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LETTERATURA: I MAESTRI: Tobino di scena

23 Dicembre 2007

di Cesare Garboli
(da “La stanza separata”, Mondadori, 1969)

Credo sia stato, tra tutti i suoi libri, soprattutto Le libere donne di Magliano (1953), a suscitare intorno a Mario To ­bino quell’attenzione che egli meritava da tempo.

Frugare nell’anima di dannati personaggi, cimentarsi con le malat ­tie mentali può essere oggi per uno scrittore impresa cat ­tivante e ordinaria. Ma è dono originale il cattolicesimo arcaico di Tobino, la sua malinconica obbiettività creatu ­rale il suo occhio di medico, di spettatore esperto, distac ­cato e preciso, ma sempre rispettoso del «mistero » umano. Medico in un manicomio di provincia, di uno squallido ospedale italiano Tobino ha saputo restituirci un’immagine di antico, primitivo inferno toscano, coi suoi mostri e i suoi rozzi supplizi, concitate e stravolte figure femminili nella luce di un paesaggio medievale, dolorosamente pio. Queste donne dementi, queste femmine scatenate sono di sempre ma soprattutto di oggi. Il loro delirio è contemporaneo alla storia di ciascuno di noi.
È da allora che curiosità e interesse crescono intorno a Tobino. Abbastanza recentemente, Giuseppe de Robertis parlava di lui come dello scrittore, tra quelli della sua ge ­nerazione, che ha più «sprint ». E chi guardi alla vena di Tobino, alla vitalità dei suoi impulsi sanguigni e robusti, mai inquinata dai nervosi pensieri del nostro tempo, chi creda alla letteratura come passione, come forza e tempera ­mento, prima che come impiego di stile e d’ideologia, con ­verrà che il de Robertis ha colto nel segno con la parola giusta. Si tratta proprio di «sprint », uno scatto che in To ­bino c’è e fa difetto negli altri, una pienezza di mezzi, uno stato di grazia. Così è di certi corridori rimasti in ombra durante la gara, quando infilata la dirittura d’arrivo cam ­biano rapporto e ti escono fuori con una prepotenza che lascia di stucco.
Ma piace di Tobino soprattutto il modo in cui egli ha condotto la corsa. Qualcuno degli attributi che più visibil ­mente gli appartengono, per esempio: il comporre sculto ­reo, insieme con furia e precisione; l’anomalia della sin ­tassi, che incide ad alto rilievo secondo modelli evidente ­mente prediletti, Tacito e Machiavelli; l’uso sempre pre ­gnante del vocabolario; quello scrivere ricalcando fino al limite dello scrupolo il corso dei pensieri che s’affollano e soverchiano la mente che si lascia invadere dai fantasmi, quel duro stile che nelle Libere donne riesce a maggior di ­stensione, a una maniera effusiva, non aliena da accenti e colori patetici, si spiega in tutta la sua proprietà stilistica se riportato a esperienze precedenti, specie alla rovente ma ­teria bellica e civile di due «romanzi » del genere tobi ­niano, cioè sfuggenti a ogni regola, che risalgono assai più indietro di quanto non indichi la data scritta in calce: la novella-relazione Bandiera nera, 1950, e il diario di guerra Il deserto della Libia, 1952.
Non voglio dire che Le libere donne stiano su una linea d’involuzione. Anzi c’è in quel libro un’interiorità ardente che in Tobino prima mancava. Ma c’è anche uno scrittore che rifà se stesso, e più virtuosità che approfondimento nel ­lo stile imperioso, carico di gravità sentenziosa, inteso alla raffigurazione drammatica, al «gesto », all’introspezione tagliente. La tensione del linguaggio di Tobino conveniva di più allo scrittore-storico di sciagurati tempi, che al dia ­gnostico di rustici casi clinici. Della traiettoria di Tobino sarà semmai più significativo proprio l’impulsivo pamphlet dei Due italiani a Parigi, svelta fanfaretta in chiave di di ­vertimento, che poi, d’altra parte, scarica una tale quantità d’umori da far pensare a una liquidazione, e che lo scrit ­tore, di qui a poco, voglia ricominciare daccapo tentando altre strade. Conforterebbero questa opinione le cose di To ­bino più recenti, apparse su riviste, intonate a un gusto di narrazione distesa e commemorativa, fra le quali un rac ­conto spicca da non dimenticarsi più, il bellissimo I Bias ­soli («Botteghe Oscure », IX).
Anche per le poesie di Tobino, che egli riordina ora in un volume rappresentativo, L’asso di picche, c’è forse da prevedere un’accoglienza se non pari almeno non di gran che inferiore a quella dei romanzi e racconti. In gran nu ­mero, figurano nell’Asso di picche le stesse composizioni apparse anni fa in una plaquette dal titolo ’44’48, che in qualche modo stingevano, allora, sul colore avvampante del dopoguerra. Oggi questi versi, specie quelli d’ispirazio ­ne più infuocata e stasiotica, prendono un risalto superiore. Talune perplessità che ha suscitato il recente Due italiani a Parigi, per esempio, e tutte le riserve sulle parentele to ­scane del Tobino e soprattutto sulla sua immaginazione «strapaesana » si sarebbero risolte in maggior penetrazione del suo caso se si fosse gettato uno sguardo sul poeta: «I padri, / le statue calate giù dal battistero, / come serpenti / m’abbracciarono, / m’indicarono chi ero, / la mia forza, / la mia violenza ».
Tobino è scrittore di assoluta solitudine, di forte e dram ­matico tumulto privato. La sua vocazione nasce dalla fazio ­sità, da un odio antico, toscano, ma anche storicamente ben definito, cresciuto fino a diventare il solo sentimento per cui allo scrittore è permesso di prendere coscienza di se stesso. È l’odio che fa di Tobino uno scrittore. Si direbbe che in lui un sentimento di classicità sia connaturato a un antifascismo così sofferto, così ossessivo, diventato a tal punto un abito quotidiano, che quando finalmente è esploso s’è anche tradotto in aperta ribellione contro tutti i miti del nostro tempo, fino a prendere in prestito le sommarie, violente sembianze del suo contrario. Come per tutti quelli della sua generazione, anche per Tobino vent’anni di dit ­tatura non sono passati per caso. E chi ha imparato il com ­promesso e le vie coperte, chi la vigliaccheria ammantata di scetticismo, chi la pigra, unta o spocchiosa pratica della malafede. Tobino imparava l’odio, il sospetto, la paura, la violenza, il terrore di se stesso e degli altri. Per sempre, i suoi pensieri si sarebbero tinti di nero: «Che, i secoli pas ­sati? / Io sono in uno / e vi guardo, vi morrò. / Le sue passioni le mie furono / umano essendo e candido / come la candela la tiene / la stupida vergine in processione… ».
Come nel plumbeo chiaroscuro della Bandiera, o nei pa ­ragrafi o scene staccate, turbinose, tra il trattato e l’alluci ­nata relazione, del Deserto, così in alcuni tra i suoi versi migliori Tobino è il poeta del fascismo, il poeta della follia e della malinconia di chi è cresciuto e vissuto sotto il fasci ­smo. Nell’Asso di picche una poesia irrompe come uno squillo su dalle pagine, e sta sopra tutte le altre, puro odio senza rancore, senza neppure vendetta: «È venuto ciò che si aspettava / il rosso odio / che chiama / il fascista / gli dice di scendere / che è venuta per lui la morte ».
Frammenti in prosa versificata, si potrebbero definire le «poesie » di Tobino. Composizioni d’ispirazione momen ­tanea, relativa a uno stretto autobiografismo, scandite con forte suggestione ritmica e appoggiate a un recitativo affer ­matorio, che si avvale di molta coloritura. Difettano di scuola quanto brillano, più ancora che d’istinto, di nativo stile gestuale. Il loro effetto è immediato, vivacissimo, l’originalità assoluta. Quello che conquista è il timbro di que ­sta poesia, che sta sempre al di qua della maniera e sta sem ­pre sul punto di sfiorarla. Non si riscontrano esempi coevi (qua e là, sulle prime, c’è forse il ricordo di Cardarelli) di una vocazione coltivata in tale contrasto con gli ideali e i modi assoluti che caratterizzano tutte insieme le poetiche del Novecento. Non c’è neppure consapevolezza polemica in Tobino, tanto l’insensibilità ai problemi della cultura moderna è in lui un fatto naturale, un «assoluto provin ­ciale ». L’assolutezza è ancora in Tobino universalità, in ­genuità e quindi genuinità di temi, mentre il Novecento s’insinua in questa vocazione attraverso una seconda na ­tura «scenica » che appartiene in eguale misura sia al poeta sia allo scrittore.

Fin dai suoi inizi, Tobino persegue un ideale di poeta così antidecadente, ma così anacronistico, che egli stesso finirà poi per crederci soltanto nella misura in cui potrà ritagliarci sopra il personaggio di se stesso. Umori, pensieri, senti ­menti di Tobino sono schietti e vivi d’una immediatezza e schiettezza come riflessa, specchiata in una figura immagi ­naria e idoleggiata di poeta che «stringe la donna matta », gioca «l’asso di picche », e al cui cospetto «anche la morte si dipinge di nostalgia ». Poeta giambico ed elegiaco precipitato in tempi moderni, così che tra le pieghe del volto del Tobino più vero, iroso e dolente, o commovente e virile (ci sono accenti, in Tobino, di una gentilezza da medioevo: «mio padre, se anche / come dicono, / è mor ­to… »), spesso lampeggia un lazzo malinconico, un sogghi ­gno, un riso improvviso, il tratto di una maschera, la di ­versa disperazione del commediante. Le poesie di Tobino esigono mimica e voce, tradiscono l’attore, nascono da una singolare mescolanza di sincerità e di posa, l’autenticità lega senza volerlo con la retorica di se stessa, appena ap ­pena il sospetto, l’essenza inafferrabile della mistificazione.
È questo il diavolo di Tobino, la sua complicata natura ­lezza, la doppiezza che ce lo rende insieme provocante e contemporaneo.
Spesso, discutendo di Tobino, si fa riferimento al suo estro. Non c’è documento migliore del suo cammino poe ­tico, dalle prime Poesie (1934) all’Amicizia (1939), fino a Veleno e amore (1942) e ’44-’48 (1949) che giovi a con ­futare quest’idea critica. L’espressione è per Tobino osta ­colo da superare, strumento di tecnica difficile e coscien ­ziosa, e dai suoi numeri, dai suoi modi, tra i quali predo ­mina la fermezza del segno (per chi voglia divertirsi con le varianti, non saprei indicare riscontro più parlante della duplice redazione della Cartolina a G. M., quale appare nel ­l’Asso e in Veleno e amore) proprio il capriccio naturale, il divertimento e la trovata soffrono di esilio. Da notare piuttosto un linguaggio di gusto ellittico: «facciamo che al ­meno a loro / appaia meno invernale…; Eppure il così gentile / c’è tra di noi… », o l’estro si risolve in altro, in molta dote icastica. Del resto il linguaggio di Tobino non scopre e inventa nulla; scarsamente creativo e costruttivo, non mira a investire liricamente la realtà, né a fondarla attraverso la parola; si limita a rappresentare e a sorpren ­dere la mutevolezza e la varietà della vita quando la vita è già composta nella sua norma, accettata nei suoi dati ele ­mentari e fondamentali, nella sua legge alterna e immuta ­bile, che regola ciò che passa e ritorna, o fugge e non tor ­na più.
Moti di stizza struggente («Va via Luglio, / corri come tutte le cose… »), pensierose riflessioni di un se stesso chino sullo specchio della propria solitudine, perpetua vicenda d’innamoramento, litigio e riconciliazione di un poeta-personaggio, da una parte, e lo spettacolo del mondo dal ­l’altra, con le sue fuggitive e puntuali meraviglie. L’im ­maginazione divampa, aggredisce, consuma energie vitali e le brucia in «poesia », in uno scatto di collera, in un so ­spiro, in un lampo, secondo le infinite «visioni » di una mente solitariamente memorizzatrice. Il jeu d’amour, la guerra privata, la briscola con la vita non ha mai fine… Il poeta stringe la donna matta, può immortalare la partita.
Ma la vena gnomica, in questa ispirazione che muove da un sentimento obbiettivo e convenzionale della realtà, fi ­nisce poi per prevalere su quella lirica. Il modo di perce ­pire di Tobino è anzi caratterizzato dalla gnome, e non c’è turbolenza d’impulsi che si scatenano («quale natura è la mia / che mille passioni la agitano… »), la quale non tol ­leri di rientrare nell’altalena di una vicenda di cui si sa già tutto in anticipo. Sentimento della vita come bene di con ­sumo, a beneficio limitato, quindi sentimento insieme tran ­quillo e ossessivo dei suoi realistici limiti: la giovinezza che scappa, la solitudine, la morte. Non bisogna leggere le poesie dell’Asso di picche staccandole l’una dall’altra: in Tobino è un dono, un’istintiva capacità d’ambientazione dei suoi moti e delle sue sensazioni di uomo solo. Così si sprigiona indirettamente, dai suoi versi, più di una sugge ­stione figurativa, di spontaneo e raffinato gusto tra paesano e popolaresco; e come si disegna via via una biografia vi ­vace, il personaggio-poeta, così in essa si riflette uno sfondo, un corteo di comparse e figure, uno scenario di vita pro ­vinciale.
Una storia italiana: la città («Viareggio polverosa, Via ­reggio più bella dell’Oriente »), la gaia gioventù («insie ­me si camminava muovendo le spalle »), i davanzali pri ­maverili e le feste, e poi, giù giù, gli avvenimenti che roto ­lano, il fascismo, la guerra, l’empito giulivo della Libera ­zione, il ricordo della vita che è stata («Fu come Shake ­speare / quando dal porto ritornava / e la malinconia dei delitti / calava intorno come la pioggia »). E sempre To ­bino in posa, sempre Tobino di scena, protagonista necessario di magnanime circostanze, fino all’ultimo pomeriggio viareggino, fino a «quel dopopranzo di malinconia pensie ­rosa / che trasporteranno al cimitero / l’unico poeta »: che è l’ultimo atto, si sa già. Il sipario scende su una tra ­gedia e commedia, su quell’immenso teatro che è per To ­bino, come per tutti gli uomini di solitudine ossessiva, la vita.

(1955)


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Bart