di Dino Buzzati
[dal “Corriere della Sera”, sabato 30 agosto 1969]
Io sono il maestro direttore della banda musicale che ese gue i festeggiamenti sulla cre sta dell’onda.
Siamo in trentadue sistemati su una specie di zatterone che oscilla sospeso in bilico sul li quido crinale, ma non c’è pe ricolo che scivoli giù da una parte o dall’altra, perché è sta to costruito da Dio.
Noi di solito suoniamo schierati sui quattro bordi della zattera, la faccia in fuo ri, affinché tutto il mondo ascolti. Nel centro sorge una costruzione di legno che ci serve per abitazione. Sul tet to, un terrazzino, da cui di rigo. Benché mi voltino le spalle, i musicanti seguono i miei gesti con la coda degli occhi.
Di queste bande ne esisto no migliaia, forse decine di migliaia perché l’onda si estende a perdita d’occhio in tutte le contrade della Terra, anche nei paesi più misera bili: anche laggiù infatti esi stono uomini un po’ meno poveri, donne un po’ meno brutte, cacciatori un po’ meno sfortunati, e ad essi appunto spetta la festa dell’onda.
Questo non è il posto del la felicità, ammesso che la felicità possa esistere, è sem plicemente il posto del suc cesso, e del potere, della ric chezza e della gloria.
Dalla sommità dell’onda noi dominiamo i suoi due versanti, quello della salita che è liscio ma ripido soprat tutto nell’ultimo tratto, e quello della discesa il quale invece è accidentato e imprevedibile, ora divalla in re golare pendio, ora precipita a picco fino in fondo, ora si rompe frantumandosi in vor tici di catastrofiche schiume.
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Anch’io, da ragazzo, quan do studiavo al conservatorio, sognavo di arrivare quassù vittorioso, celebrato come un nuovo Toscanini, anzi ancora più grande. Poi, la vita. Ras segnato ormai alla mediocri tà, ai quarant’anni mi hanno offerto questo posto. Adesso ne ho sessantatré. E ne ho viste, sapeste. E l’onda va, va, mai si è fermata dal tempo dei primi faraoni, mai si fer merà, e il suo ritmo è terri bile, se dallo zatterone fis siamo le acque che fuggono sotto di noi, vengono la ver tigine e la paura.
Credevo, prima di accettare l’incarico, si trattasse di un lavoro gradevole e brillante, sempre a contatto con le ce lebrità e i grandi della Terra.
Al contrario, è un lavoro penoso, perché noi viviamo, è vero, nell’empireo della glo ria, ma soltanto come lacchè, e soprattutto perché quanto avviene sotto i nostri occhi dalla mattina alla sera, men tre noi intoniamo le marce trionfali, gli osanna, gli esul tate e gli alleluia, ci stringe e tormenta il cuore.
Vediamo laggiù, all’inizio della salita, le sterminate fol le amorfe. Per la distanza ci appaiono come un grigio bru lichio che si perde all’estremo orizzonte. Ma dalla folla in differenziata si staccano in continuazione i volonterosi, o gli illusi, o semplicemente i fortunati, che intraprendono l’ascesa.
Giovani, intrepidi, gli occhi raggianti, sembrano galoppa re sul filo delle acque che si avventano verso l’alto, guada gnano rapidamente distanza, già noi possiamo distinguerne i volti, arrancano tendendo le mani, gridando, cantando. Pe rò all’improvviso smarriscono lo slancio, incespicano, si fer mano, titubano, l’onda aven do, chissà come, cessato di trascinarli.
E’ una breve crisi, si inten de, una sosta necessaria per tirare il fiato, dopo tanta sa lita, tra poco sarà il balzo finale. Ma le acque continua no a scorrere con cieca velo cità sotto di loro, e i piedi, le mani non fanno più presa. Li vediamo proprio sotto di noi che ci fissano smarriti, e qualcuno invoca aiuto, che gli gettiamo una corda, op pure ci lancia delle borse pie ne di sterline d’oro, che in toniamo per loro una bella marcia, come se veramente fossero arrivati in vetta, per farlo sapere ai parenti e agli amici.
Ma l’una e l’altra cosa so no severamente proibite, e io non voglio perdere il posto. Chiudiamo dunque le orec chie alle disperate invocazio ni, ributtiamo giù le borse d’oro.
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Ed ecco, proprio quando sembra che manchi soltanto un soffio, gli sciagurati non tengono più, la corrente che fino a poco fa li traeva in alto li trasforma in uno scivolo viscido che li succhia nel botro della sconfitta, poveri ra dazzi, il sostegno vien meno, arretrano, giù, giù, accelera zione, precipitano, si contor cono, si deformano, il falchet to trasformato in talpa, la fatina in curva megera, lonta nissimi, rotti brandelli, per duti per sempre, riinghiottiti dalla squallida folla.
Eppure, di tanto in tanto, una fatalità afferra uno di quelli, lo tira su per la bar rièra finale. Lo vediamo così sbucare dal ciglio dell’onda, la faccia tesa in uno strano sorriso. Eccolo, eccola, dinan zi a noi, sulla vetta suprema dei desideri, genio, artista, scienziato, banchiere, statista, condottiero, industriale, sa cerdote, attore, diva, milardaria, regina. Tec tec, il se gnale della mia bacchetta in levare. Il primo meraviglioso squillo di tromba.
La gloria? la potenza? le parate per Broadway? l’amo re delle bellissime? Sono gio vani, tutta la vita dinanzi a loro, che lungo cammino sen za termine tra gli applausi, i fiori, le luci, i baci, le gran dezze, le nostre belle fanfare. Si guardano intorno trionfa tori, si assaporano, si adora no, si credono dei.
Un guizzo, un movimento impercettibile, un tic. Appena arrivati in cima. Un minuto, meno di un minuto. Noi mu sicanti non siamo ancora giunti al primo « refrain ». La voragine sotto i loro piedi, lo schiumoso baratro, la ve locità spaventosa del tempo. Non fanno neppure in tempo a voltarsi, i beniamini della sorte, a chiamare soccorso, a tentare una qualche resisten za. La cresta felice ha la du rata di un respiro. Già scen dono. Precipitano. Spariti nel la buca. Dimenticati. Mai esi stiti. Il nulla. Il silenzio.
E allora, in quel momento solenne, io alzo di nuovo la bacchetta. La cresta dell’on da per il momento è rimasta deserta. Sta scendendo la se ra. Siamo soli. Coraggio. Una volta tanto, attacchiamo per noi stessi la famosa « Scalata del cielo » di Widmar Johannsen, massima glorifica zione in re maggiore. Per noi poveracci, che un giorno ab biamo sperato, ma ci manca rono le forze.
Nembi wagneriani incom bono sul dorso livido dell’onda, crudele mostro della vita. Facciamo finta, amici. Cer chiamo di suonare bene. Illu diamoci di essere noi i vin citori.
Troppo tardi. La notte. Al buio non si suona. Nella no stra baracca. Al lume di can dela, la cena. Nessuno parla. I pensieri. Ma da fuori, anche in noi si spande il rombo per petuo dell’onda â— la gloria, l’oro, il dominio, il lusso, la caducità, la polvere â— fra stuono di applausi e di morte.