Solo un Senato decadente può far decadere il Cav2 Settembre 2013 di Paolo Guzzanti Questo è un articolo sull’orgoglio del Parlamento. Quell’orgoglio sul quale ormai tutti sputano sopra. Il Parlamento, ecco la cognizione che si è persa, è quanto di più sacro appartenga a una democrazia. Il voto degli eminenti senatori a vita, passati e presenti, mi ricorda quel che rispose Oscar Wilde quando scese dalla nave Arizona che lo sbarcò a New York il 2 gennaio 1882 all’agente della dogana che gli chiedeva se aveva nulla da dichiarare: «Nothing, but my genious ». Ecco, sarebbe una buona cosa se il voto di chi occupa uno scranno al Senato per la propria certificata genialità, non annullasse quello – meno geniale – dei rozzi eletti dal popolo. Sarebbe molto appropriato se questi illustri signori, insieme a tutti i senatori della Repubblica, trovassero il tempo per riflettere sul decoro dell’istituzione di cui fanno parte. Tutto ciò riguarda il caso Berlusconi, ma prima ancora l’onore del Parlamento. In Inghilterra, quando la regina si presenta in Parlamento deve bussare. Il cerimoniale ricorda la filogenesi della storia: gli ordini esterni al Parlamento (che non sono affatto «poteri » perché non viviamo nella Francia del 1789 e l’unico e solo potere interamente nelle mani del popolo, senza briciole d’avanzo è quello del Parlamento) devono chinarsi per rispetto davanti alle assemblee, e con lo sguardo basso. So benissimo che vaneggio e che non è così: questo è quello che accadrebbe se fossimo un Paese con una spina dorsale, con un orgoglio repubblicano, un patriottismo parlamentare. Invece siamo il Paese dei girotondi e della gogna, la patria del conformismo, dell’indignazione a comando e di don Abbondio. È la nostra maledizione scritta sul Dna di Pinocchio e del Carattere degli italiani decrittato due secoli fa da Leopardi, che solo per questo meriterebbe un Nobel postumo alla genetica. Letta, l’ascesa del «Nipote » tutto astuzia e poco coraggio Presto forse dovrà fare fagotto, ma intanto Enrico Letta si è accreditato. Per decenni era stato il «nipote di Gianni », ora da capo del governo ha acquistato una fisionomia in Italia e all’estero. È persona perbene, un italiano che parla le lingue, un tipo che non perde la testa e tiene la lingua a posto. Ricorderete ciò che accadde nell’Aula di Montecitorio mentre si discuteva la fiducia al governo Monti nel novembre 2011. Pensando restasse una cosa tra loro, Letta – al tempo vicesegretario del Pd bersaniano – scrisse al premier un bigliettino recapitato a mano da un commesso. «Mario, quando vuoi dirmi forma e modi con cui posso esserti utile all’esterno. Sia ufficialmente, sia riservatamente. Per ora, mi sembra tutto un miracolo! Allora i miracoli esistono » (sottinteso: che ci sia tu al posto del Cav). Una missiva, come si vede, sull’untuosetto che in modo subdolo cercava di blandire il neo premier per ricavarne vantaggi al suo partito e anche per sé, qualora gli fosse riuscito diventare il fiduciario dell’uomo del momento. Era ancora il comportamento di un ragazzo di bottega che cercava un posto al sole, fase che oggi Enrico ha sicuramente superato dopo le esperienze interne e internazionali degli ultimi quattro mesi. Letta junior non sarà simpaticissimo perché un po’ chiuso, ma è persona gradevole. Sorride spesso e, anche quando è serio, non perde cordialità. A tratti, è perfino zuzzurellone. Buffissimo è stato vederlo, subito dopo l’ultimo Consiglio dei ministri sull’Imu, al Tg1. Accettando il suggerimento che deve avergli dato il giornalista o un cameraman, il premier anziché fare una normale dichiarazione di fronte alla telecamera, ha preso la cornetta e ha finto di parlare al telefono con un immaginario interlocutore al quale spiegava contenuti e vantaggi dei provvedimenti appena assunti. Un’autentica recita, molto talentuosa, comprensiva delle pause di chi ascolta e poi replica alle obiezioni. Una cosa mai vista e un modo di rappresentare il potere in pigiama anziché in giacca e cravatta. Un’informalità alla papa Francesco che, evidentemente, il democristianissimo Enrico ha preso a modello. Questa inclinazione lettiana al dialogo, unita all’innata prudenza dc, moltiplicata dal gene proprio dei Letta che produce una sostanza zuccherosa, il Lettolin, simile alla melassa (Gianni Letta è soprannominato Zolletta), costa tuttora a Enrico la diffidenza dei più sinistri e accaniti del suo partito, il Ds-Pds-Pd, dove ebbe la dabbenaggine di approdare dopo il crollo della Dc. È questa la ragione per la quale, nonostante la venerazione per Andreatta, Romani Prodi, molto più partigiano e cattivo di Letta junior, non ha mai voluto eleggerlo suo erede politico. Va cambiata la Costituzione: quei seggi sono diventati stampelle per governi in bilico Se fosse stata necessaria una riprova ulteriore della necessità di affrontare in maniera seria la questione di una radicale riforma di una Costituzione, obsoleta e ideologicamente viziata, qual è la nostra, questa riprova è venuta dall’incredibile vicenda della nomina, da parte del presidente della Repubblica, di quattro senatori a vita, tutti dichiaratamente, a voce o per acta, di sinistra o di centrosinistra: un bel quartetto di moschettieri pronti, verosimilmente, a impugnare le spade per contribuire alla nascita di una nuova (e più avanzata) maggioranza qualora la navigazione del governo delle larghe intese dovesse interrompersi bruscamente. Una ipotesi di questo genere, futuribile ma certo non fantapolitica, ci mostrerebbe il capo dello Stato, quasi alla maniera del suo predecessore Oscar Luigi Scalfaro (il meno amato della schiera dei nostri presidenti della Repubblica), impegnato in una operazione di ribaltone politico o, nella migliore delle ipotesi, di ricatto politico nei confronti del centrodestra e del suo leader. Può darsi che questa ipotesi sia frutto di un retropensiero, ma, come recita un antico adagio, «a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca ». E, del resto, qualche dubbio sulla impropria utilizzazione politica dell’istituto dei senatori a vita (absit iniuria verbis) sorse già quando il laticlavio fu assegnato a Mario Monti per spianargli la strada verso la presidenza del Consiglio. Ma questa è un’altra storia. O, forse, se si preferisce, un altro «pensar male ». Silvio Berlusconi, decadenza: la Giunta vuole votare subito, niente Consulta. Ma i tempi si allungheranno Votare subito la decadenza di Silvio Berlusconi da senatore ora che la condanna a 4 anni per frode fiscale è definitiva. È questo l’orientamento della maggioranza dei componenti della Giunta delle elezioni e delle immunità del Senato presieduta da Dario Stefàno. Ventidue senatori su 23 sono stati infatti intervistati dalla Stampa e dalle risposte date sembra non ci sia speranza per il Cavaliere: sì alla decadenza senza la necessità di mandare gli atti alla Consulta né aspettare il giudizio della Corte d’appello sull’interdizione di Berlusconi. Ecco le tre domande: 1 Alcuni senatori Pd, ma anche Socialisti, hanno sottoscritto un appello che fa proprio il «lodo Violante ». La Giunta delle elezioni deve sollevare la questione di incostituzionalità della legge Severino alla Consulta? 2 Dopo un mese di riflessione, dalla seduta del 7 agosto al 9 settembre. La giunta quando potrà votare? 3 Non sarebbe opportuno aspettare la Corte d’appello di Milano (e poi la Cassazione) che dovrà decidere la durata della pena accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici? Dalle risposte è emerso come la maggioranza della Giunta ritiene che non vi siano le condizioni per rivolgersi alla Corte Costituzionale. Né sia politicamente utile aspettare i giudici di Milano prima e la Cassazione dopo sulle pene accessorie (da uno a tre anni di interdizione dai pubblici uffici) dopo la condanna a quattro anni di reclusione per frode fiscale. Un mese di dibattito politico e istituzionale non hanno spostato di un millimetro la maggioranza della Giunta. Si può ipotizzare, dunque, che entro settembre la Giunta chieda all’Aula di Palazzo Madama di pronunciarsi sulla decadenza di Silvio Berlusconi da senatore. Consapevole di avere garantito il diritto di difesa, ma anche di non dover celebrare un quarto grado di giudizio. I tempi si allungheranno: la sfida sulle procedure. Ma non sarà così semplice per la Giunta esprimersi subito, anche perché come ricorda il Messaggero, sembra quasi di assistere al “Gioco dell’oca”. “I lavori della Giunta procederanno a prescindere dai tempi della Corte di appello di Milano e di qualsiasi altro collegamento. In linea puramente teorica è possibile che i due processi coincidano”. Intervistato dal Messaggero, il senatore del Pdl Andrea Augello, relatore del provvedimento sull’incandidabilità di Berlusconi, non esclude la possibilità che i giudici ricalcolino l’interdizione dai pubblici uffici prima del voto in giunta. Che la decadenza del Cavaliere avvenga per effetto non della legge sull’incandidabilità ma della pena accessoria “è plausibile, ma non bisogna dimenticare che potrebbe esserci un ulteriore ricorso in Cassazione di Berlusconi”, dice Augello. “Arrivati a tal punto, poi, la Giunta dovrebbe in ogni caso occuparsi anche di questo tipo di decadenza. Non punto a rinvii – assicura il senatore – ma l’interdizione ricalcolata dovrà passare per il voto parlamentare”.
Il verbo scelto da Silvio Berlusconi per rassicurare il popolo del centrodestra intorno al suo futuro e alle sue intenzioni («Io resisto ») ha un grande potere evocativo ed è foriero di una evidente suggestione: infatti, rimandando al drammatico «resistere, resistere, resistere » pronunciato da Borrelli nell’inverno di 11 anni fa, l’annuncio del Cavaliere fotografa un evidente capovolgimento delle posizioni (e dei rapporti di forza). I due orgogliosi annunci di resistenza rappresentano forse i momenti più cupi e aspri di uno scontro – quello tra il centrodestra e parte della magistratura – che condiziona da ormai due decenni la vita politica italiana: una sorta di Guerra dei Vent’anni dentro la quale, però, c’è un pezzo di storia di questo Paese e la parabola di un leader che ora si scopre solitario e senza successori. Non solo. Gli effetti di questa Guerra – ed i vizi seminati – si riverberano oggi sull’«affaire Berlusconi », trasformandolo in qualcosa di diverso da quel che semplicemente è: da caso giudiziario a caso politico, con il conseguente corollario di polemiche, richieste e proposte inevitabilmente confuse e spesso non praticabili. La trasformazione dei problemi giudiziari di Silvio Berlusconi in problemi «politici » – meglio ancora: in problemi della politica – è stata in questi vent’anni una costante dell’agire del centrodestra italiano. Non a caso, il «resistere, resistere, resistere » pronunciato nel gennaio del 2002 dall’allora Procuratore generale della Corte d’Appello di Milano, era appunto riferito alle annunciate nuove leggi del governo Berlusconi in materia di giustizia: leggi capaci di determinare, secondo Borrelli, il «naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo baluardo della questione morale ». Scudi, legittimi impedimenti, prescrizioni e depenalizzazioni sono stati, per anni, la «via politica » (e legislativa) attraverso la quale il Cavaliere ha cercato – spesso con successo – di arginare i propri problemi giudiziari. Oggi, però, la situazione è molto diversa: e lo si capisce bene dallo smarrimento che pare caratterizzare l’azione del Pdl e del suo leader colpito. La novità, come è evidente, sta nel dover fare i conti con una sentenza passata definitivamente in giudicato: e la difficoltà, giunti a questo punto, nasce dal dover prender atto di esser di fronte a una situazione che ha dell’irreversibile. Abituato a «ridurre il danno » di inchieste e processi attraverso le leggi e la politica (il complotto dei magistrati, le norme ad personam…) è di nuovo per questa via che il Cavaliere sta cercando una soluzione che gli permetta di rimanere in campo: ma la politica – e le leggi – stavolta possono aiutarlo in poco o in nulla, e il Pdl si avvita in un rosario di richieste mutevoli e confuse. La grazia, la commutazione della pena, la richiesta che il Senato non voti la decadenza di Berlusconi, l’attacco alla legge-Severino (con possibile ricorso alla Corte Costituzionale), la richiesta di un nuovo intervento del Quirinale, l’arma finale della crisi di governo con la minaccia di puntare alle elezioni… Nessuno, in verità, ha ancora capito quale sia davvero la carta sulla quale il Cavaliere e il Pdl intendono scommettere: una incertezza, un disorientamento che rende ancor più confusa – e dunque meno governabile – la situazione. «Resistere, resistere, resistere », incitò undici anni fa Francesco Saverio Borrelli, da sempre considerato da Berlusconi il «nemico numero uno », il capo indiscusso del «partito dei giudici », il leader carismatico delle «toghe rosse ». «Io resisto! Non mollo », contrattacca oggi il Cavaliere. In mezzo, undici anni di guerra senza quartiere, undici anni che hanno prodotto cumuli di macerie politiche e giuridiche. Potrebbe anche bastare, per un Paese esausto e incattivito. Ma la parola fine, invece, pare non dover arrivare mai… Chi ha paura della firma del Cavaliere La decisione di Silvio Berlusconi di sottoscrivere tutti i referendum radicali – e non soltanto quelli sulla giustizia – ha subito messo in allarme molti giocatori avversari, nonché un certo numero di arbitri e guardalinee. E il motivo è semplice: con questa mossa, il Cavaliere esce dalla guerra di trincea e, anche sulla giustizia, ingaggia una guerra di movimento. L’appoggio alla causa referendaria trasforma lo scontro sulla decadenza personale di un senatore in una battaglia politica generale sul ruolo, i poteri e i limiti della magistratura nel nostro Paese. I primi ad essere in allarme sono naturalmente i Democratici. L’alleanza Pannella-Berlusconi è di per sé motivo di imbarazzo, un po’ perché gli altri referendum radicali, firmati anch’essi dal Cavaliere, sposano cause tradizionalmente di sinistra; e un po’ perché gli stessi referendum sulla giustizia, nel merito, disegnano una riforma persino meno incisiva di quella proposta dal verde Boato e approvata dalla Bicamerale di D’Alema tre lustri fa. Ma è soprattutto lo scontro diretto con Berlusconi, senza intercapedini politiche o partitiche, a spaventare la sinistra: che, come per un riflesso pavloviano, alza immediatamente i toni e addirittura mette sotto processo un dirigente storico (ed ex magistrato) come Violante, reo di aver rivendicato il diritto di Berlusconi alla difesa. Non meno preoccupato è Enrico Letta, e con lui le ali governative dei due maggiori partiti della coalizione. Ai loro occhi, il referendum è una specie di piano B, pronto a scattare se non ci saranno nuove elezioni a breve. Si terrebbe infatti nella primavera dell’anno prossimo, alla vigilia o subito dopo le elezioni europee, sottoponendo il governo ad una pressione permanente e la maggioranza a tensioni continue. Uno scenario di questo genere, com’è ovvio, non piace neppure al Quirinale. Proprio Napolitano, però, all’indomani della condanna di Berlusconi in Cassazione aveva richiamato la maggioranza alla necessità di una riforma della giustizia, raccogliendo gli applausi del Pdl e l’imbarazzato silenzio del Pd. La mossa referendaria è anche un modo per riaprire bruscamente quel capitolo, passato rapidamente in secondo piano, inchiodando sia il Quirinale sia la maggioranza alle proprie responsabilità e riaprendo in Parlamento, nell’anno che ci separa dal voto, il capitolo giustizia. E poi, naturalmente, ci sono i magistrati, o per meglio dire quella parte di pubblici ministeri che hanno del proprio mestiere una concezione catartica e messianica, sovraordinata alle istituzioni democratiche e per questo chiamata ad una vigilanza continua e pressante sulla politica, o almeno su una sua parte. È proprio questo settore della magistratura a difendere più strenuamente l’unicità delle carriere – che è un unicum italiano – e a combattere ogni forma di responsabilità civile. Per loro lo scontro con Berlusconi è prima di tutto una difesa a oltranza dei propri privilegi, a cominciare da una sostanziale irresponsabilità e inamovibilità. Con l’appoggio ai referendum Berlusconi ha dunque aperto un secondo forno – nel primo sta cuocendo la maggioranza sulla politica economica e sulle tasse – destinato a surriscaldare una coalizione non propriamente compatta. La scelta della guerra di movimento, del resto, moltiplica i focolai di scontro, accentua la tensione politico-istituzionale. Insomma, per dirla con Berlinguer, avremo nei prossimi mesi un Berlusconi di lotta e di governo. I guai fiscali di Abbado nell'”Italia dei migliori” La memoria, si sa, può giocare brutti scherzi. Specie quando è corta, o quando è offuscata dall’entusiasmo partigiano. Succede, a tutti. Anche a Repubblica, che sabato scorso, per la nomina dei quattro senatori a vita tutti di comprovata fede anticentrodestra, ha esultato in stile Mondiali di calcio. Una stecca. Per Repubblica, sempre così attenta ai guai col fisco degli altri, specie se di centrodestra. E anche per il maestro Abbado, soprattutto adesso che da senatore a vita è chiamato a incarnare, appunto, «l’Italia migliore ». A scovare quel vecchio articolo, che in poche ore ieri pomeriggio ha fatto il giro del web, Dagospia. Era il 2008, cinque anni fa. Il 19 marzo, titolo «Italiani in fuga da Montecarlo: nuovi nomi nelle mani del fisco ». «Mettendo in fila le contestazioni – scriveva Corrado Zunino – l’Agenzia delle entrate ha scoperto che dai contenziosi aperti con 32 “personalità conosciute ” e “residenti fittiziamente ” nel Principato sono rientrati oltre 80 milioni di euro. Meglio, sono stati messi a bilancio 83,502 milioni di euro ». Chi erano le «personalità conosciute » contenute in quella lista di Montecarlo messa a punto dal fisco nel 2008 che avevano pagato la multa, o comunque avviato l’iter per fare il concordato, accettando le contestazioni? Nel pezzo si ricordava il caso più eclatante, quello di Luciano Pavarotti, morto, all’epoca, alcuni mesi prima, a settembre del 2007. Quindi gli altri vip. «Per cifre inferiori – continuava l’articolo – hanno accettato le contestazioni del fisco il violinista Salvatore Accardo (171mila euro), il direttore d’orchestra Claudio Abbado, la coppia di lirici Cecilia Gasdia (144mila euro) e Michele Pertusi (85mila)… » e così via. Dunque, il maestro Abbado aveva «accettato le contestazioni ». Per quale cifra non è dato sapere, l’articolo non riporta l’ammontare esatto. Ma, presumibilmente, non dovevano essere pochi euro. Lo si può dedurre da un dato. Un’agenzia Ansa del 15 aprile del 1981 riporta un elenco di artisti che figurano nei «Libri rossi » sugli accertamenti delle imposte dirette cui il fisco chiede più soldi. C’è anche Abbado, all’epoca direttore artistico della Scala di Milano, cui sono richiesti 216 milioni di vecchie lire (che a quel tempo non erano proprio spiccioli) «per due anni fiscali ». Le “apparizioni” di Ratzinger il papa che aveva scelto il ritiro Una ricomparsa che sorprende. Sceso dal Soglio di Pietro quella di Ratzinger, doveva essere interamente una vita di nascondimento e preghiera. E invece dopo l’enciclica a quattro mani con il suo successore e la consacrazione «in tandem » del Vaticano a San Michele, Joseph Ratzinger torna a far sentire la sua voce. Chi, nel mondo e nella storia, si trova ai primi posti «deve sapere di essere in pericolo », e «un posto che può sembrare molto buono, può rivelarsi invece molto brutto ». Al contrario, ci si trova sulla «giusta via » diventando persone che «scendono », al fine di «servire » e portare la «gratuità di Dio ». Ha evocato indirettamente temi legati alla sua storica rinuncia al pontificato l’omelia pronunciata ieri mattina da Benedetto XVI nella messa celebrata in Vaticano per i suoi ex-allievi, riuniti in questi giorni a Castel Gandolfo nel tradizionale seminario estivo del «Ratzinger Schuelerkreis ». Ratzinger si è unito agli ex allievi in una messa alle 9.30 nella cappella del Governatorato. Presenti una cinquantina di persone, riferisce Radio Vaticana, il Papa emerito ha concelebrato con i cardinali Koch e Schoenborn, gli arcivescovi Gaenswein e Adoukonou, l’ausiliare di Amburgo, Jaschke. Il Pontefice emerito nell’omelia si è soffermato sulla considerazione che ognuno nella vita vuole trovare il suo posto buono, interrogandosi quindi su quale sia veramente il posto giusto, sulla scorta del Vangelo domenicale in cui Gesù invita a prendere l’ultimo posto. Questioni che, alla luce delle dimissioni del Papa, assumono un significato particolare. «Nell’opinione pubblica cattolica c’è stata una rimozione velocissima della figura di Ratzinger, totalmente coperta da quella del suo successore, quindi la sua ricomparsa è uno stimolo a recuperare un grande patrimonio di insegnamento – commenta il sociologo Luca Diotallevi, vicepresidente del comitato organizzatore delle Settimane Sociali dei cattolici Italiani -.Tanto più che il carattere riservato e austero del Pontefice emerito fa sicuramente pensare che la diffusione della sua omelia sia stata concordata con Francesco ». Insomma, nessuno «scandalo », anzi. «Questo evento ci aiuta a comprendere uno dei principali insegnamenti del Concilio Vaticano II quello che la Chiesa vive non di attimi e di singole personalità ma di una tradizione che si rinnova », assicura Diotallevi. Ratzinger è apparso in buone condizioni di salute e di ottimo umore. «E’ molto contento di ciò che Francesco sta facendo per la Chiesa », osservano in Curia. Dunque, qualunque sia il posto che la storia vorrà assegnarci, quello che è determinante, ha evidenziato il Papa emerito, è «la responsabilità davanti a Dio, e la responsabilità per l’amore, per la giustizia e per la verità ». Benedetto XVI ha fatto notare che «Cristo, il Figlio di Dio, scende per servire noi e questo fa l’essenza di Dio ». Dunque, «noi ci troviamo sulla via di Cristo, sulla giusta via se in sua vece e come lui proviamo a diventare persone che “scendono” per entrare nella vera grandezza, nella grandezza di Dio che è la grandezza dell’amore », ha puntualizzato Ratzinger. Secondo il Papa emerito, «l’altezza della Croce è l’altezza dell’amore di Dio, l’altezza della rinuncia di se stesso e la dedizione agli altri ». Così, «questo è il posto divino, e noi vogliamo pregare Dio che ci doni di comprendere questo sempre di più e di accettare con umiltà, ciascuno a modo proprio, questo mistero dell’esaltazione e dell’umiliazione ». Infine Benedetto XVI ha ricordato che «pur nella lotta per la giustizia nel mondo, non dobbiamo mai dimenticare la “gratuità” di Dio, il continuo dare e ricevere », e dobbiamo costruire sul fatto che «ci sono persone buone che ci donano “gratis” la loro bontà ». 2-«UN’ESPOSIZIONE CHE POTREBBE CONFONDERE I FEDELI » Vittorio Messori, come spiega la ricomparsa di Ratzinger? Al momento della rinuncia, Benedetto XVI chiarì di voler letteralmente “sparire agli occhi del mondo” e tutti pensammo che la scelta sarebbe caduta su un monastero benedettino, su una qualche clausura inaccessibile e remota. Invece si è optato per il posto meno nascosto e più visibile del mondo: il Vaticano ». Che situazione si crea? Il nuovo senatore a vita Claudio Abbado scrive a Dagospia Bologna, 2 settembre 2013 In relazione alle notizie apparse sui quotidiani “Il Giornale” e “Libero” tratte dal sito “Dagospia”, tengo a precisare che non ho mai avuto residenza in Montecarlo, né mai, in conseguenza di quanto sopra, ho “accettato la contestazione” in tal senso del Fisco. Ultimata la mia collaborazione con il Teatro alla Scala ho trasferito la mia residenza all’estero, prima a Londra quindi a Lucerna, in quanto la mia attività professionale ed artistica mi ha portato ad avere i miei principali rapporti con le maggiori Istituzioni Musicali di Londra, Vienna, Berlino e Lucerna. Da alcuni anni ho riportato la mia residenza in Italia, a Bologna dove vivo attualmente pur avendo mantenuto un rapporto di collaborazione con il Festival di Lucerna e con Berlino. Claudio Abbado Letto 2707 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by zarina — 4 Settembre 2013 @ 10:01
Chissà se dirà ai contribuenti italiani , sui quali grava ora il carico del suo vitalizio senatoriale, se in london, wien, lucerna e berlino ha lasciato pure qualche c.c.