TEATRO: I MAESTRI: Weiss. Tenero come paggio Fernando19 Maggio 2016 di Giorgio Zampa Esito a riferire sul contenuto del dramma di Peter Weiss La persecu zione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, andato in scena al Piccolo Teatro di Milano perché, dopo aver veduto il lavoro in tre o quattro edizioni, di cui una cinematografica, temo che la noia mi sopraffaccia. Ma non è questo, poi, il motivo principale. Il fatto è che il plot del Marat è ormai tanto risaputo, da fare quasi ingiuria al lettore ripe terlo. Notizie sulla morte di Jean-Paul le sappiamo dalle scuole medie. Un giorno di luglio del 1793 il tribu no, ridotto a non uscire più di casa, se ne stava immerso, al solito, in una tinozza, perché aveva bisogno di continui impacchi di acqua solforosa per una malattia della pelle, quando una ragazza di buona famiglia, venu ta apposta da Caen, riuscì a farsi in trodurre in sua presenza e lo pugnalò a morte. Assassinio politico, motiva zione lampante. Meno noti di tale mi sfatto, ma abbastanza conosciuti, altri dati, con la divulgazione della biogra fia del Marchese compiuta da Heine e Lely in questi ultimi vent’anni. Sap piamo, tra l’altro, che Sade era un au tore di teatro tanto fecondo quanto sfortunato, tenacemente respinto dai capocomici. Che trascorse gli ultimi anni di vita in una casa di cura per malati di mente a Charenton Saint-Maurice, dove istruiva e dirigeva una compagnia di infermi, con l’incorag giamento del direttore dell’istituto, fa cendo loro rappresentare composizioni teatrali, musicali, balletti, anche pro pri. Weiss immagina che in un locale di Charenton, adibito ai bagni dei rico verati, il Marchese avesse organizza to uno spettacolo, intitolato: La perse cuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat. Una cosina educativa, edifican te, considerato che siamo nel 1808, nel pieno della potenza napoleonica, e che gli anni della ghigliottina, seb bene breve sia il tempo trascorso, paio no remoti. Ospite d’onore, il direttore del manicomio, con moglie e figlia. In uno spazio immaginario, perché con la forma che doveva avere il la vatoio di un manicomio settecentesco è difficile immaginarne la sistemazio ne, il pubblico. De Sade invitava in locali più acconci, è probabile, la buo na società, intellettuali, gente di tea tro, personaggi alla moda, per assi stere alle sue messe in scena. Ma lo spettacolo del Piccolo mila nese, andato in scena con la regìa di Raffaele Majello, a tre anni e mezzo di distanza dalla prima berlinese cu rata da Konrad Svinarski per lo Schil ler Theater, non deve indurre a diva gare oltre né sull’Ami du Peuple né sull’autore di Juliette. A titolo di cu riosità, prima di entrare nel merito della faccenda, aggiungo qualche riga relativa alla Weltanschauung di De Sade, visto che da alcuni il dramma di Weiss viene considerato come un originale pièce di idee. Essa può es sere fissata in cinque punti: 1 ° il prin cipio pensante non è né può essere altro che materia; 2 ° le idee di ani ma, immortalità, Dio provvidente e somiglianti sono pretti deliri della mente umana; 3 ° l’effetto più esiziale di questi deliri è stata la religione; 4 ° l’ignoto principio della vita univer sale, non che essere amico del ge nere umano è anzi il suo principale nemico e carnefice; 5 ° la società de gli uomini non può né deve avere altro fondamento che l’odio comune a questo princìpio, e i comuni sforzi per trovare quei compensi che si pos sono contro i malefici effetti di quello. Tali aforismi non sono stati formu lati da me. Si trovano nella minuta di una lettera diretta da Antonio Ra nieri a Pietro Giordani e condense rebbero, secondo l’autore dell‘Orfana della Nunziata, la filosofìa dell’ultimo Leopardi, quello dei Paralipomeni. L’analogia, sviluppata, potrebbe por tare a risultati curiosi; ma rimania mo nel nostro terreno. All’opposto di quanto ho letto e sen tito affermare nei giorni scorsi, il Marat-Sade non è il primo lavoro tea trale di Weiss. Nel dicembre del 1963 andò in scena nella Werkbühne sempre dello Schiller Theater Nacht mit Gasten, (Notte con ospiti), un breve dramma scritto con la stessa tecnica del Marat (del quale esisteva già una prima stesura), cioè in Knittelverse. Si tratta di una storia truculenta, a mezza strada tra la Moritat, illustrazio ne da fiera di un fattaccio, e un pez zo da Grand Guignol; esso rappresen ta una specie di collaudo tecnico del lavoro più importante. Versi burleschi a rima baciata
Knittelverse (da Knüttel, randello, bastone, per significare il loro carat tere rozzo, grossolano, la loro origi ne rustica e anche il loro ritmo zop picante) sono versi burleschi a rima-baciata, senza numero fisso di sillabe e quattro forti accenti. Usati, a parti re dal Medio Evo, per recitazioni che non richiedessero accompagnamento musicale, quindi, in particolare, dai maestri cantori, per commedie car nevalesche, favole, moralità, diven nero successivamente pasto quasi esclusivo dei cantastorie, quando il giovane Goethe e i compagni dello « Sturm und Drang » li ripresero, con sapevoli della varietà di effetti che da quello strumento potevano cavare, per il suo vigore naturale, per la struttu ra che consente un periodo in appa renza legato, di fatto assai libero e quindi particolarmente adatto al di scorso ironico, satirico, parodistico. Schiller usò Knittelverse; di Goethe basta ricordare il primo monologo del Faust; larghissimo, arrivando ai nostri giorni, è l’uso fattone da Brecht. L’impiego che Weiss fa di questo verso nel Marat è tale, a mio avviso, da definire subito il carattere dell’ope ra e da costituire un precetto vinco lante, una norma per ogni possibile interpretazione. Ancora una volta sia mo tra la Morität (basta pensare alla funzione dell‘Ausrufer, una via di mezzo tra lo annunciatore, il butta fuori e il cantastorie con la canna in mano), dove l’uso del Knittelverse è d’obbligo, e il pezzo da boulevard anatomico, con le sue inverosimiglian ze involontariamente comiche. Sade fa rievocare da un gruppo di dementi uno degli episodi della Rivoluzione che più colpirono l’immaginazione po polare. Il meccanismo è ridotto al mi nimo: un quartetto di cantanti costi tuito per metà da tipi popolari, per metà da buffoni (precisa l’originale tedesco del ’64, mentre la versione italiana reca soltanto « che rappresen tano il Quarto Stato ». Le divergenze tra i due testi sono notevoli, sarebbe interessante sapere su quale stesura hanno lavorato regista e traduttore ita liani), che commenta, depreca, invoca, ingiuria, commisera, mimando la Rivoluzione; Marat accucciato nel suo semicupio, un paranoico grafomane (neppure tale attributo essenziale per la figura del protagonista figura, ine splicabilmente, nella traduzione), che a tratti esce dalla sua fissità per de clamare brani di discorsi (le famose « invettive » del Marat autentico, con il quale si identifica al punto da scam biare la cura idroterapica alla quale è costretto come soggetto, appunto, paranoico, con quella che gli era pre scritta a sollievo dello spaventoso eczema (?) che copriva il Marat sto rico); Charlotte Cordai, una malinco nica che agisce come una sonnambu la, dimentica le battute e viene mos sa come una marionetta. Come in un teatro di pupi, in un Kasperlspiel, i due protagonisti dovrebbero agire as solutamente estranei alla parte che rappresentano, vivi solo loro malgra do, quando riescono a fingere. Su questa vicenda da istituto di rie ducazione (stavo per scrivere da tea trino di monache, e forse non sareb be stato troppo sbagliato), si innesta quella che è la trovata del lavoro, il suo centro di forza non drammatico ma drammaturgico. Sade dovrebbe intervenire sugli attori e sulle com parse regolando entrate e uscite, svol gendo una funzione moderatrice tra il pubblico, il direttore dell’istituto e i possibili eccessi dei folli. Ma tra lui e il soggetto della tragediola che ha tirato su con gli spilli (o probabil mente con i colpi di randello inferti dai custodi) esiste un rapporto di na tura particolare. Uscendo dalla sua parte di osser vatore, il Marchese si sentiva attratto a intervenire nel gioco dei dementi e a improvvisare un dramma nel dram ma con il folle che, chiuso nella sua tinozza come in una bara, si identifi cava fosco, truce, nella sua impoten za animato da una violenza selvaggia, con l’eroe della tribuna. Oltre al mo vimento che può venire dal gruppo cui erano state affidate parte impor tanti (Jacques Roux, il « prete rosso », Duperret, amante della Corday, Simonne Evrard, la donna di Marat); la sciando da parte le risorse che un regista di fantasia combustibile può ri cavare da un gruppo di folli sciaman ti dalle pagine, mettiamo, di un rétif per annidarsi nel reticolo ingrandito di un’incisione del Diderot-d’Alambert: il perno del dramma, il centro intor no al quale ruota ogni cosa, è lo scambio dei piani temporali, di realtà e di mito, tra l’uomo che recita il fantasma di se stesso e un paranoico che regge come può al macabro gio co. Questo equivoco, questa ambiguità sostanziale, finisce col coinvolgere ogni altro elemento, col condizionare tutta l’azione. I pazzi entrano ed esco no dalla parte loro assegnata a secon da della scarica’ che ricevono dalla pi la, mentre il quartetto dei cantori e l’annunciatore appena lambiti dalla corrente camminano sul filo del ra soio: se la cavano picchiettando Knit telverse, strizzando l’occhio al pub blico e schiamazzando, sgambettando, inveendo con la massa, quando que sta li coinvolge. Ma nello stesso tem po « recitano ». I frequenti sospiri dell’armonio La versione del Piccolo, a mio av viso, non ha forse tenuto abbastanza conto della diversità dei vari livelli, non ha dato rilievo sufficiente alle di verse profondità delle sezioni, alli neando tutto su un piano per motivi ideologici: Marat, specialmente il suo consigliere Jacques Roux, con una sorta di coscienza profetica prefigura no situazioni che si sarebbero veri ficate più di un secolo dopo, rappre sentano l’estremismo rivoluzionario più irriducibile. Ma dove finisce, con questo, l’ambiguità voluta da Weiss? Quale funzione hanno le cantate scur rili dei cori, le sguaiataggini delle ma schere; che ne è della volontà deli berata, espressa in tutti i particolari formali, strofici, metrici, ritmici, dal la struttura del lavoro, con le sue trentantré scene dichiarate da altrettanti cartelli, scandite come quelle di una storia da saltimbanchi? ; La musica di H. M. Majewski per la versione di Swinarski, di R. Peaslee per quelle di Brook e di Driver, non lasciano du bitare un momento sulle intenzioni satirico-parodistiche. Quella che ac compagna l’edizione italiana, di Doria no Saraccino, con i frequenti sospiri di un armonio tenuto su toni alti sul la base di chi sa quali analogìe, ha ri chiamato a più d’uno quella di Weill (almeno si fossero nominati Desseau od Osalla). Rimane da dire della impostazione data alla figura del Marchese. Un de Sade ciondolone, canuto ma ancora aitante, invece di essere quel mostro di obesità che il testo descrive fino dalla prima riga (ausserordevtlich beleibt) tenero come uno zietto con Charlotte, assente dalla rappresenta zione di cui pure è regista e disposto ad affrontare, con una voce che si al za e abbassa incerta, come la macchi na di Blériot al decollo, il Marat in guazzo, a blandirlo con la delicatezza di Paggio Fernando; che recita il mo nologo sul supplizio di Damiens, come un brano di Come le foglie: da tale in terpretazione mi sia consentito dis sentire proprio in nome della libertà invocata da Roux, da Marat, da Sade. E soprattutto dal Piccolo. Letto 2036 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||