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LETTERATURA: Virginia Woolf: “Gita al Faro” (1927)

1 Settembre 2007

di Bartolomeo Di Monaco

[Per le altre sue letture scorrere qui]

(Trad. Anna Luisa Zazo)

Se c’è un’artista che ha percorso l’intero spettro di quello che si è voluto chiamare il mal di vivere, essa è Virginia Woolf.

Questa donna dalle fattezze delicate, tanto sensibile quanto sfortunata, il 28 marzo 1941 si riempie le tasche di sassi e si getta nel fiume Ouse, nei pressi di Rodmell (Sussex, Inghilterra), dove è sepolta ai piedi di un olmo. Aveva 59 anni e poneva fine in questo modo tragico alla sua esistenza tribolata da continui esaurimenti nervosi e acute depressioni.
In una tasca viene rivenuta una lettera assai toccante indirizzata al marito, nella quale, fra l’altro, scrive: “Sono certa che sto impazzendo di nuovo. Sono certa che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi, faccio quella che mi sembra la cosa migliore da fare.”

Scompariva con lei una delle protagoniste della vita letteraria del suo tempo.

Tra le sue opere, si segnalano: “La scogliera”, il romanzo d’esordio del 1915 che la fece conoscere a tutto il mondo; “La stanza di Jacob”, del 1922; “Mrs Dalloway“, del 1925; “Orlando”, del 1928; “Le onde”, del 1931; “Gli anni”, del 1937.

Gita al faro” è del 1927, ed è considerato il suo capolavoro. Della scrittura assai complessa che lo caratterizza (ma caratterizza un po’ tutti i romanzi di questa autrice), scrive: “Il più difficile e astratto brano di scrittura che abbia mai tentato”. L’ambientazione è in Scozia, sull’isola di Skye, ma trae ispirazione dal paesaggio della Cornovaglia, dove la famiglia aveva una casa a Talland House. Molte descrizioni, infatti, rievocano la bellissima baia di Saint Ives, paese delizioso che visitai nel 1988. Ricordo che quando vi arrivai da Tintagel, dove si vedono i resti del castello della leggenda di Re Artù e nell’insenatura la grotta di Merlino a pelo dell’acqua, trovai una parte della spiaggia, a fianco del bianco faro, scoperta dalla bassa marea e piena di gabbiani posati sulla sabbia molliccia o sui sassi che la punteggiavano. Il loro ficcante stridio copriva le voci dei pochi bagnanti.
Il romanzo è fortemente autobiografico e la famiglia Ramsay si ispira a quella della scrittrice.

Se si potesse attribuire un alfabeto particolare alla Woolf, dovremmo dire che esso più che dalle lettere è composto dai sentimenti, o meglio ancora dagli innumerevoli bottoni che muovono la psiche umana. La scrittura che ne consegue, ossia, riceve da essi i suoi impulsi, torcendosi, frastagliandosi, complicandosi allo stesso modo. Si avverte, addirittura, come un tentativo di fuga dalla stessa scrittura. Ad un certo punto troveremo: “Sembrava che le parole cadessero in un pozzo, dove l’acqua era chiara, sì, ma straordinariamente deformante, così che nell’istante stesso in cui piombavano giù era possibile vedere le parole torcersi per disegnare chissà mai quale intreccio sul fondo della mente della bambina.” Si vedano anche le parole che costruiscono le immagini di Lily Briscoe, dagli “occhietti da cinese e la sua faccia avvizzita”, intenta a dipingere la signora Ramsay affacciata alla finestra con il figlio James, al quale sta leggendo una  fiaba dei Fratelli Grimm. Sono parole nervose, smaniose, inquiete, alla ricerca di qualcosa che non è mai ciò che sembrano voler descrivere. Come in Henry James, è ciò che non ha corpo che costituisce il personaggio reale in questa tormentata autrice, che con l’immateriale si è trovata a fare i conti per tutta la sua breve vita.

James Ramsay ha sette tra fratelli e sorelle: Prue, Jasper, Roger, Andrew, Nancy, Rose, Cam, la più piccola dopo di lui, e due genitori opposti l’uno all’altro: autoritario, egocentrico, sarcastico il padre, insegnante ultrasessantenne; tollerante ma inquieta la madre, di dieci anni più giovane, “una bella donna” che ha “forse nelle vene il sangue di quella casata italiana di grande nobiltà”, i cui sentimenti verso il marito oscillano tra l’ammirazione e la compassione. Hanno in programma una gita al faro. Il tempo non promette niente di buono, sentenzia il padre; migliorerà, invece, secondo la madre. Il faro, dunque, si delinea già come una meta ambiziosa e difficile; come accade tutti i giorni nella vita, si devono affrontare diffidenze, astiosità, incertezze e incomprensioni per guadagnarsi ciò che agogniamo. A rafforzare il lato peggiore del padre, ci pensa il giovane Charles Tansley, dalla “cospicua pancia”, che su ogni cosa ha sempre da dire la sua con il fine di mettere in risalto le proprie qualità di analisi e ridicolizzare le altrui.

Lontanissima la scrittura della Woolf da quella di connazionali un po’ più anziani di lei, come Dickens (1812–1870) e Hardy (1840–1928), essa mostra nell’ispirazione sensibile una qualche contiguità con quella di  Sterne (1713-1768)  e di Forster (1879–1970), dai quali si distacca per quella impervietà e spigolosità che troveranno il loro più alto concepimento nel coetaneo Joyce (1882–1941) che, vissuto al di là del mare d’Irlanda, condividerà con la Woolf non solo l’anno di nascita ma anche quello della morte. Non è estranea l’influenza che, come è noto, esercitò su di lei, Henry James, trasferitosi dagli Stati Uniti a Londra nel 1876, quando aveva trentatre anni, e sei anni prima che nascesse la Woolf.

La signora Ramsay (“Le Grazie riunite sembravano aver lavorato di comune accordo in prati di asfodelo per creare quel viso.”) assume nel romanzo il simbolo tra i più vistosi, insieme con la pittrice Lily, di questa qualità narrativa, tutta speciale, della Woolf. È una figura quasi liquida (“per essere bevuta e consumata”), trasparente, ma granulosa allo stesso tempo, simile ad una vaporosa filigrana che si dispieghi sulle pagine, marcandole di una incorporeità con la quale ci si accinga a tessere la storia di un altro mondo.
Ramsay, il marito, sembra, al contrario, muoversi come perforando qualcosa che appartiene alla mente, nascosta e intuita, e nel fare ciò si agiti alla stregua di una farfalla imprigionata dentro una luce troppo ardente e si dibatta per andare verso un altrove impossibile da raggiungere e dalla luminosità più nitida e rassicurante, ben al di là dei “deserti degli anni e la fine delle stelle.”

Queste due opposte personalità, sfilacciate qualche volta dalla diffidenza dell’uno per l’altra, lontane nei corpi, vivono, al contrario, una attrazione che offre ad entrambe le ragioni della propria esistenza, come se nessuna delle due potesse concepirsi senza la presenza dell’altra: “Ogni battito sembrava, mentre lui si allontanava, racchiudere lei e il marito, e dare a ognuno quel sollievo che due note diverse, una alta, una bassa, suonate nello stesso istante, sembrano donarsi reciprocamente mentre si fondono.”

La Woolf riesce come pochi a rendere manifesto l’universo brulicante (“gli alveari che erano le persone”) che si nasconde dentro la palpabilità delle azioni umane. Non è mai adeguata, sulla scorta della scrittura di questa autrice, una considerazione del tipo di quella che vorrebbe le azioni degli uomini ispirate da una volontà e da un pensiero dominanti. Tutto ciò è solo approssimazione, frivolezza, superficialità, giacché le azioni degli uomini sono quasi completamente vuote (non è un caso che la Woolf usi indicarle in molte occasioni tra parentesi) e solo un’indagine di rara potenza può riuscire a scorgere il mondo sommerso che ne esprime solo la minima parte. Siamo ben oltre gli strumenti offerti da Freud o da Jung. La Woolf fa di questa realtà nascosta l’essenza della stessa creazione, ben più forte e temibile della mente umana.

L’opera letteraria nella Woolf, si potrebbe anche dire, proietta su di noi una specie di trasfigurazione attraverso la quale si lascia questo mondo, troppo piccolo e insufficiente, e forse perfino inutile.
Eppure la società inglese appare finemente delineata, è la stessa di Thackeray (1811–1863); i cambiamenti intervenuti sono impercettibili se si pensi che l’opera più importante di questo scrittore, “La fiera delle vanità”, uscì nel 1848.
La famiglia Ramsay non ha niente di particolare in sé, rispetto alle altre della metà del secolo XIX: gli stessi formalismi, le stesse regole, le stesse ipocrisie, le stesse abitudini, la stessa mentalità. Ma la Woolf la oltrepassa, sbriciolando il tutto e andando a ricercare quelle componenti che perpetuano anche nella specie umana gli impulsi e le vibrazioni universali.
Pensate alla definizione che viene data dell’amore platonico di William Bankes per la signora Ramsay: “Era amore distillato e filtrato; amore che non cercava mai di afferrare il suo oggetto; ma, come l’amore che i matematici portano alle formule, o i poeti alle loro frasi, era destinato a diffondersi su tutto il mondo e a diventare parte della ricchezza umana.”

Quello di Bankes è un ritratto che ci può dare anche una delle chiavi di lettura di questo romanzo, laddove si consideri questo amore, del tutto speciale, capace di produrre effetti risolutori e catartici: “la barbarie era domata, il regno del caos vinto.” Ma troveremo più avanti un altro passo significativo, che può spiegarci tutto il cammino di ricerca della Woolf. Si riferisce alla riflessione che la signora Ramsay fa a proposito dei suoi otto figli, così spensierati, vivaci e liberi: “Perché devono crescere e perdere tutto questo? Non saranno mai più così felici.”
La pittrice Lily, trentatre anni, è alla ricerca, al contrario del contemplativo Bankes, di una via per penetrare, attraverso la contemplazione dei Ramsay e in special modo della signora Ramsay, i segreti della vita, “come nei tesori delle tombe dei re, tavolette con iscrizioni sacre, che avrebbero insegnato ogni cosa a chi avesse saputo decifrarle, ma non sarebbero mai state offerte apertamente, mai rese pubbliche.”

Così che si potrebbe anche dire che è attraverso personaggi apparentemente minori, che la Woolf tenta quella lettura indecifrabile della realtà umana, o meglio, per usare le sue stesse parole, “di un regno fatato dall’altro lato della siepe.” Lily e Bankes sono spesso i raggi di sole che penetrano nell’oscurità illuminando il pulviscolo che, invisibile altrimenti, la riempie e le dà vita. Proprio l’operazione contraria a quanto accade nel secondo capitolo della seconda parte del romanzo, intitolata “Il trascorrere del tempo” (la prima ha il titolo: “La finestra”), allorché il diluvio che si scatena profonde nella casa l’oscurità “che strisciando dai buchi della serratura e dalle fessure, si insinuava nelle imposte, entrava nelle stanze da letto, inghiottiva qui un brocca e un bacile, là un vaso di dalie rosse e gialle, e ancora gli angoli acuti e la solida forma di un cassettone.” L’operazione tentata dalla Woolf è la illuminazione di una oscurità che va ben oltre la materialità, in cui le azioni, ossia, sono più il risultato di un automatismo inconsapevole, piuttosto che il frutto di una volontà determinata, e gli stessi pensieri che si intrecciano nella mente sono anch’essi qualcosa d’altro dalla stessa volontà. Agiscono e si intersecano con i pensieri altrui, sospinti da un movimento (come “aliti di vento”) che sembra soffiare al di fuori della corporeità dei personaggi per assoggettarli e farne strumento di un linguaggio nuovo.

Che cosa scopre la Woolf attraverso di esso ha a che fare con una vitalità lacerante e scompositiva, che non è ancora la consunzione e la morte, bensì una dolorosa sospensione destinata a inquietarci e a flagellarci per un tempo indefinito, capace di trasmetterci una angoscia, una paura e un delirio costanti. Si smarrisce, ossia, la cognizione di sé in un trapasso che non riesce mai a compiersi del tutto: “una lunga sofferenza, un alzarsi e poi tornare a letto, e tirare fuori le cose e poi rimetterle dentro.” E ancora, continuando la descrizione della donna delle pulizie, McNab: “come se in verità al suo canto funebre si intrecciasse una incorreggibile speranza.” La ricerca, ossia, approda ad uno spazio dentro il quale si annida il vuoto, che si deve in qualche modo oltrepassare. L’incorporeità per essere compresa e posseduta richiede non solo il coraggio e la forza, bensì anche la capacità di andare oltre, evitando lo smarrimento e l’annullamento di sé, che nel romanzo trova uno dei suoi simboli più espliciti nella guerra: “molte famiglie avevano perso le persone più care.” La speranza che ancora vive in noi, insomma, non deve cedere ed assopirsi fino ad essere dimenticata, come per tanto tempo accade alla dimora dei Ramsay: “non avevano mai mandato nessuno; non erano mai venuti.”

Nella terza parte, “Il Faro”, leggiamo una frase che riassume bene l’intento e la difficoltà della ricerca dell’autrice: “le parole divennero simboli, si tracciarono sulle pareti verde-grigio. Se soltanto avesse saputo ricomporle, pensava, scriverle in una frase, allora avrebbe colto la verità delle cose.” Colei che sta pensando è Lily. È tornata anche lei nella casa dei Ramsay, da che era stata abbandonata dieci anni prima. Tutto, però, risente del tempo trascorso. Lo sforzo che viene fatto dai protagonisti, e in particolar modo da Lily, è quello di colmare quel vuoto, di riprendere le cose dal punto in cui erano rimaste. Andare al faro, quel lontano desiderio di James, ecco ora si può e si deve fare. Ma non c’è gioia, questa volta, bensì inquietudine e smarrimento. Lily si trova ad avere intorno a sé dei “ragazzi oppressi, il loro coraggio avvilito. James aveva sedici anni, Cam diciassette, forse.” Il professor Ramsay “aveva preso un atteggiamento di estrema decrepitudine; vacillava perfino un poco mentre se ne stava là ritto.”

Lily si fa sempre di più strumento di indagine e di conoscenza. Il suo stare di fronte ad una tela vuota da dipingere, così com’era accaduto nella prima parte, presa com’è dalla continua lotta contro resistenze e incertezze della sua immaginazione, ha il significato di una ostinazione a oltrepassare il vuoto del mistero e dell’annullamento: “E continuò a stendere rosso, grigio, e cominciò a tracciare la sua strada di colori fino a quello spazio vuoto.”; “Nessuno l’aveva veduta passare dalla sua stretta asse nelle acque dell’annichilimento.” Ramsay, rimasto vedovo, è alla ricerca pure lui di un punto di congiunzione che ponga fine alla sua deriva e lo fissi alla vita; lo cerca in Lily, restia, diffidente, nella cui memoria si stanno ricomponendo figure e situazioni del passato alla ricerca proprio (“i tentativi di raggiungere qualcosa”) del significato della vita, una domanda, questa sul significato della vita (si pensi anche al grande Tolstoj), “che tendeva a stringerti dappresso con gli anni.”

Il romanzo percorre, dunque, tutti i personaggi – equamente protagonisti – come in una radiografia in cui si cerchi di rintracciare ciò che compone il vuoto e il mistero che ci rappresentano, così da tentare di aprire quel varco oltre il quale, riordinando il tutto, potremo dire, come Lily al termine del romanzo: “Ho avuto la mia visione.”, ossia: conoscere la verità e l’esatto significato della nostra vita.
Obiettivo che potrebbe rivelarsi allo stesso modo in cui si rivela a James il faro che finalmente sta per raggiungere: “Era dunque così, il Faro che avevano visto oltre la baia per tutti quegli anni; era una torre nuda su un nudo scoglio. Lo soddisfaceva.”
Come lo soddisferà il complimento del padre – così avaro nel farne – per aver guidato bene la barca “come un marinaio fatto e finito.”


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Bart