Tre articoli12 Dicembre 2011 Per tagliare bisogna studiare Ogni volta che un governo prova a tagliare la spesa pubblica – un mo stro che ogni an no costa qualcosa come 700 miliardi di euro, più o meno la metà dell’intero prodotto nazionale – le reazioni sono immancabilmente due: la (comprensibile) protesta da parte degli interessi colpiti, e il biasimo nei confronti del governo. Al governo si rimprovera di non essere capace di colpi re i «veri » privilegiati, di non essere capace di individuare i «veri » sprechi, di non sape re intervenire sulle «vere » inefficienze. Parti sociali, gruppi di pressione e singoli cittadini più o meno indignati si uniscono in una sacra cro ciata contro i «tagli lineari », spesso dando ad intendere che, ove i tagli stessi non fos sero lineari, coloro che prote stano ne sarebbero esenti. Di praticare tagli lineari, indi- scriminati e quindi ingiusti, veniva accusato Padoa Schioppa, di tagli lineari veni va accusato Tremonti, di ta gli lineari viene ora accusato Monti. I go verni cambiano ma i tagli restano sem pre lineari. Sembra proprio che nessun governo sia capace di procedere a tagli non lineari, ossia tagli mirati, selettivi, chirurgici. E anche per questo tutte le manovre, che le faccia la sinistra, che le faccia la destra, o che le faccia un gover no tecnico, finiscono sempre per puntare più sugli aumenti delle tasse che sui tagli alla spesa. E un fatto rilevante, perché una corre zione di 20 miliardi fatta con 15, con 10, o con 5 miliardi di tasse in più ha effetti profondamente diversi sulla crescita, e quindi sul futuro di un paese. Se gli au menti di tasse sono eccessivi e/o mal indi rizzati, i rischi di recessione aumentano, e la correzione può non bastare. Si deve procedere a un’altra correzione, che a sua volta rischia di rendere ancora più difficile un ritorno alla crescita, in una spirale che può durare anni. Ma perché è così difficile evitare tagli che sono o appaiono lineari, e quindi in giusti? Insomma, solo l’emergenza muove la politica, ma proprio la mancanza di piani operativi la rende incapace di fronteggia re efficacemente le emergenze. Così non siamo mai pronti, e rischiamo di perdere la guerra. Stato d’eccezione ma non se ne parla All’ordine del gior no nelle vicende della Repubblica è oggi uno dei temi chiave della grande riflessione polito- logica del Novecento: lo «stato d’eccezione ». Cioè quella condizione di straordinarietà nella vita di una Costituzione in cui, per la necessità di fronteggiare una situazio ne di emergenza, le sue regole sono sospese, a co minciare da quelle riguar danti la formazione del governo e l’ambito dei suoi poteri. La sospensio ne può avvenire in via di fatto o di diritto, anche se per ovvie ragioni sono ben poche (almeno a mia conoscenza) le costi tuzioni democratiche che prevedono, al di fuo ri del caso di una guerra, le procedure per dichiara re lo stato d’eccezione e i modi di questo. Che con il varo del go verno Monti l’Italia si sia trovata virtualmente in una condizione del gene re lo ha ricordato in un editoriale di Avvenire (4 dicembre scorso) Marco Olivetti parlando di «una vera e propria crisi di si stema » che ha colpito il Paese, e di «ruolo ecce zionale » svolto dal presi dente della Repubblica. Aggiungendo subito do po: «Quando la macchi na dell’ordinario funzio namento delle istituzio ni si inceppa, il presiden te (come il re negli ordi namenti monarchici da cui la nostra presidenza deriva) è una sorta di “motore di riserva” che entra in funzione, fino al punto di diventare una sorta di reggitore sussi diario del sistema (corsi vo mio, ndr), al fine di consentire che esso ri prenda a funzionare. Dal la fine di ottobre ad oggi Napolitano ha svolto ec cellentemente questo ruolo ». È senz’altro que sto ciò che è accaduto, e l’Italia deve essere certa mente grata al suo presi dente per l’avveduta prontezza con cui egli è intervenuto come «moto re di riserva ». Ciò nondi meno sono sicuro che con la sua cultura demo cratica Napolitano per primo si renda conto de gli interrogativi non irri levanti che l’azione a cui è stato costretto suscita. Che sono principalmen te due. Primo: quali so no le condizioni â— non previste in alcun luogo della Costituzione, è be ne ricordarlo â— che ren dono necessario, per usa re la metafora di Avveni re, un «motore di riser va »? E secondo: chi è che decide quando esse si ve rificano? Ad esempio, la decisione dei primi del 1994 del presidente Scalfaro di sciogliere le Ca mere contro la volontà della maggioranza dei parlamentari, o, per dir ne un’altra, la lettera as solutamente irrituale con cui pochi mesi dopo lo stesso Scalfaro mise di fatto sotto tutela il ne onato primo governo Berlusconi, con il farsi personalmente garante della sua conformità de mocratica, rientrano o no nella fattispecie del «motore di riserva »? Che sull’insieme di tali questioni ci sia urgente, anzi urgentissimo, biso gno di una discussione approfondita lo testimo niano alcune interpreta zioni della nostra Costitu zione che sulla scia degli ultimi avvenimenti stan no vedendo la luce, e che a me sembrano del tutto prive di fondamento e nella sostanza assai peri colose. Ne cito una per tutte, considerata l’indub bia autorevolezza dell’autore e la sua influenza sul l’opinione pubblica: quel la avanzata da Eugenio Scalfari suLa Repubblica(4 dicembre scorso). Auspicando che il governo Monti â— il quale a suo dire «realizza in pieno il ritorno alla Costituzione » â— rappresenti l’annun cio di un’auspicabile «Terza Repubblica » (data tuttavia per «già cominciata » nell’ultima riga dell’articolo), e dopo aver sottolinea to che non è affatto detto che quando esso «avrà compiuto la sua opera e realizzato i suoi obiettivi tutto debba tornare come pri ma », Scalfari scrive di augurarsi che d’ora in poi «i futuri governi siano sempre governi istituzionali che riflettano gli indirizzi della maggioranza parlamentare ma la cui compo sizione sia decisa dal capo dello Stato comela Costituzione prescrive con estrema chia rezza! » (corsivo mio, ndr). E ribadisce poco dopo che la scelta dei ministri «spetta al ca po dello Stato » e non ai partiti, essendo que sta secondo lui «una distinzione fondamen tale che preserva l’essenza del governo-istituzione ». Come possa un presidente della Repubblica con un tale ruolo, un presidente della Repubblica che decide la composizio ne dei governi, che ne sceglie i ministri, rap presentare «l’unità nazionale » è argomento su cui il nostro autore non si diffonde. Così come non si ferma a chiarire in quale modo’ il presidente del Consiglio possa «avere maggiori poteri rispetto ai suoi ministri » â— come pure egli vorrebbe â— una volta che tali suoi ministri, anziché scelti dal premier stesso, fossero stati designati, invece, nien te di meno che dal capo dello Stato. Come si vede, insomma, sta nascendo nel Paese, sull’onda degli ultimi rivolgimen ti, una grande voglia di novità. Che investo no anche, come io personalmente credo sia giusto e ormai improrogabile, anche parti decisive dell’assetto costituzionale dei pote ri pubblici. Ma questa voglia di novità deve manifestarsi all’insegna della chiarezza, at traverso una grande discussione pubblica che veda in prima fila, innanzitutto, gli stu diosi di diritto costituzionale (perlopiù fino ra, invece, singolarmente timidi e abbotto nati, pur di fronte a cose di grande rilievo e ‘ nonostante il loro frequente atteggiarsi a «guardiani della Costituzione »), hi un Pae se democratico non può esserci posto per modifiche della Carta costituzionale attra verso vie surrettiziamente interpretative e forzando a piacere il testo della medesima. La democrazia senza i partiti Ma, quando tutto questo sarà finito, che cosa sarà della politica e del le sue istituzioni? Diremo che è stata una parentesi oppure una rivelazione? Parentesi che, co me si è aperta, così si chiude ri dando voce al discorso di prima; oppure rivelazione di qualcosa di nuovo .sorto dalle macerie del vecchio? Queste domande devono ap parire insensate a coloro che pensano o sostengono che nulla di rilevante sia accaduto e che tutto, in fondo, sarà come pri ma, così forse credendo di me glio contrastare la tesi estremi stica di coloro che, per loro irre sponsabili intenti, hanno grida to allo scandalo costituzionale, al colpo o colpetto di stato. In ef fetti, chi potrebbe dire chela Costituzioneè stata violata? La scelta del presidente del Consiglio è stata fatta dal presi dente della Repubblica; il presi dente del Consiglio ha proposto al presidente della Repubblica la lista dei ministri e questi li ha no minati; il governo si è presenta to alle Camere e ha ottenuto la fiducia; leggi e decreti del governo dovranno passare all’approva zione del Parlamento. Non c’è che dire: tutto in regola. Dovreb bero essere soddisfatti perfino coloro i quali pensano che la legge elettorale abbia sterilizzando poteri e possibilità del presidente della Repubblica. Come il potere di ricercare in Parlamento eventuali mag gioranze diverse da quella venuta dalle elezioni. Per co storo, in caso di crisi, si dovrebbe ne cessariamente, sempre e comunque, ritornare a votare. Quella che si è for mata per sostenere il nuovo governo, infatti, non è una maggioranza alter nativa alla precedente; è – di fatto – la stessa, soltanto allargata a forze di op posizione chiamate a condividerne le responsabilità. Abbiamo girato pagi na quanto alle persone al governo – il che non è poco – ma non abbiamo af fatto rotto la continuità politica, co me del resto il presidente del Consi glio, con atti e parole, continuamen te, tiene a precisare. Onde potrebbe dirsi: prosecuzione della vecchia po litica con altra competenza e rispetta bilità. Nelle presenti condizioni poli tiche parlamentari, del resto, non po trebbe essere altrimenti. Per quanto riguarda la legalità co stituzionale di quanto accaduto, nul la dunque da eccepire. Semplice- mente, il presidente della Repubblica ha fatto un uso delle sue prerogative che è valso a colmare il deficit d’iniziativa e di responsabilità di forze po litiche palesemente paralizzate dalle loro contraddizioni, di fronte all’incombere di un rischio-fallimento, al tempo stesso, economico e finanzia rio, sociale e politico, unanimemente riconosciuto nella sua gravità e im pellenza. Fine, su questo punto. È invece sulla sostanza costituzio nale, sotto il profilo della democrazia, che occorre aprire una discussione. È qui che ci si deve chiedere che cosa troveremo alla fine (perché, prima o poi, tutto è destinato a finire e qualcos’altro incomincia). Di fronte alla pressione della que stione finanziaria e alle misure neces sarie per fronteggiarla, i partiti politi ci hanno semplicemente alzato ban diera bianca, riconoscendo la propria impotenza, e si sono messi da parte. Nessun partito, nessuno schiera mento dipartiti, nessun leader politi co, è stato nelle condizioni di parlare ai cittadini così: questo è il program ma, queste le misure e questi i costi da pagare per il risanamento o, addirit tura, perla salvezza, e siamo disposti ad assumere le responsabilità conse guenti. Né la maggioranza preceden te, che proprio di fronte alle difficoltà, si andava sfaldando; né l’opposizio ne, che era sfaldata da prima. Niente di niente e, in questo niente, il ricorso al salvagente offerto dal presidente della Repubblica con la sua iniziativa per un governo fuori dai partiti è evi dentemente apparsa l’unica via d’u scita. Insomma, comunque la si rigi ri, è evidente la bancarotta, anzi l’au to dichiarazione di bancarotta. Di fronte a grandi problemi, ci si aspetterebbe una grande “classe diri gente”, che cogliesse l’occasione propizia per mostrarsi capace d’iniziativa politica. Sennò: dirigente di che co sa? Si dirà: e il governo, pur piovuto dal cielo, è tuttavia sostenuto dai partiti; anzi, il sostegno non è mai stato, nel la storia della Repubblica, così largo; i partiti, quale più quale meno, per senso di responsabilità o per impos sibilità di fare diversamente, alla fin fine, si mostrano in questo modo al l’altezza della situazione. Sì e no. Sì, perché voteranno; no, perché il voto non è un sostegno e un coinvolgi mento nelle scelte del governo ma è, piuttosto, una reciproca sopporta zione in stato di necessità. Il governo, timoroso d’essere intralciato dai partiti; i partiti, timorosi di compromet tersi col governo. Il presidente del Consiglio ha onestamente ricono sciuto che i partiti, meno si fanno sentire, meglio è: votino le proposte del governo e basta. I partiti, a loro volta, sono in un’evidente contraddizione: devono ma non possono. Avvertono di dover votare ma, al tempo stesso, avvertono anche che non possono farlo impunemente. Gli stessi emen damenti di cui si discute in questi giorni sembrano più che altro dei co nati: per usare il linguaggio corrente, non un “metterci la faccia”, ma un cercare di “salvarsi la faccia”. In questa delicata situazione, i partiti devono esserci ma vorrebbero non esserci. Per questo, meno si fan no vedere, meglio è. I contatti, quan do ci sono, avvengono dalla porta di servizio. Alla fine, si arriverà, con il sollievo di tutti, a un paradossale vo to di fiducia che, strozzando il dibat tito parlamentare, imporrà l’appro vazione a scatola chiusa e permetterà di dire al proprio elettorato: non avrei voluto, ma sono stato costretto. Ma c’è dell’altro. In un momento drammatico come questo, con il ma lessere sociale che cresce e dilaga, con la società che si divide tra chi può sempre di più, chi può ancora e chi non può più, con il bisogno di prote zione dei deboli esposti a quella che avvertono come grande ingiustizia: proprio in questo momento i partiti sono come evaporati. Corrono il ri schio che si finisca, per la loro stessa ammissione, per considerarli cose superflue, d’altri tempi. In qualun que democrazia, i partiti hanno il compito di raccogliere le istanze so ciali e trasformarle in proposte politi che, per “concorrere con metodo de mocratico alla politica nazionale”, come dice l’articolo 49 della Costitu zione: sono dunque dei trasformatori di bisogni in politiche. Una volta svolto questo compito di unificazio ne secondo disegni generali, ne han no un secondo, altrettanto importan te: di tenere insieme la società, per la parte che ciascuno rappresenta, nel sostegno alla realizzazione dell’indi rizzo politico, se fanno parte della maggioranza, e nell’opporsi, se non ne fanno parte. Un duplice compito di strutturazione democratica, in as senza del quale si genera un vuoto, una pericolosa situazione di anomia, cioè di disordine politico, nel quale il governo si trova a dover fare i conti di rettamente col disfacimento partico laristico, corporativo ed egoistico dei gruppi sociali, inevitabilmente privi legiando i più forti a danno dei più de boli. La dialettica tra governo e so cietà non trova oggi in Italia la neces saria mediazione dei partiti. Di que sta, invece, la democrazia, in qualsia si sua forma, ha necessità vitale. Gli storici avrebbero molto da dirci sulla miscela perversa di crisi sociale e alienazione politica, cioè sulla rot tura del nesso che i partiti devono creare tra società e Stato. Non che la storia sia il prodotto di leggi inelutta bili, ma certo fornisce numerosi esempi, nemmeno tanto lontani nel tempo: nel nostro caso, esempi – che sono ammonimenti – del disastro che si produce quando le forze della rappresentanza politica e sociale si ritirano a favore di soluzioni tecnocratiche, apparentemente neutrali, né di destra né di sinistra, al di sopra delle parti. Può essere che in queste consi derazioni ci sia una piega di pessimi smo, ma vale l’ammonimento: non tutti gli ottimisti sono sciocchi, ma tutti gli sciocchi sono ottimisti. E allora? Allora, il rischio è che, “quando tutto questo sarà finito” ci si ritrovi nel vuoto di rappresentanza. Una certa destra nel vuoto si muove molto bene, per mezzo di qualche fa cilissima trovata demagogica. Il vuo to, invece, a sinistra ha bisogno di ben altro, cioè di partecipazione e di fidu cia da riallacciare tra cittadini, e tra cittadini e quelle istituzioni che esi stono per organizzare politicamente i loro ideali e interessi. Questo – altro che sparire, arrendendosi alle diffi coltà – è il compito che attende i par titi che stanno da quella parte, un compito che ha bisogno di idee e pro grammi, strutture politiche rinnova te e trasparenti, uomini e donne di cui ci si possa fidare. Non di salvatori che “scendono in campo”, ma di seri la voratori della politica, degni del ri spetto dei cittadini di cui si propon gono come rappresentanti. Altri articoli“La crociata della Bindi, la regina dei benefit” di Laura Cesaretti. Qui. “L’elemosina di Monti. Porta in faccia alla Cgil” di Alessandro Sallusti. Qui. “Le relazioni del governo dei tecnici” di Mario Sechi. Qui. Letto 1019 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. 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