tedeschi reagiscono ferocemente con rastrellamenti e rappresaglie. Un Comandante tedesco con suoi due attendenti prende alloggio nella casa di Divo. Il padre, che parlava bene l’inglese per i suoi 20 anni trascorsi a San Francisco e masticava anche un po’ di tedesco, riesce a farsi ben volere “da furbacchione com’eraâ€, e tutto corre liscio. Il Comandante consente alla famiglia di ospitare in casa anche dei parenti fuggiti da La Spezia, “ben 14 persone di cui 8 bambini piccoli, parenti di mia madreâ€. Per prudenza, ad un certo punto, Divo, consigliato dal padre, si allontana da casa e sale nei boschi di Meati presso la casa appartata della zia Adele, sorella della madre, a fare il boscaiolo (nella parte finale leggerete un dettaglio su questo lavoro, nel capitolo intitolato: “Il mio lavoro da ‘Ragioniere boscaiolo’â€). È da lassù che ode un assordante rumore e, incuriosito, scende al paese e assiste alla frantumazione delle campane: “Erano venuti i repubblichini assistiti dai tedeschi, a sequestrare le campane per farne cannoni.â€; approfittando di un momento di distrazione di costoro “volli andare a prendere con le mie mani un pezzetto di campana che conservo ancora come reliquia perché in futuro parli come le pietre e racconti al mondo questa storia.â€. Giunge anche a lui e ai suoi coetanei l’ordine della Repubblica Sociale Italiana, trasmesso attraverso manifesti murali, di arruolarsi nell’esercito repubblichino, ma l’autore decide di non presentarsi e si nasconde sui Monti Pisani: “Me n’andai la mattina prima dell’alba, con un fagottino di viveri dopo essermi trovato inteso che il prossimo rifornimento me lo avrebbe portato una delle mie sorelle in cima al bosco della zia Adele, quando vedevo il bucato di lenzuoli appesi ad asciugare alla finestra di camera. (…) Mi cercai un punto dei più nascosti e mi costruii una piccola copertura di frasche dove potermi rifugiare per passarvi la notte.â€. Incontra altri giovani renitenti (i primi partigiani) e stringono amicizia. Ogni tanto si ritrovano in punti del bosco concordati e conversano e non mancano di divertirsi: “c’era il ballo e arrivarono anche diverse donnine, giovani e meno giovani, disposte a tutto.â€. Ma, al riguardo, Divo è prudente e si rifiuta di fare all’amore con loro: “non intendevo concedermi alla prima donnina che capitava e questo mi procurò delle occhiate di sbieco da parte di ragazze che conoscevo bene e che avevo respinto sebbene con molto garbo. La zona in cui Divo e i partigiani si erano nascosti è conosciuta come “La Romagnaâ€, e qui accadde il terribile eccidio che porta il suo nome. Chi va in pellegrinaggio all’Eremo di Rupecava, prima di inoltrarsi nel sentiero che conduce al santo luogo che ospitò anche Sant’Agostino, vede sulla sinistra il monumento che è stato dedicato ai caduti per mano dei nazifascisti. Tra quei nomi ve n’è uno caro all’autore, quello della donna, Iolanda, che un giorno, bussato alla sua porta, gli offrì “mani grandi ricolmi di pane.â€. Chi non veniva ucciso, una volta catturato dai tedeschi, era condotto a Lucca, alla Pia Casa, dove ormai i locali si erano riempiti di prigionieri. Succede anche a Divo di essere catturato e condotto lì, ma riesce a fuggire: “mi dettero un badile più peso di me col quale lavorai tutto il giorno, sostenuto dalle energie che potevano venire fuori da una gavetta piena di una poltiglia indefinibile. Gli Alleati ormai sono vicini, il loro cannoneggiamento è continuo. Si teme che anche Lucca venga colpita, e allora un gruppo di partigiani avverte gli Alleati che la città è stata liberata dagli stessi cittadini e i tedeschi sono fuggiti. Stanno per arrivare a Lucca e chiudere così la guerra nel nostro territorio; vi giungeranno all’alba del 5 settembre 1944, ma il giorno prima a Divo capita di assistere alla morte del suo amico del cuore, Giovanni Bolcioni. Mentre tornano a casa, Divo avverte che c’è uno strano silenzio e lo dice all’amico, e sospetta che nelle vicinanze ci siano i tedeschi, ma “Giovanni proseguì e, quand’ebbe superato la villetta di Ada la magliaia, lo vidi crollare sotto una raffica di colpi di moschetto!â€. Siamo in prossimità del ponte di Meati. All’amico dedicherà alcune belle pagine per tramandarne la memoria. È da notare che anche in occasione del suo funerale, i rumori di guerra non tacciono davanti alla sua bara: “La cappella del cimitero era chiusa e poiché non trovammo la chiave, posammo la bara in terra davanti la porta d’ingresso che era vicina alla buca della sepoltura. La narrazione prosegue oltre la liberazione di Lucca e ci rivela altre storie conosciute da pochi e che arricchiscono la testimonianza. “La notte del 10 settembre, se non ricordo male, sentimmo rumori di camion, carri armati e camionette varie che si fermavano intorno alla chiesa. Dopo aver ospitato nella sua casa il Comandante tedesco coi suoi due attendenti, il padre fa altrettanto con il Comandante americano e i suoi due attendenti, “Tommy di circa 20 anni e Andrea di circa 30.†(il quale ritroveremo verso la fine, nel racconto “La mia amicizia col soldato americano Andreaâ€). Il Comandante lo ricompensa fornendo molto cibo alla sua famiglia: “In casa nostra non mancava il cibo, ma le persone intorno a noi, e specialmente gli sfollati, morivano di fame. Questa che segue è la parte finale di uno degli episodi più letterariamente pregevoli per contenuto, scrittura, sapienza narrativa e capacità di controllo (per la verità , tutti i racconti finali si nutrono dell’espressione più eccellente della sua scrittura, che rivela anche toni ragguardevoli di sommessa ilarità ; si legga in proposito “Finalmente si apre per me uno spiraglio: l’Università â€). Un colpo di cannone, sparato dai tedeschi, fermi a Ponte a Moriano da dove continuavano a colpire la città e la periferia, si abbatte su Via Boboli, a Sant’Anna. Quando la madre Emma viene a conoscenza del fatto, subito si preoccupa poiché lì abita il fratello Ghigo con la sua famiglia. Inforca la bicicletta, seguita da Divo, e giunge sul posto. La bomba ha colpito proprio la casa del fratello: “Saltò sulla bicicletta e si diresse a tutta velocità verso S. Anna. Io feci altrettanto, percorsi i quattro chilometri col cuore in gola ma non riuscii a raggiungerla. C’è un filo rosso che unisce tutti gli episodi narrati in questo libro, oltre la prodigiosa memoria che li ha preservati, ed è la Fede, con la ferma certezza che ogni cosa che accade sulla Terra, buona o cattiva, contiene sempre le risposte che Dio dà a ciascuno di noi. Non è un caso, perciò, che l’ultimo racconto, “La Messa di Mezzanotte del Natale 1944â€, ci riporti alla celebrazione del Natale di quell’anno per svelarci che, se l’autore è riuscito a superare gli aspri eventi della guerra, ciò è dovuto in gran parte alla sua fiducia in Dio e alla sua voglia di vivere in un mondo contraddistinto dalla bontà e dalla generosità dell’uomo: “E venne, finalmente, Il Bambinello in mezzo a noi. Venne puntuale, alla Messa di mezzanotte, a condividere le nostre miserie. 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