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TEATRO: I MAESTRI: Teatro neobarocco e teatro gestuale

4 Maggio 2013

di Elio Pagliarani
[da “Quindici”, numero 15, gennaio 1969]

Come si comporta uno che faccia critica di teatro su un quotidiano? Come è ora il mio caso: la questione può interessare anche al di fuori del quotidiano, suppongo. Ciò vuol dire proba ­bilmente che potrebbe risultare utile e sensato dichiarare nella maniera più esplicita possibile in base a quali criteri esprimo giudizi sugli spet ­tacoli di teatro. Ma certo, l’asso di briscola non ce l’ho: né credo che sia mai funzione della cri ­tica tirar fuori gli assi di briscola. Ma ho ab ­bastanza idea di come si danno le carte, del barare e altro.

Il che vuol dire che cercherò di rendere espli ­cito un modo abbastanza elementare di approc ­cio allo spettacolo teatrale; e se il discorso com ­porterà anche una rapidissima analisi della si ­tuazione attuale del nostro teatro, non farò nulla per evitarlo. Non proprio criteri dunque, ma ap ­pena modalità preliminari, che mi pare sufficien ­te distinguere in due modalità di verifica.

Prima (specie da un punto di vista di « cri ­tica come servizio ») sarà la verifica della coerenza fra l’intenzionalità (di uno spettacolo e, nel caso, dell’intero programma di una compa ­gnia o di uno stabile) e il risultato Da questo punto di vista, ha un segno nettamente positivo la qualifica di « professionista », e negativo quel ­la di « dilettante ». Così può succedere, in un caso limite, che dopo aver notato che un dato spettacolo è postprandiale e televisivo, risulti cor ­retto e opportuno aggiungere che gli interpreti svolgono con grande sicurezza la loro parte. E così, viceversa, può anche capitare di dire e os ­servare che l’attuale consapevolezza della rottura dei canoni naturalistici tradizionali, fa sì che anche gruppi dilettanteschi di livello che una volta sarebbe stato definito filodrammatico, si scate ­nino con le pennese sotto l’ombrello dell’avan ­guardia.

Una parentesi sull’avanguardia: vero è che l’avanguardia ammette â— anzi, da un punto di vista, postula â— un dilettantismo come antipro ­fessionismo, inteso come rifiuto di una ontologica separatezza di generi e di spazi e di linguaggi; ma anche questo « dilettantismo specifico » ha da essere sottoposto a verifica: le regole del gioco (o sistema di decodificazione) non sono immuta ­bili, e guai al gioco che si pone come esemplare e normativo; ma non esiste gioco (insistiamo su « gioco », perché il termine ha il pregio di espri ­mere il gratuito e il necessario insieme, libertà e necessità nel contempo), cioè artificio, arte, sen ­za regole, senza cerimoniale, perché altrimenti fra l’altro (mentre ovviamente l’arte d’avanguardia non intende subire ricatti « in nome della vita ») si pretenderebbe di ricattare la vita « in nome dell’arte d’avanguardia »; cioè, mentre l’artista d’avanguardia non si fa dire da nessuno: «tu fatti in là che alla gestione della vita, alla ri ­voluzione magari, ci pensiamo noi » (questo è il significato, in termini socio-culturali, della sepa ­ratezza di generi, spazi, linguaggi), non è nem ­meno un idealista metafisico che pensa che la « sola, vera, possibile rivoluzione » è lui a farla. E ci sono oggigiorno molti idealisti metafisici fra i pasticcioni, e i megalomani, non solo nel mondo del teatro.

La verifica della coerenza fra l’intenzionalità e il risultato viene ad essere anche verifica del ­la consapevolezza che gli operatori hanno dei pro ­pri mezzi espressivi. Da questo punto di vista, interessa soprattutto chi sa misurare le proprie forze, chi è lucidamente cosciente dei suoi limiti e delle sue possibilità; e chi non abusa delle proprie risorse per ammannire spettacoli a ruota libera; e chi, sicuro dei propri mezzi espressivi, sia tuttavia criticamente inquieto e disposto a ri ­cominciare da capo piuttosto che farsi imprigio ­nare da un cliché, per quanto di gran stile esso possa essere: e quest’ultima condizione è eviden ­temente la più alta, e difficile: perché presup ­pone sicurezza e inquietudine insieme, coscienza di sé orgogliosa magari e tuttavia che sappia placarsi al momento dell’opera â— altrimenti non potrebbe operare â— e amore, necessità dell’altro da sé â— altrimenti non potrà rinnovarsi, inno ­vare, rivoluzionare la propria opera. Tipica con ­dizione dell’operatore autenticamente sperimentale.

Seconda modalità (ma da un punto di vista di critica attiva, d’intervento, sarà indiscutibil ­mente la prima): verifica della consapevolezza della situazione in cui si opera.
Il giudizio sulla situazione lascia ampi mar ­gini a qualsivoglia interpretazione soggettiva, ma non sembra dubbio che oggi il teatro si trovi in una situazione di crisi specifica, sia dal punto di vista delle strutture organizzative, che di quel ­le più propriamente linguistiche. E’ in crisi la struttura degli stabili e quella delle compagnie di giro; non è più contenuta, menomale, la pro ­testa contro il sistema di tassazione-sovvenzione- controllo attuato da organi ministeriali. E’ in crisi la stessa centrale concezione dell’ambiente teatrale (Peter Brook: « Il problema meno risolto è quello del luogo ») : e del resto l’attuale sala teatrale (che non risulta che una vecchia e in questo senso sorpassata progenitrice delle sale ci ­nematografiche, con l’aggravante che serve solo gli abitanti del centro delle grandi città) ha ben pochi secoli di vita (essa sì, non il teatro, è strettamente collegata con la borghesia), rispetto ai millenni di vita del teatro.

Più internamente, sono in crisi, di cui colse Pirandello la flagranza, i due postulati o canoni sui quali è parsa reggersi, per tanto tempo, la finzione teatrale, e cioè: 1. validità e significati ­vità del dialogo, vale a dire della possibilità di intendersi (e per i naturalisti, di intendersi esaustivamente) con le parole; 2. significatività dell’azione in quanto intesa come valida oggettivazione del soggetto (la famigerata « concretezza dei fatti »).

La negazione radicale fa perno anch’essa su due postulati, che sono gli stessi capovolti e di ­venuti cioè: 1. impossibilità d’intendersi mediante le parole; 2. insensatezza o insignificanza della azione in quanto è arbitrario intenderla oggetti ­vazione del soggetto.

Se si toglie al teatro la parola e Fazione, che cosa gli rimane? Intanto, la parola non è l’unico linguaggio (anche se è il più alto e completo, ma anche il più logoro e il più esposto alla desemantizzazione e/o semantizzazione univoca da parte dei mass-media), sulla scena tutto è lin ­guaggio, dal gesto alle luci; sulla scena soprat ­tutto c’è il corpo umano tangibile, donde ha ori ­gine ogni nozione di linguaggio. Rimane in ogni caso centrale nel teatro lo scontro del linguaggio dei sensi e del linguaggio delle idee nel corpo umano.

Inoltre, mi è già capitato di osservare alcuni anni fa che i due nuovi postulati di negazione o impossibilità, necessitano operativamente di co ­rollari. Io intendo: negazione della possibilità di intendersi con molti costrutti sintattici e locuzioni lessicali, più spesso i più correnti e banali e capitali, a causa dell’usura e della prevaricazione esercitata storicamente dagli istituti su quell’al ­tro istituto che è la lingua. E nella fattispecie operativa si è verificato che il teatro più valido nel secolo rappresenta: a) la dimostrazione della impossibilità d’intendersi con le parole correnti (prevalentemente, teatro dell’assurdo): b) l’inven ­zione di nuovi significati o semantizzazione del linguaggio, cioè progettazione per la lingua (pre ­valentemente, teatro epico) (e la tragedia come luogo d’incontro fra l’epico e l’assurdo â— scusate se lo dissi già altrove).E la progettazione oggi ha da essere soprattutto progettazione di utopia.

E così l’azione va negata quando è esibita come coerente manifestazione di un apporto de ­finito di causa ed effetto, quando vuol essere in ­tesa in pacifica sintonia con la parola Ma non certo negazione dell’azione quando risalti a) ma ­nifestazione della prevaricazione esercitata dagli istituti sulla parola; cioè, tolto ogni schermo, vio ­lentata ogni separatezza, della prevaricazione sul ­l’uomo (prevalentemente, teatro dell’assurdo): b) meccanismo di scomposizione di « sintagmi » o costrutti correnti alienati, e/o meccanismo di esi ­bizione della propria artificiosità â— cioè, nel caso, dell’artificiosità delle strutture teatrali (prevalen ­temente, teatro epico).

Sintetizzate così alcune delle )rime ragioni della crisi, proverò a registrare, ancor più rapi ­damente, come ha reagito e reagisce il nostro teatro a questa situazione: mi muovo cioè secon ­do una modalità di verifica.

Nella maggior parte dei casi c’è da registrare il nulla o, peggio, il finto nuovo, un orpello qual ­siasi (un tema, un contenuto aggiornato o un mo ­dulo stilistico) che si inalbera finché dura la moda, e perché così va la moda. Il risultato è una baracca che fa acqua da tutte le parti, come è anche troppo evidente.

Non mancano, però, risposte positive, portatrici di significati nuovi, anche se appaiono talvolta piuttosto incerte, e, in qualche caso, abbastanza velleitarie. Grosso modo, possiamo distinguere due orientamenti: uno che si può definire neo-barocco, e un secondo, gestuale.

E pacifico che il barocco ha un’oggettiva ca ­pacita e attitudine spettacolare, grazie alla quale ha per esempio la possibilità di superare i limiti del meramente letterario: e nell’attuale tendenza neo-barocca la ridondanza risulta criticamen ­te “deformante: parola e azione vengono sotto ­poste a un « treatment di amplificazione » che, mentre sembra esaltare, in realtà ne limita o addirittura ridicolizza il significato più spicciolo e immediato, aumentandone la contradditorietà o vanificandolo nella spettacolarità: è lo spettacolo come Moloch, che ingoia e digerisce tutto. Il pe ­ricolo più evidente, va detto subito, è qui rap ­presentato dalla tentazione del sincretismo, cioè dalla concezione alquanto italiana che barocco e insalata siano affini se non proprio sinonimi, e che stia bene metterci di tutto un po’, un po’ di tradizione e un po’ di innovazione, e la co ­scienza apposto. Ma, ancora: è barocco l’attuale gusto dell’idea e fino alla « trovata *; ma il di ­scorso sulle corrispondenze del nostro tempo col barocco è già stato fatto molte volte, e in ogni caso ci porterebbe troppo lontano. Questa tenden ­za neo-barocca è abbastanza tipicamente italiana (ma si pensi al grande Radok, di cui fu rap ­presentato l’anno scorso a Firenze II gioco del ­l’amore e della morte; e può definirsi neo-barocco anche il Marat-Sade di Weiss e il relativo spet ­tacolo di Peter Brook), tant’è vero che uno dei migliori esempi di neo-barocco, e cioè la messa in scena de I Soldati di Lenz, realizzata dal giovanissimo regista Patrice Chéreau per il teatro di Sartrouville (anch’esso rappresentato in Italia per merito della Rassegna Fiorentina dei Teatri Stabili), è stato definito, dalla stessa critica fran ­cese, di « scuola italiana ». In questo senso, gli esempi più notevoli sono ora qui da noi rappre ­sentati da Luca Ronconi (ma in troppo rapido de ­crescendo, e da un livello mica poi tanto alto) e soprattutto da Aldo Trionfo, il cui Tito Andro ­nico è stato, a mio parere, in questa direzione, lo spettacolo più ricco e stimolante (e quante idee e trovate!) degli ultimi anni.

Deficienze o debolezze o lacune o piuttosto li ­mitazioni di questo orientamento sono rappresenta ­te anche dal fatto che spesso si pone come « me ­diazione » (anche perché è un tipo di spettacolo che esige un notevole dispendio di mezzi ,e quin ­di ha il bisogno di avere « le spalle protette ») ; dalla tendenza ad appoggiarsi a testi propria ­mente barocchi, come è evidente nel nostro paese; dall’eccessiva carenza di impostazioni teoretiche e conseguente eccessivo affidamento all’estro del singolo: e si sono notate incertezze per esempio circa le tecniche della recitazione, specialmente della dizione, come è apparso in alcuni spettacoli di Ronconi e anche in quello di Chéreau. Pro ­blemi questi ultimi che invece ha risolto con gran ­de sicurezza, ma talvolta giù abusando dei suoi mezzi, Carmelo Bene, che rappresenta del resto un momento particolarissimo, e certo il più ori ­ginale e creativo, data la sua condizione di au ­tore-attore-regista, dell’attuale tendenza neo-baroc ­ca. Non c’è dubbio che il suo è un grandioso barocco « alla rovescia », e nemmeno tanto « alla rovescia ».

La tendenza gestuale è quella che cerca di risolvere più drasticamente la crisi mettendo in causa la stessa nozione del « personaggio del protagonista, in quanto portatore di parola e di azione: analogamente a quanto avviene in certo valido romanzo contemporaneo, è l’opera nel suo insieme che si pone come protagonista, nel no ­stro caso è lo spettacolo e il gruppo che vi agisce a svolgere l’antico ruolo del personaggio, è il gruppo che si pone come « eroe linguistico ». Questa tendenza presuppone quindi un gruppo e in qualche modo una vita di gruppo, la quale vita di gruppo implica una forma di contesta ­zione immediata anche su un piano sociale, il che è tipicamente d’avanguardia. L’influsso del Living Theatre e delle teorie di Artaud è qui evidente a tutti i livelli (e del resto sono in qualche modo compresenti anche nella tendenza neo-barocca) .anche se qualcuno contrappone Ar ­taud al Living, o altri si dichiarano estranei all’una e all’altra esperienza. E il teatro gestua ­le più impegnato potrà richiamarsi all’Antigone o a The Brig, e quello gestuale più astratto e formale a The Mysteries, che sono tutti e tre, come ognuno sa, fondamentali spettacoli del Living Theatre. E c’è chi conduce avanti in mo ­do specifico una ricerca adatta a coinvolgere lo spettatore nella maniera più diretta possibile, e c’è chi esperimenta un « teatro di guerriglia ». E sono certo tra i più liberi, disinteressati, i meno condizionati dalle strutture teatrali a loro preesistenti. E bisognerebbe ormai fare un cen ­simento, dei vari gruppi esistenti in tutto il Paese: ho notizie abbastanza precise soltanto dei grup ­pi romani (e, per un più ampio discorso su Artaud e in generale sulle ragioni del teatro gestuale, mi permetto di rimandare al mio « La contestazione fisica del Living Theatre », sul primo numero di Quindici).

Su un più ampio e vario piano sperimentale, piuttosto originali e rigorose risultarono già le esperienze teatrali del Gruppo 63, particolarmente grazie a Ken Dewey (Palermo ’63) e a Toti Scialoia – Piero Panza (Roma ’65). Chi continua il suo lavoro con sempre maggior sicurezza e in modo autonomamente sperimentale, è Carlo Quartucci che ha rappresentato recentemente a Torino, per il Teatro stabile di quella città, I Te ­stimoni, un collage di tre brevi testi del polacco Tadeus Rozewicz. I testi costituiscono qui un pre ­testo, abbastanza freddo, ma anche di qualche interesse didattico, sulla crisi dell’opera teatra ­le; ma in realtà Quartucci, grazie anche all’in ­tervento del pittore Kounellis che ha curato la scenografia, esperimenta sulla scena una nozione di « arte povera », mettendoci per esempio di suo la divisione in due tempi: il primo come con ­certo gestuale orchestrale su un tempo « fittizio e coatto » (ed è quello che ha i ritmi più con ­vincenti), il secondo su un tempo « reale e li ­bero » (ed è quello in cui i « servi di scena », che nel primo tempo spingono le veloci basse car ­riole degli « attori ») agiscono ora in proprio, nel falso finale, quando sembra che gli antichi « ser ­vi » abbiano ormai in mano le cose: ma poi in ­terviene il vero finale: i servi non hanno ancora in mano le cose, eppure le cose non sono più quel ­le di prima, del primo tempo). Non c’è dubbio che Quartucci, con un curriculum che comprende fra l’altro un Beckett geometrizzato, alla Mondrian, e un Majakovskij dilatato a stadio, stia operando su una strada certo piuttosto difficile e talvolta di ­scutibile, ma sicuramente aperta e significativa.

Concludendo, non credo proprio che l’indica ­zione fatta di alcune delle più interessanti ten ­denze (e personalità) che si muovono in direzione del nuovo, possa in qualche modo apparire come una rassegna o panorama delle forze del nostro teatro. Basti pensare che non ho nominato Strehler, quando è certo che non è fittizia l’aspet ­tativa per il suo lavoro futuro, e non sol ­tanto grazie a quanto fece dieci o quindici anni fa, perché I giganti della montagna è opera as ­sai più recente, e di alto livello, che mentre chia ­ramente concludeva un ciclo, aveva contempora ­neamente in sé anche carica e apertura sul futuro.


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Bart