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TEATRO: I MAESTRI: Pirandello e i modi di fare la critica

21 Maggio 2016

di Mario Raimondo
[da “La fiera letteraria”, numero 4, giovedì 26 gennaio 1967]

Sarebbe davvero un brutto se ­gno se si potesse, oggi, im ­piantare una polemica viva e attiva sulla qualità del teatro piran ­delliano. Dobbiamo dunque trarre qualche ragione di conforto dal fat ­to che un articolo abbastanza cu ­rioso di Mario Soldati, apparso cir ­ca un mese fa sul Giorno, e ripro ­posto, più di recente, attraverso lettere di contestazione e di con ­sensi}, sia rimasto in definitiva, sol ­tanto un curioso articolo di Mario Soldati. Non c’è stata polemica, non c’è stato dibattito, la tesi del ­l’articolo è stata ingoiata dalla sua stessa stravaganza: Soldati vi so ­steneva che se il teatro di Piran ­dello ha successo è cattivo segno per la nostra società e riprende ­va il noto giudizio di Croce sul drammaturgo siciliano (ed è noto che tra le prove che Croce poteva anche sbagliare, c’è proprio questa, della sua insensibilità verso il tea ­tro pirandelliano).

Non riprendo oggi questo tema, dunque, per contestare a Mario Soldati una opinione, stravagan ­te ma evidentemente piuttosto fer ­ma, su Pirandello. E’ chiaro che si tratta di una opinione datata ed è abbastanza comprensibile che essa non riesca ad inquadrarsi nel giu ­dizio più recente in merito al tea ­tro pirandelliano, che è appunto fondato su un rifiuto di datazione. A Soldati i personaggi del teatro di Pirandello devono apparire tut ­ti nella divisa di Accademico d’Ita ­lia, o quanto meno con all’occhiel ­lo il distintivo fascista (riferimen ­ti iconografici, o di memoria, del loro stesso autore), e non dico che non siano immagini fastidiose. Ma per noi questo problema non esi ­ste, perché abbiamo imparato Pi- randello come ipotesi di lavoro e di ricerca teatrale e il riferimento con il suo tempo lo abbiamo sco ­perto in rapporti più sottili, in qualche caso quasi segreti con i grandi momenti del rinnovamento dell’espressione artistica in questo secolo. Prima di tutto, con ciò che accadeva nelle arti figurative.

Proprio per II giuoco delle parti â— che era servito di pretesto a Soldati per il suo primo articolo â— la regìa di De Lullo aprì varchi illuminanti per la individuazione e la comprensione di questi rappor ­ti. Ma li aveva intuiti Antonio Gramsci, che non si lasciava evi ­dentemente schermare il giudizio dalla insofferenza per tutto quello che in Pirandello gli sembrava esercitazione ed elucubrazione di un « professore di provincia ».

Ma non è questa la ragione per cui ho voluto riprendere il tema pirandelliano, usando di questa oc ­casione. Ciò che mi ha colpito è stata l’affermazione di Soldati sulla fortuna di Pirandello. Soldati so ­stiene che ne ebbe moltissima, più di quanta ne meritava e cita Cor ­rado Alvaro il quale riferiva sulla diffusione in tutto il mondo dei termini « pirandelliano » e « pirandellismo » e del loro significato.

Bene, è proprio qui che si può dipanare la matassa della incom ­prensione di Pirandello. Perché la sua vera fortuna è iniziata, in Ita ­lia, quando si è cominciato a capire che il pirandellismo è una costru ­zione estranea al teatro di Piran ­dello e quando si è cominciato ad interpretare la sua « dialettica » co ­me un astratto tracciato, come il tessuto frantumato di una condi ­zione umana. E quando teatranti come Squarzina, come Costa, co ­me De Lullo ed ora â— con la scon ­volgente moralità dei Giganti â— come Strehler, hanno dato testi ­monianza della nuova verità di Pi- randello.

E’ per questo che la fortuna di Pirandello non sembra a me un cattivo segno, al contrario. Credo anzi che sia un fatto straordina ­rio che il nostro teatro sia riusci ­to a frantumare il luogo comune su Pirandello: ed era un luogo co ­mune abbastanza insidioso dotato di paternità autorevoli â— come quella di Tilgher e, appunto, di Croce â— sia sul versante dei so ­stenitori che su quello dei negatori.

E’ un teatro vivo, mi pare, quello che riesce a rifiutarsi alla co ­moda indicazione delle certezze lon ­tane o delle attuali pigrizie.

Ma insomma, questo teatro italiano che noi difendia ­mo senza nasconderne tut ­tavia i difetti è proprio così come lo pensiamo o non siamo per caso vittime di una deformazione pro ­fessionale?

La domanda è provocata da un agitato discorso a più voci che, sempre sul Giorno, s’è fatto di re ­cente a proposito della opinione violentemente negativa, espressa da un giornalista â— Giorgio Bocca â— sull’ultimo spettacolo di Fran ­co Zeffirelli, Black Comedy. L’in ­tervento del non addetto ai lavori è parso pesante a qualcuno, sacro ­santo ad altri e ancora se ne parla.

Io non ho visto Black Comedy e il merito della disputa, dunque, mi sfugge. Ma il suo senso ultimo mi sembra, al contrario, abba ­stanza chiaro. E’ del resto, un di ­scorso che ho già fatto e riguar ­da soprattutto la critica, la sua capacità di essere mediazione ef ­fettiva del fatto teatrale e di ado ­perarsi per realizzare una sorta di unità culturale tra coloro che stanno in platea e coloro che stan ­no in palcoscenico. Quando Giorgio Bocca mostra di ignorare alcuni elementi fondamentali della moderna espressione teatrale, o addi ­rittura della tecnica dello spettaco ­lo, non è facile limitarsi ad un elenco delle cose che non sa e ten ­tare di dargli torto per questo. Eppure così si è fatto, e tutti tran ­quilli come prima.

Ma non è forse questa l’occasio ­ne per farci mettere una pulce nell’orecchio? Proviamo a chieder ­ci se per caso la ignoranza di Gior ­gio Bocca non è la ignoranza di qualunque pubblico generico e se il compito del regista e dell’attore non sia poi quello di rendere evi ­denti i risultati di un certo tipo di lavoro scenico proprio a coloro che non sono informati sulle moderne tecniche, espressioni, eccetera eccetera. Cosa risponderemo? Che un pubblico di specialisti è un pub ­blico impossibile e che il problema della comunicazione a platee estre ­mamente articolate anche dal pun ­to di vista dei livelli di cultura e di informazione, è oggi il problema del teatro italiano.

Vittorio Gassman mi diceva qual ­che settimana fa che il pubblico italiano ha, dal teatro, le brioches ma non il pane: è proprio questo il punto. L’abitudine al teatro, il rifiu ­to della eccezionalità a tutti i costi, la promozione del prodotto medio, sono altrettanti elementi di una possibilità per la nostra scena di diventare discorso comune e uscire dal recinto degli addetti ai lavori.

Ma i critici, i commentatori di avvenimenti teatrali, hanno la co ­scienza a posto, in questo senso? Direi che abbiamo tutti le nostre colpe, se ancora non siamo riusci ­ti a ottenere un teatro che si spie ­ghi dalla scena, direttamente, senza che lo spettatore debba conosce ­re, per capire, troppi perché e per ­come.

E   tuttavia non sembra che riu ­sciamo ad intenderci sul tipo di lavoro che è il nostro. Ci accade perfino, qualche volta, di diventare dei suggeritori di discri ­minazioni pericolose e, del resto, tecnicamente impossibili. La rivista

Sipario, per esempio, ha pubblicato nel numero di dicembre, un bre ­ve articolo il cui senso è in un invito a privare alcune piccole ri ­balte romane del sussidio gover ­nativo.

Ora, intendiamoci, io non voglio qui difendere sul piano estetico le realizzazioni di quei teatrini, che proprio non sono difendibili; ma non posso non sottolineare un cu ­rioso modo di esercitare la critica indirizzandosi non al lettore o al teatrante interessato, ma direttamente alla Direzione dello Spetta ­colo. La meraviglia è giustificata, soprattutto se si pensa che Si ­pario sembra essersi specializzata nella difesa del teatro di ricerca e che dovrebbe dunque avere una speciale attenzione per le iniziati ­ve ai margini del teatro ufficiale che possono sempre riservare qual ­che sorpresa e che, comunque, rap ­presentano un tessuto di attività teatrale non « ordinata ».

Sento l’obiezione: ma fanno spettacoli oltraggiosi! Bene, ma il nostro compito è proprio quello di giudicare gli spettacoli e segnalar ­ne la qualità. Non è ancora, per fortuna, quello di decidere chi de ­ve stare, e chi no, nelle grazie dei superiori.

 


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