TEATRO: I MAESTRI: Teatro neobarocco e teatro gestuale4 Maggio 2013 di Elio Pagliarani Come si comporta uno che faccia critica di teatro su un quotidiano? Come è ora il mio caso: la questione può interessare anche al di fuori del quotidiano, suppongo. Ciò vuol dire proba bilmente che potrebbe risultare utile e sensato dichiarare nella maniera più esplicita possibile in base a quali criteri esprimo giudizi sugli spet tacoli di teatro. Ma certo, l’asso di briscola non ce l’ho: né credo che sia mai funzione della cri tica tirar fuori gli assi di briscola. Ma ho ab bastanza idea di come si danno le carte, del barare e altro. Il che vuol dire che cercherò di rendere espli cito un modo abbastanza elementare di approc cio allo spettacolo teatrale; e se il discorso com porterà anche una rapidissima analisi della si tuazione attuale del nostro teatro, non farò nulla per evitarlo. Non proprio criteri dunque, ma ap pena modalità preliminari, che mi pare sufficien te distinguere in due modalità di verifica. Prima (specie da un punto di vista di « cri tica come servizio ») sarà la verifica della coerenza fra l’intenzionalità (di uno spettacolo e, nel caso, dell’intero programma di una compa gnia o di uno stabile) e il risultato Da questo punto di vista, ha un segno nettamente positivo la qualifica di « professionista », e negativo quel la di « dilettante ». Così può succedere, in un caso limite, che dopo aver notato che un dato spettacolo è postprandiale e televisivo, risulti cor retto e opportuno aggiungere che gli interpreti svolgono con grande sicurezza la loro parte. E così, viceversa, può anche capitare di dire e os servare che l’attuale consapevolezza della rottura dei canoni naturalistici tradizionali, fa sì che anche gruppi dilettanteschi di livello che una volta sarebbe stato definito filodrammatico, si scate nino con le pennese sotto l’ombrello dell’avan guardia. Una parentesi sull’avanguardia: vero è che l’avanguardia ammette â— anzi, da un punto di vista, postula â— un dilettantismo come antipro fessionismo, inteso come rifiuto di una ontologica separatezza di generi e di spazi e di linguaggi; ma anche questo « dilettantismo specifico » ha da essere sottoposto a verifica: le regole del gioco (o sistema di decodificazione) non sono immuta bili, e guai al gioco che si pone come esemplare e normativo; ma non esiste gioco (insistiamo su « gioco », perché il termine ha il pregio di espri mere il gratuito e il necessario insieme, libertà e necessità nel contempo), cioè artificio, arte, sen za regole, senza cerimoniale, perché altrimenti fra l’altro (mentre ovviamente l’arte d’avanguardia non intende subire ricatti « in nome della vita ») si pretenderebbe di ricattare la vita « in nome dell’arte d’avanguardia »; cioè, mentre l’artista d’avanguardia non si fa dire da nessuno: «tu fatti in là che alla gestione della vita, alla ri voluzione magari, ci pensiamo noi » (questo è il significato, in termini socio-culturali, della sepa ratezza di generi, spazi, linguaggi), non è nem meno un idealista metafisico che pensa che la « sola, vera, possibile rivoluzione » è lui a farla. E ci sono oggigiorno molti idealisti metafisici fra i pasticcioni, e i megalomani, non solo nel mondo del teatro. La verifica della coerenza fra l’intenzionalità e il risultato viene ad essere anche verifica del la consapevolezza che gli operatori hanno dei pro pri mezzi espressivi. Da questo punto di vista, interessa soprattutto chi sa misurare le proprie forze, chi è lucidamente cosciente dei suoi limiti e delle sue possibilità; e chi non abusa delle proprie risorse per ammannire spettacoli a ruota libera; e chi, sicuro dei propri mezzi espressivi, sia tuttavia criticamente inquieto e disposto a ri cominciare da capo piuttosto che farsi imprigio nare da un cliché, per quanto di gran stile esso possa essere: e quest’ultima condizione è eviden temente la più alta, e difficile: perché presup pone sicurezza e inquietudine insieme, coscienza di sé orgogliosa magari e tuttavia che sappia placarsi al momento dell’opera â— altrimenti non potrebbe operare â— e amore, necessità dell’altro da sé â— altrimenti non potrà rinnovarsi, inno vare, rivoluzionare la propria opera. Tipica con dizione dell’operatore autenticamente sperimentale. Seconda modalità (ma da un punto di vista di critica attiva, d’intervento, sarà indiscutibil mente la prima): verifica della consapevolezza della situazione in cui si opera. Più internamente, sono in crisi, di cui colse Pirandello la flagranza, i due postulati o canoni sui quali è parsa reggersi, per tanto tempo, la finzione teatrale, e cioè: 1. validità e significati vità del dialogo, vale a dire della possibilità di intendersi (e per i naturalisti, di intendersi esaustivamente) con le parole; 2. significatività dell’azione in quanto intesa come valida oggettivazione del soggetto (la famigerata « concretezza dei fatti »). La negazione radicale fa perno anch’essa su due postulati, che sono gli stessi capovolti e di venuti cioè: 1. impossibilità d’intendersi mediante le parole; 2. insensatezza o insignificanza della azione in quanto è arbitrario intenderla oggetti vazione del soggetto. Se si toglie al teatro la parola e Fazione, che cosa gli rimane? Intanto, la parola non è l’unico linguaggio (anche se è il più alto e completo, ma anche il più logoro e il più esposto alla desemantizzazione e/o semantizzazione univoca da parte dei mass-media), sulla scena tutto è lin guaggio, dal gesto alle luci; sulla scena soprat tutto c’è il corpo umano tangibile, donde ha ori gine ogni nozione di linguaggio. Rimane in ogni caso centrale nel teatro lo scontro del linguaggio dei sensi e del linguaggio delle idee nel corpo umano. Inoltre, mi è già capitato di osservare alcuni anni fa che i due nuovi postulati di negazione o impossibilità, necessitano operativamente di co rollari. Io intendo: negazione della possibilità di intendersi con molti costrutti sintattici e locuzioni lessicali, più spesso i più correnti e banali e capitali, a causa dell’usura e della prevaricazione esercitata storicamente dagli istituti su quell’al tro istituto che è la lingua. E nella fattispecie operativa si è verificato che il teatro più valido nel secolo rappresenta: a) la dimostrazione della impossibilità d’intendersi con le parole correnti (prevalentemente, teatro dell’assurdo): b) l’inven zione di nuovi significati o semantizzazione del linguaggio, cioè progettazione per la lingua (pre valentemente, teatro epico) (e la tragedia come luogo d’incontro fra l’epico e l’assurdo â— scusate se lo dissi già altrove).E la progettazione oggi ha da essere soprattutto progettazione di utopia. E così l’azione va negata quando è esibita come coerente manifestazione di un apporto de finito di causa ed effetto, quando vuol essere in tesa in pacifica sintonia con la parola Ma non certo negazione dell’azione quando risalti a) ma nifestazione della prevaricazione esercitata dagli istituti sulla parola; cioè, tolto ogni schermo, vio lentata ogni separatezza, della prevaricazione sul l’uomo (prevalentemente, teatro dell’assurdo): b) meccanismo di scomposizione di « sintagmi » o costrutti correnti alienati, e/o meccanismo di esi bizione della propria artificiosità â— cioè, nel caso, dell’artificiosità delle strutture teatrali (prevalen temente, teatro epico). Sintetizzate così alcune delle )rime ragioni della crisi, proverò a registrare, ancor più rapi damente, come ha reagito e reagisce il nostro teatro a questa situazione: mi muovo cioè secon do una modalità di verifica. Nella maggior parte dei casi c’è da registrare il nulla o, peggio, il finto nuovo, un orpello qual siasi (un tema, un contenuto aggiornato o un mo dulo stilistico) che si inalbera finché dura la moda, e perché così va la moda. Il risultato è una baracca che fa acqua da tutte le parti, come è anche troppo evidente. Non mancano, però, risposte positive, portatrici di significati nuovi, anche se appaiono talvolta piuttosto incerte, e, in qualche caso, abbastanza velleitarie. Grosso modo, possiamo distinguere due orientamenti: uno che si può definire neo-barocco, e un secondo, gestuale. E pacifico che il barocco ha un’oggettiva ca pacita e attitudine spettacolare, grazie alla quale ha per esempio la possibilità di superare i limiti del meramente letterario: e nell’attuale tendenza neo-barocca la ridondanza risulta criticamen te “deformante: parola e azione vengono sotto poste a un « treatment di amplificazione » che, mentre sembra esaltare, in realtà ne limita o addirittura ridicolizza il significato più spicciolo e immediato, aumentandone la contradditorietà o vanificandolo nella spettacolarità: è lo spettacolo come Moloch, che ingoia e digerisce tutto. Il pe ricolo più evidente, va detto subito, è qui rap presentato dalla tentazione del sincretismo, cioè dalla concezione alquanto italiana che barocco e insalata siano affini se non proprio sinonimi, e che stia bene metterci di tutto un po’, un po’ di tradizione e un po’ di innovazione, e la co scienza apposto. Ma, ancora: è barocco l’attuale gusto dell’idea e fino alla « trovata *; ma il di scorso sulle corrispondenze del nostro tempo col barocco è già stato fatto molte volte, e in ogni caso ci porterebbe troppo lontano. Questa tenden za neo-barocca è abbastanza tipicamente italiana (ma si pensi al grande Radok, di cui fu rap presentato l’anno scorso a Firenze II gioco del l’amore e della morte; e può definirsi neo-barocco anche il Marat-Sade di Weiss e il relativo spet tacolo di Peter Brook), tant’è vero che uno dei migliori esempi di neo-barocco, e cioè la messa in scena de I Soldati di Lenz, realizzata dal giovanissimo regista Patrice Chéreau per il teatro di Sartrouville (anch’esso rappresentato in Italia per merito della Rassegna Fiorentina dei Teatri Stabili), è stato definito, dalla stessa critica fran cese, di « scuola italiana ». In questo senso, gli esempi più notevoli sono ora qui da noi rappre sentati da Luca Ronconi (ma in troppo rapido de crescendo, e da un livello mica poi tanto alto) e soprattutto da Aldo Trionfo, il cui Tito Andro nico è stato, a mio parere, in questa direzione, lo spettacolo più ricco e stimolante (e quante idee e trovate!) degli ultimi anni. Deficienze o debolezze o lacune o piuttosto li mitazioni di questo orientamento sono rappresenta te anche dal fatto che spesso si pone come « me diazione » (anche perché è un tipo di spettacolo che esige un notevole dispendio di mezzi ,e quin di ha il bisogno di avere « le spalle protette ») ; dalla tendenza ad appoggiarsi a testi propria mente barocchi, come è evidente nel nostro paese; dall’eccessiva carenza di impostazioni teoretiche e conseguente eccessivo affidamento all’estro del singolo: e si sono notate incertezze per esempio circa le tecniche della recitazione, specialmente della dizione, come è apparso in alcuni spettacoli di Ronconi e anche in quello di Chéreau. Pro blemi questi ultimi che invece ha risolto con gran de sicurezza, ma talvolta giù abusando dei suoi mezzi, Carmelo Bene, che rappresenta del resto un momento particolarissimo, e certo il più ori ginale e creativo, data la sua condizione di au tore-attore-regista, dell’attuale tendenza neo-baroc ca. Non c’è dubbio che il suo è un grandioso barocco « alla rovescia », e nemmeno tanto « alla rovescia ». La tendenza gestuale è quella che cerca di risolvere più drasticamente la crisi mettendo in causa la stessa nozione del « personaggio del protagonista, in quanto portatore di parola e di azione: analogamente a quanto avviene in certo valido romanzo contemporaneo, è l’opera nel suo insieme che si pone come protagonista, nel no stro caso è lo spettacolo e il gruppo che vi agisce a svolgere l’antico ruolo del personaggio, è il gruppo che si pone come « eroe linguistico ». Questa tendenza presuppone quindi un gruppo e in qualche modo una vita di gruppo, la quale vita di gruppo implica una forma di contesta zione immediata anche su un piano sociale, il che è tipicamente d’avanguardia. L’influsso del Living Theatre e delle teorie di Artaud è qui evidente a tutti i livelli (e del resto sono in qualche modo compresenti anche nella tendenza neo-barocca) .anche se qualcuno contrappone Ar taud al Living, o altri si dichiarano estranei all’una e all’altra esperienza. E il teatro gestua le più impegnato potrà richiamarsi all’Antigone o a The Brig, e quello gestuale più astratto e formale a The Mysteries, che sono tutti e tre, come ognuno sa, fondamentali spettacoli del Living Theatre. E c’è chi conduce avanti in mo do specifico una ricerca adatta a coinvolgere lo spettatore nella maniera più diretta possibile, e c’è chi esperimenta un « teatro di guerriglia ». E sono certo tra i più liberi, disinteressati, i meno condizionati dalle strutture teatrali a loro preesistenti. E bisognerebbe ormai fare un cen simento, dei vari gruppi esistenti in tutto il Paese: ho notizie abbastanza precise soltanto dei grup pi romani (e, per un più ampio discorso su Artaud e in generale sulle ragioni del teatro gestuale, mi permetto di rimandare al mio « La contestazione fisica del Living Theatre », sul primo numero di Quindici). Su un più ampio e vario piano sperimentale, piuttosto originali e rigorose risultarono già le esperienze teatrali del Gruppo 63, particolarmente grazie a Ken Dewey (Palermo ’63) e a Toti Scialoia – Piero Panza (Roma ’65). Chi continua il suo lavoro con sempre maggior sicurezza e in modo autonomamente sperimentale, è Carlo Quartucci che ha rappresentato recentemente a Torino, per il Teatro stabile di quella città, I Te stimoni, un collage di tre brevi testi del polacco Tadeus Rozewicz. I testi costituiscono qui un pre testo, abbastanza freddo, ma anche di qualche interesse didattico, sulla crisi dell’opera teatra le; ma in realtà Quartucci, grazie anche all’in tervento del pittore Kounellis che ha curato la scenografia, esperimenta sulla scena una nozione di « arte povera », mettendoci per esempio di suo la divisione in due tempi: il primo come con certo gestuale orchestrale su un tempo « fittizio e coatto » (ed è quello che ha i ritmi più con vincenti), il secondo su un tempo « reale e li bero » (ed è quello in cui i « servi di scena », che nel primo tempo spingono le veloci basse car riole degli « attori ») agiscono ora in proprio, nel falso finale, quando sembra che gli antichi « ser vi » abbiano ormai in mano le cose: ma poi in terviene il vero finale: i servi non hanno ancora in mano le cose, eppure le cose non sono più quel le di prima, del primo tempo). Non c’è dubbio che Quartucci, con un curriculum che comprende fra l’altro un Beckett geometrizzato, alla Mondrian, e un Majakovskij dilatato a stadio, stia operando su una strada certo piuttosto difficile e talvolta di scutibile, ma sicuramente aperta e significativa. Concludendo, non credo proprio che l’indica zione fatta di alcune delle più interessanti ten denze (e personalità) che si muovono in direzione del nuovo, possa in qualche modo apparire come una rassegna o panorama delle forze del nostro teatro. Basti pensare che non ho nominato Strehler, quando è certo che non è fittizia l’aspet tativa per il suo lavoro futuro, e non sol tanto grazie a quanto fece dieci o quindici anni fa, perché I giganti della montagna è opera as sai più recente, e di alto livello, che mentre chia ramente concludeva un ciclo, aveva contempora neamente in sé anche carica e apertura sul futuro. Letto 3110 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. 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