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Tre articoli

12 Dicembre 2011

Per tagliare bisogna studiare
di Luca Ricolfi
(da “La Stampa”, 12 dicembre 2011)

Ogni volta che un governo prova a tagliare la spesa pubblica – un mo ­stro che ogni an ­no costa qualcosa come 700 miliardi di euro, più o meno la metà dell’intero prodotto nazionale – le reazioni sono immancabilmente due: la (comprensibile) protesta da parte degli interessi colpiti, e il biasimo nei confronti del governo.

Al governo si rimprovera di non essere capace di colpi ­re i «veri » privilegiati, di non essere capace di individuare i «veri » sprechi, di non sape ­re intervenire sulle «vere » inefficienze. Parti sociali, gruppi di pressione e singoli cittadini più o meno indignati si uniscono in una sacra cro ­ciata contro i «tagli lineari », spesso dando ad intendere che, ove i tagli stessi non fos ­sero lineari, coloro che prote ­stano ne sarebbero esenti.
Tutto ciò, è importante sottolinearlo, succede indi ­pendentemente dal colore politico del governo.

Di praticare tagli lineari, indi- scriminati e quindi ingiusti, veniva accusato Padoa Schioppa, di tagli lineari veni ­va accusato Tremonti, di ta ­gli lineari viene ora accusato Monti. I go ­verni cambiano ma i tagli restano sem ­pre lineari. Sembra proprio che nessun governo sia capace di procedere a tagli non lineari, ossia tagli mirati, selettivi, chirurgici. E anche per questo tutte le manovre, che le faccia la sinistra, che le faccia la destra, o che le faccia un gover ­no tecnico, finiscono sempre per puntare più sugli aumenti delle tasse che sui tagli alla spesa.

E un fatto rilevante, perché una corre ­zione di 20 miliardi fatta con 15, con 10, o con 5 miliardi di tasse in più ha effetti profondamente diversi sulla crescita, e quindi sul futuro di un paese. Se gli au ­menti di tasse sono eccessivi e/o mal indi ­rizzati, i rischi di recessione aumentano, e la correzione può non bastare. Si deve procedere a un’altra correzione, che a sua volta rischia di rendere ancora più difficile un ritorno alla crescita, in una spirale che può durare anni.

Ma perché è così difficile evitare tagli che sono o appaiono lineari, e quindi in ­giusti?
Una ragione che spesso si dimentica è che, nella maggior parte degli ambiti di spesa, e in particolare nella sanità, nella scuola, nella giustizia, nei servizi pubblici locali, per disporre di un piano di tagli «non lineari » e ragionevoli, ci vogliono al ­meno un paio di anni di studi. Un partito, una forza politica, una coalizione che aspiri a governare un Paese, dovrebbe avere i cassetti pieni di decine e decine di piani operativi, frutto di studi accurati, analitici, dettagliati. Non basta sapere che nell’erogazione di un servizio ci sono 15-20 miliardi di sprechi (è il caso della sa ­nità italiana) ma occorre sapere con estrema precisione dove gli sprechi si an ­nidano: in quali regioni, in quali ospedali, in quali reparti, per quali prestazioni. Quel che occorrerebbe, in altre parole, non è solo una spending review, ossia una ricognizione generale delle inefficienze della Pubblica amministrazione come quella avviata a suo tempo dal governo Prodi (e colpevolmente congelata dal go ­verno Berlusconi), ma una miriade di mi ­cro-analisi, una rete di piani di interven ­to, di progetti di trasformazione, suppor ­tati da anni di analisi particolari. Quando la politica «decide » qualcosa – riformare la sanità, dismettere parte del patrimo ­nio pubblico, ridurre gli sprechi di un ser ­vizio – dovrebbe avere già i piani operati ­vi pronti, come li hanno gli stati maggiori degli eserciti. Nessun Paese è privo di piani militari di difesa, nessun Paese ri ­nuncia ad aggiornarli costantemente, perché in caso di attacco bisogna essere in grado di reagire subito, non c’è il tem ­po per riunirsi, studiare, discutere* dibat ­tere, nominare commissioni. Invece le forze politiche, pur sapendo da almeno venti anni quali sono i problemi struttura ­li dell’Italia, sono del tutto prive di piani operativi (non hanno studiato!), tanto è vero che, quando decidono di intervenire su qualcosa, invariabilmente procedono nominando una commissione «per studia ­re il problema », come se il problema fos ­se sorto in quel momento. Ma quella com ­missione, di nuovo, non avrà tempo per studiare. E così la storia si ripete all’infi ­nito.

Insomma, solo l’emergenza muove la politica, ma proprio la mancanza di piani operativi la rende incapace di fronteggia ­re efficacemente le emergenze. Così non siamo mai pronti, e rischiamo di perdere la guerra.


Stato d’eccezione ma non se ne parla
di Ernesto Galli della Loggia
(dal “Corriere della Sera”, 12 dicemebre 2011)

All’ordine del gior ­no nelle vicende della Repubblica è oggi uno dei temi chiave della grande riflessione polito- logica del Novecento: lo «stato d’eccezione ». Cioè quella condizione di straordinarietà nella vita di una Costituzione in cui, per la necessità di fronteggiare una situazio ­ne di emergenza, le sue regole sono sospese, a co ­minciare da quelle riguar ­danti la formazione del governo e l’ambito dei suoi poteri. La sospensio ­ne può avvenire in via di fatto o di diritto, anche se per ovvie ragioni sono ben poche (almeno a mia conoscenza) le costi ­tuzioni democratiche che prevedono, al di fuo ­ri del caso di una guerra, le procedure per dichiara ­re lo stato d’eccezione e i modi di questo.

Che con il varo del go ­verno Monti l’Italia si sia trovata virtualmente in una condizione del gene ­re lo ha ricordato in un editoriale di Avvenire (4 dicembre scorso) Marco Olivetti parlando di «una vera e propria crisi di si ­stema » che ha colpito il Paese, e di «ruolo ecce ­zionale » svolto dal presi ­dente della Repubblica. Aggiungendo subito do ­po: «Quando la macchi ­na dell’ordinario funzio ­namento delle istituzio ­ni si inceppa, il presiden ­te (come il re negli ordi ­namenti monarchici da cui la nostra presidenza deriva) è una sorta di “motore di riserva” che entra in funzione, fino al punto di diventare una sorta di reggitore sussi ­diario del sistema (corsi ­vo mio, ndr), al fine di consentire che esso ri ­prenda a funzionare. Dal ­la fine di ottobre ad oggi Napolitano ha svolto ec ­cellentemente questo ruolo ». È senz’altro que ­sto ciò che è accaduto, e l’Italia deve essere certa ­mente grata al suo presi ­dente per l’avveduta prontezza con cui egli è intervenuto come «moto ­re di riserva ». Ciò nondi ­meno sono sicuro che con la sua cultura demo ­cratica Napolitano per primo si renda conto de ­gli interrogativi non irri ­levanti che l’azione a cui è stato costretto suscita. Che sono principalmen ­te due. Primo: quali so ­no le condizioni â— non previste in alcun luogo della Costituzione, è be ­ne ricordarlo â— che ren ­dono necessario, per usa ­re la metafora di Avveni ­re, un «motore di riser ­va »? E secondo: chi è che decide quando esse si ve ­rificano? Ad esempio, la decisione dei primi del 1994 del presidente Scalfaro di sciogliere le Ca ­mere contro la volontà della maggioranza dei parlamentari, o, per dir ­ne un’altra, la lettera as ­solutamente irrituale con cui pochi mesi dopo lo stesso Scalfaro mise di fatto sotto tutela il ne ­onato primo governo Berlusconi, con il farsi personalmente garante della sua conformità de ­mocratica, rientrano o no nella fattispecie del «motore di riserva »?

Che sull’insieme di tali questioni ci sia urgente, anzi urgentissimo, biso ­gno di una discussione approfondita lo testimo ­niano alcune interpreta ­zioni della nostra Costitu ­zione che sulla scia degli ultimi avvenimenti stan ­no vedendo la luce, e che a me sembrano del tutto prive di fondamento e nella sostanza assai peri ­colose. Ne cito una per tutte, considerata l’indub ­bia autorevolezza dell’autore e la sua influenza sul ­l’opinione pubblica: quel ­la avanzata da Eugenio Scalfari suLa Repubblica(4 dicembre scorso).

Auspicando che il governo Monti â— il quale a suo dire «realizza in pieno il ritorno alla Costituzione » â— rappresenti l’annun ­cio di un’auspicabile «Terza Repubblica » (data tuttavia per «già cominciata » nell’ultima riga dell’articolo), e dopo aver sottolinea ­to che non è affatto detto che quando esso «avrà compiuto la sua opera e realizzato i suoi obiettivi tutto debba tornare come pri ­ma », Scalfari scrive di augurarsi che d’ora in poi «i futuri governi siano sempre governi istituzionali che riflettano gli indirizzi della maggioranza parlamentare ma la cui compo ­sizione sia decisa dal capo dello Stato comela Costituzione prescrive con estrema chia ­rezza! » (corsivo mio, ndr). E ribadisce poco dopo che la scelta dei ministri «spetta al ca ­po dello Stato » e non ai partiti, essendo que ­sta secondo lui «una distinzione fondamen ­tale che preserva l’essenza del governo-istituzione ». Come possa un presidente della Repubblica con un tale ruolo, un presidente della Repubblica che decide la composizio ­ne dei governi, che ne sceglie i ministri, rap ­presentare «l’unità nazionale » è argomento su cui il nostro autore non si diffonde. Così come non si ferma a chiarire in quale modo’

il  presidente del Consiglio possa «avere maggiori poteri rispetto ai suoi ministri » â— come pure egli vorrebbe â— una volta che tali suoi ministri, anziché scelti dal premier stesso, fossero stati designati, invece, nien ­te di meno che dal capo dello Stato.

Come si vede, insomma, sta nascendo nel Paese, sull’onda degli ultimi rivolgimen ­ti, una grande voglia di novità. Che investo ­no anche, come io personalmente credo sia giusto e ormai improrogabile, anche parti decisive dell’assetto costituzionale dei pote ­ri pubblici. Ma questa voglia di novità deve manifestarsi all’insegna della chiarezza, at ­traverso una grande discussione pubblica che veda in prima fila, innanzitutto, gli stu ­diosi di diritto costituzionale (perlopiù fino ­ra, invece, singolarmente timidi e abbotto ­nati, pur di fronte a cose di grande rilievo e ‘ nonostante il loro frequente atteggiarsi a «guardiani della Costituzione »), hi un Pae ­se democratico non può esserci posto per modifiche della Carta costituzionale attra ­verso vie surrettiziamente interpretative e forzando a piacere il testo della medesima.


La democrazia senza i partiti
di Gustavo Zagrebelsky
(da “la Repubblica”, 12 dicembre 2011)

Ma, quando tutto questo sarà finito, che cosa sarà della politica e del ­le sue istituzioni? Diremo che è stata una parentesi oppure una rivelazione? Parentesi che, co ­me si è aperta, così si chiude ri ­dando voce al discorso di prima; oppure rivelazione di qualcosa di nuovo .sorto dalle macerie del vecchio?

Queste domande devono ap ­parire insensate a coloro che pensano o sostengono che nulla di rilevante sia accaduto e che tutto, in fondo, sarà come pri ­ma, così forse credendo di me ­glio contrastare la tesi estremi ­stica di coloro che, per loro irre ­sponsabili intenti, hanno grida ­to allo scandalo costituzionale, al colpo o colpetto di stato. In ef ­fetti, chi potrebbe dire chela Costituzioneè stata violata?

La scelta del presidente del Consiglio è stata fatta dal presi ­dente della Repubblica; il presi ­dente del Consiglio ha proposto al presidente della Repubblica la lista dei ministri e questi li ha no ­minati; il governo si è presenta ­to alle Camere e ha ottenuto la fiducia; leggi e decreti del governo dovranno passare all’approva ­zione del Parlamento. Non c’è che dire: tutto in regola. Dovreb ­bero essere soddisfatti perfino coloro i quali pensano che la legge elettorale abbia sterilizzando poteri e possibilità del presidente della Repubblica.

Come il potere di ricercare in Parlamento eventuali mag ­gioranze diverse da quella venuta dalle elezioni. Per co ­storo, in caso di crisi, si dovrebbe ne ­cessariamente, sempre e comunque, ritornare a votare. Quella che si è for ­mata per sostenere il nuovo governo, infatti, non è una maggioranza alter ­nativa alla precedente; è – di fatto – la stessa, soltanto allargata a forze di op ­posizione chiamate a condividerne le responsabilità. Abbiamo girato pagi ­na quanto alle persone al governo – il che non è poco – ma non abbiamo af ­fatto rotto la continuità politica, co ­me del resto il presidente del Consi ­glio, con atti e parole, continuamen ­te, tiene a precisare. Onde potrebbe dirsi: prosecuzione della vecchia po ­litica con altra competenza e rispetta ­bilità. Nelle presenti condizioni poli ­tiche parlamentari, del resto, non po ­trebbe essere altrimenti.

Per quanto riguarda la legalità co ­stituzionale di quanto accaduto, nul ­la dunque da eccepire. Semplice- mente, il presidente della Repubblica ha fatto un uso delle sue prerogative che è valso a colmare il deficit d’iniziativa e di responsabilità di forze po ­litiche palesemente paralizzate dalle loro contraddizioni, di fronte all’incombere di un rischio-fallimento, al tempo stesso, economico e finanzia ­rio, sociale e politico, unanimemente riconosciuto nella sua gravità e im ­pellenza. Fine, su questo punto.

È invece sulla sostanza costituzio ­nale, sotto il profilo della democrazia, che occorre aprire una discussione. È qui che ci si deve chiedere che cosa troveremo alla fine (perché, prima o poi, tutto è destinato a finire e qualcos’altro incomincia).

Di fronte alla pressione della que ­stione finanziaria e alle misure neces ­sarie per fronteggiarla, i partiti politi ­ci hanno semplicemente alzato ban ­diera bianca, riconoscendo la propria impotenza, e si sono messi da parte. Nessun partito, nessuno schiera ­mento dipartiti, nessun leader politi ­co, è stato nelle condizioni di parlare ai cittadini così: questo è il program ­ma, queste le misure e questi i costi da pagare per il risanamento o, addirit ­tura, perla salvezza, e siamo disposti ad assumere le responsabilità conse ­guenti. Né la maggioranza preceden ­te, che proprio di fronte alle difficoltà, si andava sfaldando; né l’opposizio ­ne, che era sfaldata da prima. Niente di niente e, in questo niente, il ricorso al salvagente offerto dal presidente della Repubblica con la sua iniziativa per un governo fuori dai partiti è evi ­dentemente apparsa l’unica via d’u ­scita. Insomma, comunque la si rigi ­ri, è evidente la bancarotta, anzi l’au ­to dichiarazione di bancarotta.

Di fronte a grandi problemi, ci si aspetterebbe una grande “classe diri ­gente”, che cogliesse l’occasione propizia per mostrarsi capace d’iniziativa politica. Sennò: dirigente di che co ­sa?

Si dirà: e il governo, pur piovuto dal cielo, è tuttavia sostenuto dai partiti; anzi, il sostegno non è mai stato, nel ­la storia della Repubblica, così largo; i partiti, quale più quale meno, per senso di responsabilità o per impos ­sibilità di fare diversamente, alla fin fine, si mostrano in questo modo al ­l’altezza della situazione. Sì e no. Sì, perché voteranno; no, perché il voto non è un sostegno e un coinvolgi ­mento nelle scelte del governo ma è, piuttosto, una reciproca sopporta ­zione in stato di necessità. Il governo, timoroso d’essere intralciato dai partiti; i partiti, timorosi di compromet ­tersi col governo. Il presidente del Consiglio ha onestamente ricono ­sciuto che i partiti, meno si fanno sentire, meglio è: votino le proposte del governo e basta. I partiti, a loro volta, sono in un’evidente contraddizione: devono ma non possono. Avvertono di dover votare ma, al tempo stesso, avvertono anche che non possono farlo impunemente. Gli stessi emen ­damenti di cui si discute in questi giorni sembrano più che altro dei co ­nati: per usare il linguaggio corrente, non un “metterci la faccia”, ma un cercare di “salvarsi la faccia”.

In questa delicata situazione, i partiti devono esserci ma vorrebbero non esserci. Per questo, meno si fan ­no vedere, meglio è. I contatti, quan ­do ci sono, avvengono dalla porta di servizio. Alla fine, si arriverà, con il sollievo di tutti, a un paradossale vo ­to di fiducia che, strozzando il dibat ­tito parlamentare, imporrà l’appro ­vazione a scatola chiusa e permetterà di dire al proprio elettorato: non avrei voluto, ma sono stato costretto.

Ma c’è dell’altro. In un momento drammatico come questo, con il ma ­lessere sociale che cresce e dilaga, con la società che si divide tra chi può sempre di più, chi può ancora e chi non può più, con il bisogno di prote ­zione dei deboli esposti a quella che avvertono come grande ingiustizia: proprio in questo momento i partiti sono come evaporati. Corrono il ri ­schio che si finisca, per la loro stessa ammissione, per considerarli cose superflue, d’altri tempi. In qualun ­que democrazia, i partiti hanno il compito di raccogliere le istanze so ­ciali e trasformarle in proposte politi ­che, per “concorrere con metodo de ­mocratico alla politica nazionale”, come dice l’articolo 49 della Costitu ­zione: sono dunque dei trasformatori di bisogni in politiche. Una volta svolto questo compito di unificazio ­ne secondo disegni generali, ne han ­no un secondo, altrettanto importan ­te: di tenere insieme la società, per la parte che ciascuno rappresenta, nel sostegno alla realizzazione dell’indi ­rizzo politico, se fanno parte della maggioranza, e nell’opporsi, se non ne fanno parte. Un duplice compito di strutturazione democratica, in as ­senza del quale si genera un vuoto, una pericolosa situazione di anomia, cioè di disordine politico, nel quale il governo si trova a dover fare i conti di ­rettamente col disfacimento partico ­laristico, corporativo ed egoistico dei gruppi sociali, inevitabilmente privi ­legiando i più forti a danno dei più de ­boli. La dialettica tra governo e so ­cietà non trova oggi in Italia la neces ­saria mediazione dei partiti. Di que ­sta, invece, la democrazia, in qualsia ­si sua forma, ha necessità vitale.

Gli storici avrebbero molto da dirci sulla miscela perversa di crisi sociale e alienazione politica, cioè sulla rot ­tura del nesso che i partiti devono creare tra società e Stato. Non che la storia sia il prodotto di leggi inelutta ­bili, ma certo fornisce numerosi esempi, nemmeno tanto lontani nel tempo: nel nostro caso, esempi – che sono ammonimenti – del disastro che si produce quando le forze della rappresentanza politica e sociale si ritirano a favore di soluzioni tecnocratiche, apparentemente neutrali, né di destra né di sinistra, al di sopra delle parti. Può essere che in queste consi ­derazioni ci sia una piega di pessimi ­smo, ma vale l’ammonimento: non tutti gli ottimisti sono sciocchi, ma tutti gli sciocchi sono ottimisti.

E allora? Allora, il rischio è che, “quando tutto questo sarà finito” ci si ritrovi nel vuoto di rappresentanza. Una certa destra nel vuoto si muove molto bene, per mezzo di qualche fa ­cilissima trovata demagogica. Il vuo ­to, invece, a sinistra ha bisogno di ben altro, cioè di partecipazione e di fidu ­cia da riallacciare tra cittadini, e tra cittadini e quelle istituzioni che esi ­stono per organizzare politicamente i loro ideali e interessi. Questo – altro che sparire, arrendendosi alle diffi ­coltà – è il compito che attende i par ­titi che stanno da quella parte, un compito che ha bisogno di idee e pro ­grammi, strutture politiche rinnova ­te e trasparenti, uomini e donne di cui ci si possa fidare. Non di salvatori che “scendono in campo”, ma di seri la ­voratori della politica, degni del ri ­spetto dei cittadini di cui si propon ­gono come rappresentanti.

Altri articoli

“La crociata della Bindi, la regina dei benefit” di Laura Cesaretti. Qui.

“L’elemosina di Monti. Porta in faccia alla Cgil” di Alessandro Sallusti. Qui.

“Le relazioni del governo dei tecnici” di Mario Sechi. Qui.


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Bart