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Napolitano, la Consulta e quel silenzio della Costituzione

17 Agosto 2012

di Gustavo Zagrebelsky
(da “la Repubblica”, 17 agosto 2012)

ETEROGENESI dei fini. Delle nostre azioni siamo, talora, noi i padroni. Ma il loro significato, nella trama di relazioni in cui siamo immersi, dipende da molte cose che, per lo più, non dipendono da noi. Sono le circostanze a dare il sen ­so delle azioni. È davvero diffici ­le immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei con ­fronti degli uffici giudiziari pa ­lermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d’un tas ­sello, anzi del perno, di tutt’inte ­ra un’operazione di discredito, isolamento morale e intimida ­zione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in ba ­se a sentenze definitive, possia ­mo considerare la “trattativa” tra uomini delle istituzioni e uo ­mini della mafia. Sulla straordi ­naria importanza di queste in ­dagini e sulla necessità che esse siano non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c’è bisogno di dire parola, almeno per chi crede che nessuna one ­sta relazione sociale possa co ­struirsi se non a partire dalla ve ­rità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è grande l’esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo di nasconderla.

Questa è una prima conside ­razione. Ma c’è dell’altro. Innanzitutto, ci sono i ri ­flessi sulla Corte costituzionale e sulla posizione che è chiama ­ta ad assumere. Non è dubbio che il presidente della Repubblica, come “potere dello Stato”, possa intentare giudizi, per difendere le attribuzioni ch’egli ritenga insidiate da altri poteri. Ma non si può ignorare che la Cor ­te, in questo caso, è chiamata a pro ­nunciarsi in una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti. Non si tratta, come ad esempio avvenne quando il presidente Ciampi riven ­dicò a sé il diritto di grazia, d’una controversia sui caratteri d’un sin ­golo potere e sulla spettanza del suo esercizio. Qui, si tratta della posizio ­ne nel sistema costituzionale del Presidente, in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona. Non è que ­stione, solo, di competenze, ma an ­che di comportamenti. Questa cir ­costanza, del tutto straordinaria, non consente di dire che si tratti d’u ­na normale disputa costituzionale che attende una normale pronuncia in un normale giudizio. È un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull’altra, l’autorità giudizia ­ria, il cui peso, al confronto, è poco. Quali che siano gli argomenti giuri ­dici, realisticamente l’esito è sconta ­to. Presidente e Corte, ciascuno per la sua parte, sono entrambi “custodi della Costituzione”. Sarebbe un fat ­to devastante, al limite della crisi co ­stituzionale, che la seconda desse torto al primo; che si verificasse una così acuta contraddizione proprio sul terreno di principi che sia l’uno che l’altra sono chiamati a difende ­re. Così, nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato an ­che già vinto. Non è una contesa ad armi pari, ma, di fatto, la richiesta d’una alleanza in vista d’una senten ­za schiacciante. A perdere sarà an ­che la Corte: se, per improbabile ipo ­tesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d’irresponsabilità; dando ­gli ragione, sarà accusata di cortigia ­neria. Il giudice costituzionale, ov ­viamente, è obbligato al solo diritto. Ma perché così possa essere, è lecito attendersi che gli si risparmi, per quanto possibile, d’essere coinvolto in conflitti di tal genere, non nell’in ­teresse della tranquillità della Corte e dei suoi giudici, ma nell’interesse della tranquillità del diritto.

C’è ancora dell’altro. Sulla fondatez ­za di un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall’e ­sprimersi. Ma, almeno alcune cose pos ­sono dirsi, riguardando il campo non dell’opinabile, ma dei dati giuridici espliciti, e quindi incontestabili. Questi dati sono esigui. Una sola norma tratta espressamente delle conversazioni te ­lefoniche del presidente della Repub ­blica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla cari ­ca dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento. “In ogni caso”, dice la nor ­ma, l’intercettazione deve essere di ­sposta da un tale “Comitato parlamen ­tare” che interviene nel procedimento d’accusa con poteri simili a quelli d’un giudice istruttore. Nient’altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedi ­mento d’accusa; niente sulle intercet ­tazioni indirette o casuali (quelle ri ­guardanti chi, non intercettato, è sor ­preso a parlare con chi lo è); niente sull’utilizzabilità, sull’inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti. Niente di niente. A questo punto, si entra nel campo del ­l’altamente opinabile, potendosi ragionare in due modi. Primo modo: siamo di fronte a una lacuna, a un vuoto che si deve colmare e, per far ciò, si deve guar ­dare ai principi e trarre da questi le re ­gole che occorrono. Il presupposto di questo modo di ragionare è che si abbia a che fare con una dimenticanza o una reticenza degli autori della Costituzio ­ne, alle quali si debba ora porre rimedio. Secondo modo: siamo di fronte non a una lacuna, ma a un “consapevole si ­lenzio” dei Costituenti, dal quale risul ­ta la volontà di applicare al presidente della Repubblica, per tutto ciò che non è espressamente detto di diverso, le re ­gole comuni, valide per tutti i cittadini. Il presidente della Repubblica, nel suo ricorso, ragiona nel primo modo, ap ­pellandosi al principio posto nell’art. 90 della Costituzione, secondo il quale egli, nell’esercizio delle sue funzioni, non è responsabile se non per alto tra ­dimento e attentato alla Costituzione. La “irresponsabilità” comporterebbe “inconoscibilità”, “intoccabilità” asso ­luta da cui conseguirebbero, nella spe ­cie, obblighi particolari di comporta ­mento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e delle garanzie ordinarie del processo penale. La Corte costituzio ­nale è chiamata ad avallare quest’inter ­pretazione, che è una delle due: l’una e l’altra hanno dalla loro parte l’opinione di molti costituzionalisti. Le si chiede di dire che l’irresponsabilità, di cui parla la Costituzione, equivale, per l’appunto, a garanzia di intoccabilità-inconoscibi ­lità di ciò che riguarda il presidente del ­la Repubblica, per il fatto d’essere pre ­sidente della Repubblica. Ma, in pre ­senza di tanti punti interrogativi e di un’alternativa così netta, una decisione che facesse pendere la bilancia da una parte o dall’altra non sarebbe, propria ­mente, applicazione della Costituzione ma legislazione costituzionale in forma di sentenza costituzionale. Anzi, se si crede che il silenzio dei Costituenti sia stato consapevole, sarebbe revisione, mutamento della Costituzione. Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma di governo, con ir ­radiazioni ben al di là della questione specifica delle intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui setten ­nati presidenziali a venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente, atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?

Coinvolgimento in una “operazio ­ne”, inconvenienti per la Corte costitu ­zionale, conseguenze di sistema sulla Costituzione: ce n’è più che abbastan ­za per una riconsiderazione. Signor Presidente, non si lasci fuorviare dal co ­ro dei pubblici consensi. Una cosa è l’ufficialità, dove talora prevale la forza seduttiva di ciò che è stato definito il pe ­ricoloso “plusvalore” di chi dispone dell’autorità; un’altra cosa è l’informa ­lità, dove più spesso si manifesta la sin ­cerità. Le perplessità, a quanto pare, su ­perano di gran lunga le marmoree cer ­tezze. Il suo “decreto” del 16 luglio, fa ­cendo proprie le parole di Luigi Einau ­di (più monarchiche, in verità, che re ­pubblicane), si appella a un dovere stringente: impedire che si formino “precedenti” tali da intaccare la figura presidenziale, per poterla lasciare ai successori così come la si è ricevuta dai predecessori. Nella Repubblica, l’inte ­grità e la continuità che importano non sono lasciti ereditari, ma caratteri im ­personali delle istituzioni nel loro com ­plesso. Col ricorso alla Corte, già è stato segnato un punto che impedirà di dire in futuro che un fatto è stato accettato come precedente, con l’acquiescenza di chi ricopre pro tempore la carica pre ­sidenziale. D’altra parte, da quel che è noto per essere stato ufficialmente di ­chiarato dal procuratore della Repub ­blica di Palermo il 27 giugno, le inter ­cettazioni di cui si tratta sono total ­mente prive di rilievo per il processo. Che cosa impedisce, allora, nello spiri ­to della tante volte invocata “leale colla ­borazione”, di raggiungere lo stesso fi ­ne cui, in ultimo, il conflitto miraâ—la di ­struzione delle intercettazioni, per la parte riguardante il presidente della Re ­pubblica â— attraverso il procedimento ordinario e con le garanzie di riserva ­tezza previste per tutti? Che bisogno c’è d’un conflitto costituzionale, che si porta con sé quella pericolosa eteroge ­nesi dei fini, di cui sopra s’è detto? Forse che i magistrati di Palermo hanno detto di rifiutarsi d’applicare lealmente la legge?


Un Napolitano segreto
di Claudio Cerasa e Salvatore Merlo
(da “Il Foglio”, 17 agosto 2012)

Fosse un film, inizierebbe con questa dicitura, nei titoli di testa: soggetto, sceneggiatura, regia e interpretazione di Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica, si sa, ha voluto Mario Monti alla guida del governo ed è sempre il capo dello stato, adesso, ad aver intessuto una complessa e formidabile trama che ha un solo urgentissimo obiettivo: confermare Monti anche nel 2013 (non necessariamente a capo del governo), anche a costo di sciogliere le Camere in anticipo, a Natale; anche a costo di concedersi qualche forzatura, e qualche piccola irritualità; tutto purché il prossimo presidente del Consiglio possa essere incaricato da lui, e dunque prima del 15 maggio, prima del fatidico giorno in cui scadrà il suo mandato. Ne sanno qualcosa Pier Ferdinando Casini, Gianni ed Enrico Letta, Renato Schifani, Giuliano Amato e persino Eugenio Scalfari, cioè tutti coloro i quali, pur nel rispetto dei loro diversi ruoli, da circa due mesi su questa specifica materia sono diventati più che mai gli ufficiali di collegamento tra il Quirinale e i partiti, e l’opinione pubblica, e il centrodestra e il centrosinistra, e i partner europei e la Bce di Mario Draghi. Sono loro, più di chiunque altro, i testimoni diretti dello straordinario attivismo ormai conquistato dal capo dello stato in un contesto sfilacciato, di marasma finanziario e politico.

Tutto comincia circa un mese fa, con i mercati che tornano ad avvitarsi pericolosamente al ribasso. Mercoledì 18 luglio Mario Monti sale al Quirinale, com’è noto, ufficialmente per parlare della complicata situazione finanziaria in cui versa la regione Sicilia. Quel che è meno noto è che il presidente del Consiglio quel giorno è sconfortato e di fronte al capo dello stato allarga le braccia: dopo il Consiglio europeo del 28 e 29 giugno si ritrova infatti con le munizioni scariche, lo spread ha travolto la soglia dei 540 punti e non sembra arrestare la sua pericolosa scalata verso la vetta. Così Monti quel giorno parla chiaro al presidente Napolitano, il Lord protettore, il nume tutelare dell’esecutivo tecnico: il mio governo – gli dice – “non ha al momento altri strumenti” per far abbassare la febbre dei mercati. Ed è la tremenda premessa per quanto Monti si prepara ad aggiungere, come testualmente riferito al Foglio da una fonte: “Se è necessario, presidente, completiamo i decreti sulla spending review e sullo sviluppo. Dopo di che sono disponibile a traghettare il paese verso le elezioni”. A quel punto, Napolitano, come racconta chi ha avuto modo di discutere l’episodio con lui, annuisce. Il capo dello stato ci pensa da tempo, come sa bene anche Monti, e al premier conferma di essere disponibile a valutare la possibilità di una accelerazione verso le elezioni anticipate, già ad ottobre. Nelle ore successive, una volta uscito Monti, il Quirinale informa telefonicamente, per primi, Gianni Letta, Pier Ferdinando Casini ed Enrico Letta, pregando tutti – privatamente e poi, come si è visto, anche in pubblico – di non tergiversare più sulla legge elettorale. Bisogna farla e poi votare al più presto, magari per rimettere Monti al suo posto, più legittimato di prima. Così l’inclinazione istituzionale diventa politica, i telefoni dei Palazzi si surriscaldano, i colloqui si infittiscono, gli ambasciatori cominciano a muoversi tra Palazzo Grazioli e il quartier generale del Pd al Nazareno. Ciascuno si attiva per il campo e il ruolo che gli compete. Ma la manovra, che pure raccoglie subito molte e trasversali simpatie all’interno di Pd e Pdl, si infrange sui dubbi di Silvio Berlusconi, che ancora non sa come e con che partito andrà alle urne; e va anche a sbattere sulle schermaglie tattiche di Pier Luigi Bersani, che sulla riforma elettorale gioca una sua non sempre decifrabile partita. Il segretario del Pd e il Cavaliere, comprensibilmente, non si fidano l’uno dell’altro, sembrano negoziare sul serio ma dietro ogni trattativa ciascuno di loro vede una patacca, il tentativo dell’altro di rifilare un bidone; dunque tutto si incarta in quella che Casini chiama “la sceneggiata napoletana” sulla riforma elettorale. Dentro il Palazzo gli avversari-alleati della strana maggioranza si impaludano, si confondono e si prendono un po’ in giro mentre fuori, in quegli stessi giorni di luglio, si scatena forte come non mai la campagna contro il Quirinale, sulle intercettazioni tra Loris D’Ambrosio e Nicola Mancino, sulla trattativa stato-mafia. “Chi vuole un Quirinale debole?”, si chiede il 17 luglio sul Sole 24 Ore Stefano Folli, commentatore sensibile agli umori del capo dello stato, al pari di Scalfari (Repubblica) e Michele Ainis (Corriere ed Espresso). Non è un caso.

Folli, che ha una certa consuetudine negli ambienti del Quirinale, proprio come Scalfari, il 17 luglio si chiede dunque a chi giova un Quirinale debole. Ma l’ex direttore del Corriere, in quell’editoriale, ha pure la risposta alla domanda. Risposta chiarissima: “L’obiettivo era e resta quello di ridurre lo spazio di manovra del presidente e rendere molto più difficile per lui intervenire con successo nel dibattito pubblico: che si tratti di affrontare un passaggio politico scivoloso, decidere sulle elezioni anticipate o altro”. D’altra parte anche nel Pd, nella sponda più sensibile alla “moral suasion” di Napolitano, soprattutto tra i senatori democrat, sono ormai convinti che i recenti attacchi portati avanti contro il Qurinale dai nemici della “Grande coalizione” (Di Pietro, il Fatto, Grillo) abbiano come obiettivo principale non quello di creare un legame tra il presidente e le inchieste sulle trattative ma, più semplicemente, di togliere autorevolezza al capo dello stato, di indebolirlo e metterlo nelle condizioni di non poter più replicare lo schema montiano anche nel 2013: sospendere la politica, chiedere ai partiti di farsi all’incirca un altro mesto giro di pista dietro la safety car dei tecnici.

Un primo tentativo di portare il paese alle anticipate – ad ottobre – dunque fallisce in quei giorni di luglio, subisce una botta di arresto (anche se non definitiva) per ragioni interne ed esterne alle logiche di Palazzo, e lascia il Quirinale un po’ più debole di prima per gli attacchi belluini sulle intercettazioni e la trattativa, su quelle telefonate trascritte e conservate nei cassetti della procura di Palermo. Telefonate che il capo dello stato non teme affatto per il loro contenuto, ma che pure registrano gli umori privati del presidente e dunque forse rendono pure l’idea del suo ruolo di motore della politica italiana in questa fase così delicata. D’altra parte, è storia di queste ore, Napolitano, malgrado tutto, non deflette dalle sue inclinazioni. E difatti nel mondo politico, di centrodestra e di centronisistra, si sente ripetere questo genere di adagio ancora oggi: “E’ nelle cose. E’ un dato acquisito che il presidente scioglierà le camere tra dicembre e febbraio per tentare di gestire lui la formazione del nuovo governo prima che scada il suo settennato”, qualsiasi sia a quel punto la legge elettorale. Porcellum o no.

Tra i desideri del capo dello stato, naturalmente, c’è anche la speranza di ritrovarsi nel 2013 di fronte a una nuova maggioranza capace di garantire una forte continuità con questo governo attraverso l’elezione di Mario Monti a nuovo capo dello stato (e non del governo). Ma nel caso in cui non ci dovessero essere le condizioni per realizzare questa prima opzione, a oggi, a quanto risulta al Foglio, sono tre le circostanze delineate poco prima delle vacanze da Napolitano: circostanze in cui l’opzione Monti, per il 2013, non potrebbe essere esclusa. Opzione numero uno, ingovernabilità: il Parlamento non cambia la legge elettorale e in Senato, specie se si dovesse concretizzare l’alleanza Pdl-Lega, si viene a creare un’impasse simile a quello in cui si andò a infilare Romano Prodi nel 2006 (maggioranza alla Camera, maggioranza di un soffio al Senato). Opzione numero due, nuova legge elettorale: il Parlamento approva una riforma con premio di maggioranza al primo partito e non alla coalizione, le alleanze per nominare il presidente del Consiglio vengono formalizzate dopo le elezioni e non prima, nessuna coalizione riesce ad avere un numero sufficiente di parlamentari per governare e a quel punto un nuovo reincarico a Monti non potrebbe essere escluso, e anzi diventa quasi inevitabile. Opzione numero tre (opzione delineata personalmente da Napolitano ad alcuni esponenti del Pd): convincere Mario Monti a candidarsi alle elezioni con una sua lista autonoma (non apparentata a nessun partito) e provare a ripetere con più successo lo stesso esperimento (non buono a dire il vero) che nel 1996 tentò Lamberto Dini con la sua lista dopo l’esperienza di governo.

Al centro dell’attivismo del presidente della Repubblica vi è poi una questione solo apparentemente di carattere burocratico. Il 15 maggio, come detto, scade il mandato di Napolitano: il primo giorno utile per cominciare a votare il nuovo capo dello stato è a cavallo con l’elezione del nuovo Parlamento (il 15 aprile) e la paura del Quirinale è che la battaglia per l’elezione del nuovo presidente possa deflagrare in uno scontro tale da provocare un’impasse politica pericolosa in tempi instabili di crisi economico-finanziaria. In questi casi, per superare l’ingorgo istituzionale, in linea di massima esistono due soluzioni: il presidente della Repubblica può scegliere di dimettersi prima della formazione del nuovo governo, delegando al suo successore la nomina formale del presidente del Consiglio (e dell’esecutivo); oppure può scegliere di prolungare di qualche giorno la sua permanenza per essere egli stesso a dare l’incarico al nuovo presidente del Consiglio. I protagonisti dei due più recenti casi di ingorghi istituzionali sono stati Francesco Cossiga (1992) e Carlo Azeglio Ciampi (2006), ed entrambi hanno scelto di lasciare al proprio successore (Oscar Luigi Scalfaro nel 1992, Giorgio Napolitano nel 2006) l’incarico di nominare il nuovo governo. Napolitano invece avrebbe scelto una strada diversa e, nell’ipotesi che le elezioni per il nuovo Parlamento siano davvero ad aprile (cioè a scadenza naturale della legislatura), avrebbe già comunicato ai suoi uomini di fiducia di voler essere comunque lui a dare l’incarico al prossimo presidente del Consiglio.

In realtà, Napolitano, come si diceva, nelle ultime settimane, non ha nascosto ai suoi interlocutori di voler evitare l’ipotesi “ingombro”, ed è anche per questo che il presidente della Repubblica ha scelto di orientare la rotta del Quirinale verso l’orizzonte delle elezioni anticipate.
Pochi giorni fa, il 7 agosto, a casa di Silvio Berlusconi a Roma, è stato Gianni Letta, prima di salutare il Cavaliere pronto alla partenza estiva per la Sardegna, a rilanciare in privato l’argomento delle elezioni anticipate e della riproposizione di Montinel 2013. Il gran visir del berlusconismo ha insistito evidenziando di fronte al Cavaliere tutte le buone ragioni, che Letta sembra condividere con il Quirinale, per una ordinata convergenza verso le urne anticipate e la riconferma di Monti. A Berlusconi, Letta ne ha parlato come fosse materia quantomai viva. Anche Denis Verdini, il coordinatore nazionale del Pdl, nel suo ultimo rapporto riservato consegnato al capo scrive proprio nelle prime righe con tono esortativo: “Devi decidere se vogliamo o non vogliamo chiudere sulla riforma elettorale”. Dall’altra parte, spostandoci al Centro, l’8 agosto Pier Ferdinando Casini dopo aver incontrato Monti a Palazzo Chigi, una volta uscito dal vertice ha confermato che qualcosa sta succedendo davvero. Lo ha detto con una delle sue frasi democristiane, incomplete, allusive e in definitiva però chiarissime: “Abbiamo parlato dell’agenda per settembre, ottobre, novembre e dicembre. Dopo si avvicinano le elezioni…”. E’ una decisione concordata, secondo fonti dell’Udc, persino già presa, un patto chiaro tra Monti e Napolitano: si vota prima di aprile, bisogna provarci.

Napolitano – racconta chi ha avuto modo di interloquire con il presidente negli ultimi tempi – considera non improbabile l’eventualità che l’Italia non riesca a superare pienamente l’emergenza economica che strozza la ripresa del paese e anche per questo ritiene importante lavorare affinché nel 2013, in caso di necessità, ci sia la possibilità di riaffidare l’incarico di presidente del Consiglio all’unica persona che il capo dello stato considera in grado in questo momento di traghettare l’Italia lungo il sentiero della ripresa. Il presidente si muove dentro il Palazzo, e segue gli schemi del palazzo: secondo i detrattori, Napolitano lavora e pensa in “politichese”, ma lo fa – e questo è certo – contro il “politicume”, convinto com’è, assieme anche ad Eugenio Scalfari (che lo sente quasi tutti i giorni), che la classe politica italiana, anche la migliore, abbia ancora molto da imparare (eufemismo) dalla tecnica e dalla qualità dei professori.

Da destra c’è chi come Daniela Santanchè e Marcello Veneziani definisce questa manovra “un tentativo di golpe degli ottimati”. Da sinistra (o quasi) Grillo e Travaglio si esprimono in termini del tutto simili. Gli ambienti vicini al Quirinale respingono questa idea. E’ tutto il contrario – dicono – l’operazione non è in conflitto con la democrazia, ma è piuttosto una manovra a difesa della democrazia stessa e contro il populismo: l’Italia, la sua economia e il suo costume democratico, si salvano soltanto tenendo botta su una linea di rigore europeista. Insomma con l’agenda Monti in campo. Meglio ancora, poi, se in campo rimane pure l’autore dell’agenda: se non proprio da Palazzo Chigi almeno a vigilare dal Quirinale.


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