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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Tomasi, Giuseppe

7 Novembre 2007

I racconti    

“I racconti”

Feltrinelli, 1972, pagg. 134

Non nascondo la mia emozione nell’affrontare questi racconti, giacché non posso fare a meno di pensare che l’autore è colui che ha scritto quel bellissimo romanzo intitolato: “Il Gattopardo”, portato sui teleschermi con altrettanto valore dal grande Luchino Visconti.

Come accadrà qualche anno dopo per Salvatore Satta, così anche per Tomasi di Lampedusa la scoperta dei suoi scritti avverrà subito dopo la sua scomparsa, e il mondo letterario sarà scosso da quel suo capolavoro uscito postumo nel 1958, un anno appena dalla sua morte. Nel 1961 usciranno “I racconti”.

La data che appare nel primo racconto: “Il mattino di un mezzadro”: 14 settembre 1901, è superba e magnifica per un lucchese come me, poiché il 14 settembre è la festa della Santa Croce, che si celebra ininterrottamente da più di un millennio nella mia città. Il giorno prima, la vigilia, si tiene, la sera, una processione tanto celebrata quanto è celebrato il “Volto Santo”, il crocifisso sacro che la leggenda vuole scolpito da Nicodemo e dagli angeli e che entrò nella città antica su di un carro trainato da una coppia di buoi dal bianco manto immacolato, e ne divenne il suo “Re”.

Invece, nel racconto, quel 14 settembre don Batassano Ibba, “quasi-barone”, stava ammirando la mappa delle sue estese proprietà, “lunga due metri e alta ottanta centimetri”, redatta in scala “di 1 al 5000”. Ha da poco comprato una terra nientemeno che dal principe “Fabrizietto” di Salina, discendente del “vecchio principe Fabrizio” che noi conosciamo bene attraverso “Il Gattopardo”. Il suo procuratore, “Il ragioniere Ferrara”, è venuto per riscuotere e ha voluto denaro contante. Don Batassano, “il riccone”, commenta: “Sono costretti a vendere, con l’acqua alla gola, e ancora salta loro il ticchio di voler distinguere fra biglietti e fedi di credito!”

La scrittura è la stessa de “Il Gattopardo”, espressione di una felicità narrativa soddisfatta e compiuta, sicura, doviziosa.

Il pretesto del racconto è quello di mostrare le ambizioni di una famiglia che dalla povertà, attraverso “il genio” di uno dei suoi membri, fra l’altro sospettato perfino di omicidio, Gaspare – il padre di don Batassano -, è riuscita a poco a poco con avidità e senza scrupoli a mettere da parte un patrimonio di terre ragguardevole, che il figlio non ha fatto altro che accrescere, tanto che ora non si parla al Circolo che dei “leggendari Ibba” e si prova molto invidia per la loro ricchezza, ma anche “un inconscio disagio nel vedere che si poteva, al principio del secolo ventesimo, erigere una grande fortuna esclusivamente terriera”, proprio quando le grandi famiglie abbandonavano la terra.

È una classe, quella dei proprietari terrieri, tratteggiata nel momento del suo disfacimento, così come avviene nel romanzo capolavoro, e questo racconto è, insieme tuttavia con l’ultimo, quello che più si collega ad esso. Scrive l’autore: “erano i tragici soprassalti di una classe che vedeva sfuggire il proprio primato latifondistico, cioè la propria ragion d’essere e la propria continuità sociale”. Don Batassano, come ne “Il Gattopardo” don Calogero Sedara, il padre di Angelica, è infatti diverso da loro, che sono tutti nobili e abituati a non far niente. Egli non solo tiene alle sue terre, ma segue direttamente il lavoro dei suoi braccianti e conduce una vita ritirata “come un monaco”; si alza alle quattro di mattina e la sera alle otto è già a letto. Una vita incomprensibile ed impossibile per loro, che hanno da sempre fantasie e sogni oziosi per la testa.

Si muove per il racconto la stessa atmosfera che respiriamo ne “Il Gattopardo” ed esso appare come uno spaccato anticipatore, una scena premonitrice, del capolavoro.

Girolamo è il protagonista del secondo racconto intitolato “La gioia e la legge”; è povero ed in ufficio, nell’imminenza del Natale, tutti pensano che debba andare a lui il grosso panettone con cui il padrone ogni anno premia l’impiegato più meritevole. Girolamo avverte una grande emozione e, giunto a casa, mostra con orgoglio il premio alla sua Maria. Ma non sarà la sua famiglia a consumare l’ambito regalo. Maria, che ha l’orgoglio di essere “nipote di un grande cappellaio di via Indipendenza”, ricorda che essi hanno un debito di riconoscenza con l’avvocato Risma, e quindi quale occasione migliore di quella per trasferire a lui quel dono.

Così, tra amarezza e sconforto, Girolamo ubbidisce e solo dopo l’Epifania riceverà un biglietto con scritto: “con vivissimi ringraziamenti e auguri.”

Il racconto non nasconde le influenze della letteratura russa, ed in particolare di Gogol’.

“Lighea”, il terzo racconto, mostra un autore diverso, brioso, ben disposto al divertimento e all’ironia, sulla quale, infine, sparge il sentimento di un amore per la sua terra leggendario e intenso. È una novità assai piacevole e il racconto è tra i migliori della raccolta, se non il migliore. Un giornalista, Paolo Corbèra, abbandonato dalle sue occasionali compagne, passa solitario le sue serate al “caffè di via Po”, a Torino, e qui s’imbatte in un frequentatore illustre, il maggior “ellenista dei nostri tempi.”, il senatore, di origine siciliana come lui, Rosario La Ciura. È una figura altezzosa, sprezzante, ma alquanto eccentrica. Tutte le volte che sul giornale legge qualche sciocchezza sputa, e lo fa così spesso da infastidire gli altri frequentatori: “I miei sputi sono simbolici e altamente culturali” dice a Paolo.

È un personaggio di rimarchevole rilievo, artisticamente riuscito e tale da rimanere suggestivamente impresso nella memoria, ma tutto il racconto è di una bellezza assoluta. Il professore, attraverso il quale l’autore trasferisce al lettore il suo amore per la Sicilia, riporta, coi suoi ricordi, l’isola ai fasti dell’antica mitologia, e la rievocazione dell’apparizione della sirena che nel lontano 5 agosto 1887 si era aggrappata alla sua barca è di un fascino raro. Egli crede che si tratti di una bagnante: “mi portai all’altezza di lei, mi curvai, le tesi le mani per farla salire. Ma essa, con stupefacente vigoria emerse diritta dall’acqua sino alla cintola, mi cinse il collo con le braccia, mi avvolse in un profumo mai sentito, si lasciò scivolare nella barca: sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta che lenta batteva il fondo della barca. Era una sirena.” E ancora, a proposito della sua voce: “Essa era un po’ gutturale, velata, risuonante di armonici innumerevoli; come sfondo alle parole in essa si avvertivano le risacche impigrite dei mari estivi, il fruscio delle ultime spume sulla spiaggia, il passaggio dei venti sulle onde lunari.” È Lighea: “son figlia di Calliope. Non credere alle favole inventate su di noi: non uccidiamo nessuno, amiamo soltanto.”

Il quarto ed ultimo racconto, “I luoghi della mia prima infanzia”, è un doloroso richiamo non solo al periodo più felice della sua vita, ma anche alle crudeltà della guerra che ha distrutto e cancellato per sempre gli oggetti del proprio ricordo, ma non la loro memoria e l’amore per essi: “ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone.” Anche qui qualche eco de “Il Gattopardo” è percepibile distintamente, per esempio quando, tutti impolverati dopo un viaggio di dodici ore, la famiglia giunge in estate nella maestosa villa di campagna di Santa Margherita Belice, (“era una specie di Pompei del Settecento, in cui tutto si fosse miracolosamente conservato intatto”), che contava “tra grandi e piccole, un cento stanze.” Il racconto fa memoria di questo antico edificio, che aveva ospitato per molto tempo Ferdinando II (“Re Nasone”) e Maria Carolina, durante il loro esilio da Napoli, dove regnava Gioacchino Murat, e la scrittura ci immerge persuasivamente nei secoli che l’hanno attraversata ed adornata. Ricordando l’amministratore della villa, “una specie di nano con una lunghissima barba bianca”, l’autore scrive a conclusione del racconto: “La sua morte coincise con la rapida ed improvvisa fine di questa bellissima tra le più belle ville. Siano queste righe che nessuno leggerà un omaggio alla sua illibata memoria.”


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