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Impeachment? Quando Cossiga ringraziò il dirigente Pds Napolitano

23 Dicembre 2013

di Luigi Franco
(da “il Fatto Quotidiano”, 23 dicembre 2013)

(Consiglio i miei lettori di non saltare questo articolo poiché su Napolitano c’è da sbellicarsi dal ridere e la dice lunga sulle pessime condizioni in cui versa la nostra politica.  bdm)

La miglior difesa contro l’impeachment? Una lettera che Cossiga scrisse a Napolitano nel 2005.  Il presidente della Repubblica la fa uscire dal suo archivio.  E così il  Picconatore, che nel 1991 era considerato dall’attuale inquilino del Quirinale “incompatibile” con la funzione di presidente della Repubblica, ora diventa testimone utile a ribadire una cosa.  Che lui, Napolitano, l’impeachment di Cossiga chiesto dal suo Pds non lo voleva. E fa niente se, pur differenziandosi dalla linea del partito, Napolitano arrivò a chiedere le dimissioni del suo predecessore.  Dopo aver letto il suo libro ‘Dal Pci al socialismo europeo’, Cossiga scrive a Napolitano il 2 novembre 2005: “Ho molto apprezzato il riferimento al dissenso dell’area riformista del Pci su episodi che hanno dolorosamente coinvolto la mia persona”. E a mano aggiunge: “Ma alcuni che dissentivano da te si sono ricreduti”.

La vicenda a cui l’ex capo dello Stato fa riferimento è la richiesta di  messa in stato di accusa  che il partito di Napolitano, l’ex Pci divenuto Pds, presentò in Parlamento alla fine del 1991. Questa la linea dettata dall’allora segretario  Achille Occhetto  contro un presidente della Repubblica che a una serie di esternazioni destabilizzanti per il sistema politico aveva aggiunto la difesa dell’organizzazione segreta anticomunista Gladio. Sull’impeachment però il partito non era tutto unito. E i miglioristi, la corrente guidata da Napolitano, dichiararono in modo esplicito di essere contrari. Di questo Cossiga dà atto all’attuale capo dello Stato, prima di augurargli nel post scriptum di venire eletto al Colle.  La lettera, conservata finora nell’archivio di Napolitano, è stata fatta avere dagli uffici del Quirinale ad alcuni quotidiani, quali la Stampa, il Messaggero e il Corriere della Sera.  La difesa di Napolitano contro l’impeachment passa dunque per una missiva dell’ex nemico Cossiga. Proprio nei giorni in cui alle minacce di metterlo in stato di accusa del  Movimento 5 Stelle  si sono aggiunte quelle di Forza Italia: “Se continua ad attaccare direttamente Berlusconi e a non svolgere il ruolo di arbitro, un pensiero sull’impeachment lo faremo”, ha detto settimana scorsa  il deputato forzista Ignazio Abrignani.

Accuse contro Napolitano a cui si aggiunge una popolarità ai minimi: “La quota di italiani che esprime (molta-moltissima) fiducia nei suoi riguardi è sotto il 50%. Sicuramente elevata, ma 5 punti in meno rispetto a un anno fa”, scrive oggi Ilvo Diamanti su Repubblica, citando un sondaggio fatto da Ipsos per Ballarò. Napolitano dunque, l’impeachment di Cossiga, non lo voleva. Questo il particolare che il Quirinale ha voluto ribadire.  Un particolare che, del resto, era già chiaro. “Napolitano in occasione della richiesta di impeachment contro l’allora presidente della Repubblica Cossiga, prudentemente, storceva il naso di fronte alla messa in stato d’accusa”, scriveva infatti Paolo Becchi, giurista di riferimento del M5S, nel post sul blog di Beppe Grillo  in cui proponeva l’impeachment del capo dello Stato  che “ha esercitato le sue prerogative al di là dei limiti previsti dalla Costituzione”. C’è poi un aspetto di quel lontano 1991 che dalla lettera di Cossiga non viene fuori.  Come raccontato da Gianni Barbacetto sul Fatto Quotidiano del 15 ottobre scorso,  Napolitano e i suoi si differenziarono sì dalla linea ufficiale del Pds, ma arrivarono a chiedere le dimissioni del Picconatore: è “inevitabile che Francesco Cossiga tragga le conseguenze dalla scelta da lui già compiuta di assumere un ruolo politico incompatibile con la funzione di presidente della Repubblica”, scrissero i miglioristi in un comunicato a novembre. E  il 24 gennaio dell’anno successivo  Napolitano dichiarò: “Tre sono le vie che possono essere percorse: quella dell’impeachment avanzata dal Pds è una; ma un’altra via è quella di sollecitare le dimissioni; la terza è infine quella che si astenga strettamente da interventi impropri”. In ogni caso, “siamo di fronte a una situazione di estrema gravità che si è ulteriormente deteriorata”.  Dall’impeachment Cossiga si salvò. Ma le sue dimissioni arrivarono. Ad aprile, due mesi prima del termine del mandato.
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(Sono più che sicuro che vi siete già messi a ridere da soli. Napolitano ha fatto peggio del tacchino che vicino a Natale cerca di darsela a gambe levate. Lui, convinto di fare una genialità, è andato direttamente in forno, ossia nel suo archivio e ha tirato fuori la lettera con cui Cossiga lo ringraziava di non essersi unito agli altri del Pds nel richiedere il suo impeachment. Si è tutto gonfiato di orgoglio, Napolitano, poiché lui non ha mai chiesto – come gli riconosce Cossiga in quella lettera che sembra scritta dal diavolo in vena di seminare trappole a futura memoria – l’impeachment del presidente della repubblica,  bensì le sue dimissioni  che infatti ci furono due mesi prima della scadenza del suo mandato. Insomma, diciamocela asciutta asciutta, lei Napolitano, lei l’uomo di Budapest, lei l’uomo che mentre le famiglie dormono in strada poiché non hanno soldi per mangiare e sono state sfrattate dalle banche, se ne è andato vestito come un distinto signorotto a godersi le meraviglie della musica – mentre le donne esibivano i loro gioielli ai fotografi – preferendo quella piacevole e allegra compagnia ai disdicevoli e “analfabeti” straccioni che la fischiavano! Ma – ah la mia adorata nemesi – non avendone avuto abbastanza del suo smisurato orgoglio, che fa? Grazie al suo raro acume politico (di cui è meglio che se ne sbarazzi al più presto per il suo bene e per la sua salute) si è voluto dare anche la zappa sui piedi non accorgendosi che Cossiga dalla tomba gli si è messo a ridere in faccia come si fa con gli sciocchini, facendole capire che quella lettera era meglio che la tenesse nascosta nel cassetto, poiché la sensazione è proprio quella che Cossiga, per non rischiare l’impeachment (come lo sta rischiando oggi lei, Napolitano)  abbia seguito per filo e per segno il suo consiglio, e infatti due mesi prima della scadenza rassegnò le dimissioni, rendendola, immagino, felice fino al settimo cielo, e, nella sede del suo Pds, consentendole di stappare, per la gioia dei posteri, una bottiglia di ottimo spumante italiano (o non avrà stappato invece – visto che frequenta l’élite – una bottiglia di ottimo champagne francese, che fa più chic?).
Ora, noi popolani, caro presidente (ma di chi? di me no certamente: se lo scordi) che non siamo così intelligenti e acuti come lei da ricevere una qualche lettera di congratulazioni da un esponente della casta a cui appartiene, ci permettiamo di usare la voce del popolo, quella che ci esce spontanea dall’anima. Crede, infatti, che, come fanno i legulei, vogliamo insistere – ignoranti come siamo –  sull’impeachment  previsto dall’art 98 della costituzione  o sulle dimissioni  che lei suggerì magnanimamente a Francesco Cossiga? Sappiamo bene, noi popolani, o anche populisti come vi piace chiamarci ora che è diventato di moda – che a lei il buon cuore non è mai mancato, nemmeno sulla strage di Budapest, e ci limitiamo a chiederle le immediate dimissioni, io per primo. Una sciocchezzuola, come vede, quale quella che lei chiese a Cossiga, ed ottenne. Nonostante che lei ne abbia combinate di tutti i colori al punto che Cossiga, se messo a paragone, meriterebbe di essere innalzato da papa Francesco e da papa Eugenio (ma dove è finito Scalfari dopo la rampogna di Travaglio?) all’onore degli Altari.
 bdm)


Maggioranze inconfessabili
di Angelo Panebianco
(dal “Corriere della Sera”, 23 dicembre 2013)

Non è difficile spiegare perché la legge di Stabilità varata dal governo sia così tragicamente inadeguata (Alberto Alesina sul Corriere di ieri), perché non sia possibile rilanciare la crescita mediante un percorso virtuoso di tagli alla spesa e di riduzione della pressione fiscale. Accade perché interessi, tradizioni culturali, e regole del gioco fanno sinergia e remano contro, impediscono che lo «Stato corporativo » venga scalfito.

La maggioranza bipartitica che si è formata sulla questione delle aziende municipalizzate a Roma dice, a proposito di Stato corporativo, tutto ciò che c’è da sapere. Qui non si vuole infierire su Berlusconi o sull’onorevole Brunetta ma è stato uno dei loro, il senatore di Forza Italia Francesco Aracri (un originale interprete della Rivoluzione liberale), a proporre l’emendamento che dà ai sindacati il potere di veto sui licenziamenti nelle municipalizzate di Roma. E nemmeno si vuole infierire su Matteo Renzi ma sono stati i suoi a votare l’emendamento del suddetto senatore mentre veniva respinta (per veto Cgil) una proposta di Linda Lanzillotta che andava nella direzione opposta (Sergio Rizzo, Corriere di ieri a pagina 5).

Fossi al posto di Enrico Letta , che è uomo colto e intelligente, anziché difendere l’indifendibile, spiegherei al Paese perché qui da noi ciò che ci si propone inizialmente di fare â— vedi la parabola tragicomica della spending review â— non può essere fatto (da nessuno: Renzi se ne accorgerà presto), le ragioni per cui è al di là delle umane capacità innescare in Italia un percorso virtuoso di sviluppo. Potenza delle lobbies che, in Parlamento, nell’amministrazione, negli enti locali (i sindaci vogliono soldi ma si guardano bene dal mettere le mani nelle municipalizzate in deficit), negli organi della giustizia amministrativa, stanno a guardia della spesa pubblica? Certamente. Forza di una tradizione culturale che avalla e legittima l’azione delle suddette lobbies? Sicuro. Regole del gioco, costituzionali e non, costruite per impedire inversioni di marcia? Detto e ridetto.

Sostengono i cantori dello Stato corporativo che così si tutela la pace sociale. Ma il punto è che quando tali pratiche diventano incompatibili con lo sviluppo (e oggi lo sono), e l’impoverimento del Paese avanza inesorabilmente, finisce per gonfiarsi l’esercito dei non tutelati, o dei non più tutelabili, e, alla fine, anche la pace sociale viene meno. A causa della rivolta, e dell’assedio, degli esclusi. Dopo le elezioni della primavera scorsa e l’impasse politico che ne seguì, per un breve momento, sembrò entrata nella consapevolezza dei più l’idea che occorresse cambiare le regole del gioco, sbarazzarsi di ciò che di sbagliato o inadeguato c’è nella Costituzione del ’48. È tutto già finito. E si capisce: con una Costituzione diversa, i governi italiani potrebbero disporre di una forza simile a quella che detengono i governi delle altre grandi democrazie europee. Ma il partito trasversale della spesa e delle tasse non può accettarlo. Le regole del gioco attuali lo proteggono. Con altre regole potrebbe, un giorno, essere sfidato o minacciato. Peter Praet, capo economista della Bce (su La Stampa di ieri) dice che siamo stati bravi, abbiamo messo sotto controllo i conti. C’è solo â— egli nota â— il piccolo dettaglio che lo abbiamo fatto a colpi di tasse anziché di tagli. Moriremo per asfissia da tasse ma con i conti (forse) in ordine. Sono soddisfazioni.


M5S e l’opposizione vera (a cui ci eravamo disabituati)
di Andrea Scanzi
(da “il Fatto Quotidiano”, 22 dicembre 2013)

Molti hanno votato  M5S  a febbraio perché rivestissero un ruolo nobilissimo, che purtroppo i vent’anni di Violante e derivati hanno fatto dimenticare (permettendo a Berlusconi di spadroneggiare serenamente): il ruolo del “rompipalle democratico”. Uso volutamente questa espressione appena colorita per disturbare l’ipocrisia della  Boldrini, che col suo parlato cantilenante si inalbera per  le parolacce non contemplate dal protocollo  ma si indigna assai meno di fronte a eventi più gravi.

Chi è il “rompipalle democratico”? Colui che fa  opposizione  e non concede sconti. Colui che si sbatte e non fa assenze perché le regole vengano rispettate. È un ruolo tanto nobile quanto rischioso: si rischia di divenire bastiancontrari a prescindere. Lo so. Si rischia il duropurismo spuntato, post-pannelliano e pseudo-massimalista. Ma è un ruolo sacro in una democrazia.

I 5 Stelle hanno sbagliato non poche volte. E altre volte sbaglieranno. Chi lo nega, difendendolo a prescindere, gioca a uccidere una forza che crede di amare, e verso cui invece “tifa” come fosse una squadra di calcio (una delle tante perversioni della politica italiana: preferire il tifo al pensiero). Qui nulla gli verrà scontato, con buona pace delle scomuniche saltuarie e debolucce dal blog. Vi chiedo, però: i  casi  Alfano  e  Cancellieri  avrebbero avuto analoga rilevanza  senza M5S?  L’articolo 138della Costituzione sarebbe stato salvato  senza il loro “ostruzionismo” insistito, che tanto ha piccato la preside Boldrini? Di  F35  e  slot machine  si sarebbe parlato così tanto? Napolitano sarebbe stato (finalmente) un po’ meno intoccabile? La  decadenza di Berlusconi  sarebbe stata così netta e con voto palese?  Il  presunto lobbista Tivelli  sarebbe stato smascherato? Eccetera.

Il M5S doveva essere anzitutto questo: il granello di sabbia che inceppa l’ingranaggio oliato della casta e del  malaffare. Non può riuscirci del tutto, ma ci sta provando. Su questo dovremmo essere tutti d’accordo, se esistesse l’onestà intellettuale. Ed è una cosa che fa bene alla politica, a tutta la politica, perché costringe gli altri a operare per essere migliori (o anche solo a essere un po’ meno carogne). Se poi una tale “foga democratica” potrà risolversi anche in una  concreta attività  di governo, non so dirvi. Non ne sono interamente convinto, in tutta onestà, e lo sapete. Vedremo in futuro. Ma dopo 20 anni senza opposizione, o peggio ancora con una opposizione che in realtà fiancheggiava oscenamente Berlusconi, l’attività di questi “rompipalle democratici” mi pare tutt’altro che irrilevante.


Lamento per Anna
di Stefano Di Michele
(da “Il Foglio”, 23 dicembre 2013)

“Anna bello sguardo / sguardo che ogni giorno / perde qualcosa…” (Lucio Dalla, “Anna e Marco”)

Poi vennero le padelle e le bidelle e uno screanzato monello fiorentino – a chiudere tutto. Ma questo poi, adesso, infine… Però prima… Anna sfilava lenta la Muratti dal pacchetto, la fiamma dell’accendino si moltiplicava tra le pupille scure e le perle bianche che pendevano dalle orecchie. Lei prestava uno sguardo al cielo, sopra il cortile di Montecitorio – che tra limoni e palme pareva magari di sentire uno degli orologi di Villa Bellini, giù a Catania – e insieme uno sguardo all’interlocutore. “Dimmi…”. Gettava fumo, Anna, gettava fumo come se fosse profumo di zagare. Pareva la pubblicità di certi cioccolatini degli anni in cui ancora studiava Giurisprudenza – e un po’ aveva il mito del Che e molto aveva il mito di Berlinguer, e i cuori già mandava in volo come la palla da provata pallavolista – c’erano allora il “gigante buono” e “Lulù coi suoi occhi blu”. Bella Anna, Anna elegante, Anna, va da sé, intelligente. Che dice adesso, e sempre ha detto: parlate dell’intelligenza, non della bellezza e dell’eleganza. Trattasi altrimenti, avverte, di “preventiva delegittimazione”. E questa è certo cosa giusta e buona. Ma a essere intelligenti, poi, son capaci tutti – persino i più fessi ne colgono un lampo, un riflesso. Il quarto d’ora d’intelligenza è come quello della notorietà: a nessuno si nega, all’idiota soprattutto. Ma la bellezza di più persiste nella memoria, proprio perché meno resiste nella realtà.

L’eleganza scava. Resta nell’aria il fumo della Muratti – presta naso anche il più incallito tra i fanatici antitabagisti. Gli anni passano – pure per Anna passano, lei ci ride e ci scherza sopra: “Alla mia età sei roba da amatori…”. Ma lo stesso, figurarsi, non è certo Anna meno della fascinosa Consuelo Pilar cantata dalla Vanoni – sempre la sua gonna lanciata al cielo qualcuno in volo ancora segue. Anna fu (è) più che bella: fu icona. Piaceva a (quasi) tutti i compagni, pure a (quasi) tutti gli avversari. Piaceva a uomini e donne. Persino – e ce ne sono pubbliche testimonianze – a lesbiche e gay. “Mi è sempre piaciuta moltissimo, come donna e come politica”, segnalò con equilibrio istituzionale e sana partecipazione erotico-sentimentale Paola Concia. “I gruppi lesbici avevano fatto di Anna la loro icona”, spiegò Chiara Valentini. Anna che nell’Aula del Senato faceva calare il silenzio quando parlava. Anna che ognuno ammirava – il baciamano, la fiamma rapida dell’accendino se mai occorreva: come patetici boys davanti alla wandissima sul palco. Anna che travolgeva il congresso del partito – ventuno applausi beccava, persino dal più rude delegato. Anna sapeva di donne e legge, economia e riforme, partiti e letteratura. Ora persino i provoloni incalliti vaganti nel Palazzo, che assediavano intelligenza e bellezza ben oltre i suoi quaranta inverni shakespeariani che “avranno assediato la tua fronte”, si sono rarefatti. E’ corteggiata?, le chiesero anni fa. “Sempre meno. Non so se aumenta l’autorevolezza o diminuisce il fascino”. Ché cautela sempre serve: mai sperare, intelligentemente, nella completa redenzione del coglione.

Anna poteva essere al posto di Veltroni al partito. Anna poteva essere al posto di Amato al Viminale. Anna poteva essere al posto di Lombardo a Palazzo dei Normanni. Anna poteva essere al posto di Grasso al Senato. Anna poteva essere al posto di Napolitano al Quirinale – e c’è da immaginare che figura, tra arazzi e corazzieri! Invece persino al suo posto di ministro, un dì di rovinose e stitiche maggioranze, misero la Katia Bellillo da Foligno: va bene la sorellanza, molto male l’incomprensione. Ovunque avrebbe potuto essere, Anna. E ovunque, va da sé, con merito e capacità. Forse è colpa di quel dannato “soffitto di cristallo” da lei individuato – che non si frantuma, che non si spezza, che non cede. Schiaccia, preme, torchia. Le donne, si capisce. “Si chiama soffitto di cristallo: le cariche più alte le vedono, ma un soffitto di cristallo impedisce loro di salire”. Quindi Anna volò – ma non fino alle nubi più alte, non fino alle stelle più distanti, quasi a ritrovarsi (per sua e per nostra mestizia) come in certi versi del suo amato Giovanni Giudici, “una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura / che dice: domani, domani… pur sapendo / che il nostro domani era già ieri da sempre. / La verità chiedeva assai più semplici tempre”. Poi adesso lo sgarbo finale, e non si trovò posto – per volontà dei nuovi che giunsero, che varcarono l’Arno in abito ghiaccio come mantelli di cavalieri teutonici, e dentro albe rumorose conquistarono l’antica fortezza del Partito – tra la folla dei duecento della nuova Direzione. Anna non c’è. La compagna Finocchiaro Anna – nostro vanto e nostro onore, color corallo e luce vermiglia – non siederà tra i non pochi che saranno adunati a costruire la sorte che verrà. Dei Gian Burrasca, degli sgarrupati di sangue fresco fornito e antico sangue famelici – e l’assedio vero, in questo inverno di scontento e ingratitudine dove all’onor del mondo vanno le Madie, lo hanno portato a lei, che reale e imperiale e intelligente si ritrova esattamente come un’altra Anna, la bizantina Comnena di mille anni fa, figlia prediletta del basileus Alessio, cantata da Kavafis: che tutto al culmine si vide sfilare, “una sola pena profonda ebbe (benché / ce lo nasconda) questa greca superba, / di non aver saputo, lei così capace / mettere le mani sulla Corona – che le soffiò, / per così dire, quell’insolente di Giovanni” (deve essere, Giovanni, il nome bizantino di Matteo – forse).

Noi tutti amammo Anna – di perle e fumo e corallo, come in certe foto di Ferdinando Scianna. Siamo ora partigiani in gramaglie, consolabili certo, ma afflitti pure. Ne ebbe stima l’Elefantino, che aveva emesso barrito contro l’Unità, “linguisticamente e tendenzialmente omicida”, disse, “se mi ammazzano ricordatevi che è su mandato linguistico di Antonio Tabucchi e di Furio Colombo in concorso tra loro”, e seguirono denunce e processi e condanne e chissà cosa – e lì da Vespa una sera si trovarono proprio Anna e l’Elefantino (e Giovanardi a far di terzo). E’ il giornale dei Ds, dissero ad Anna. E lei: “Non lo è più, purtroppo, nel senso che noi lo finanziamo ma non sempre, diciamo, è esattamente espressione della maggioranza del partito. Ma non è questo il punto, diciamo: è un giornale libero, dove una direzione libera sceglie anche la linea editoriale” – insomma, l’indispensabile da dire (diciamo), e l’insospettabile cronaca dell’Unità stessa offre la misura dell’insoddisfazione per il pronunciamento della compagna Finocchiaro, “sorride, guarda in basso, rivela un po’ di imbarazzo”. L’Elefantino insiste: “Un foglio tendenzialmente ‘omicida’…”. Anna: “So che tu hai questa opinione”. A sinistra spesso il sospetto (anticamera, vestibolo, sgabuzzino della verità) corre – né troppi aggettivi usa Anna, né troppa indignazione mostra, né troppo fervore fa intendere: pur magistrato, pur di Violante amica, forse perché amica pure di D’Alema (“persona deliziosa… è timido, ha un blocco nelle relazioni con le persone”, l’azzardo e la riposta considerazione), e si sa: chi va con l’inciucista impara a inciuciare. Anna sorride, fuma, cerca misura nelle parole. Così da scivolare dall’immaginario eretico abbraccio dalemiano a quello sconsacrato berlusconiano – e questa primavera, quando si doveva votare il presidente del Senato, Peppe Arnone, dal comitato “Pio La Torre per il rinnovamento della politica”, scrisse ad Alfano che “è dei vostri donna Anna, non è donna di sinistra, e non da oggi”, segnalava il pensiero in proposito di “uno dei più brillanti intellettuali di questo paese, Alessandro Baricco” (spiegava appunto, il “brillante intellettuale”, che “uno come Bersani può invece mandare ancora la Finocchiaro in televisione a dire frasi che anche nella loro struttura sintattica non esistono più”), e invitava infine Angelino, lo scrivente Peppe: “Caro Alfano, non potete perdere un’occasione simile: quella di eleggere alla seconda carica dello stato la persona più berlusconiana che siede al Senato: Anna Finocchiaro”. La quale, peraltro, diede ennesimo motivo di dubbio ai moralisti che mordevano i polpacci del suo partito, quando difese Renato Schifani dalle accuse di Marco Travaglio in una memorabile puntata del programma di Fabio Fazio. “Trovo inaccettabile che possano essere lanciate accuse così gravi, come quella di collusione mafiosa, nei confronti del presidente del Senato – disse l’allora capogruppo del Pd a Palazzo Madama – in diretta tv e sulle reti del servizio pubblico senza che vi sia alcuna possibilità di contraddittorio”.

Come a certi di sinistra succede – a D’Alema è successo, persino a Violante è successo: il parricidio è continuo, il matricidio si fa strada – cantavano pure a destra le lodi di Anna, mai dogmatica e mai fanatica. La Mussolini disse: “Voterei sempre, tutta la vita, per Anna presidente della Repubblica”. Si fece lirico Sandro Bondi (un capitolo del suo libro con Sabelli Fioretti ha per titolo: “Quanto mi piace Anna Finocchiaro”) – è, il suo farsi lirico, forse poco parsimonioso ma sempre partecipe: “Nero sublime / Lento abbandono / Violento rosso / Fugace ironia / Bianco madreperla / Intrepido mistero”. Di Anna ognuno diceva – bene diceva. Lino Jannuzzi la lodava mentre teneva a bada l’impossibile maggioranza di Prodi: “Con un altro capogruppo non sarebbe durato un giorno”. Persino sull’antipatizzante Giornale s’impennava nel 2007 la prosa di suo piuttosto dispettosa di Giancarlo Perna, posizionandosi a metà tra quella brancatiana e un’habanera della “Carmen”, un pizzico omerica: “E’ proprio bella. Senza tracce di nevrosi contemporanea, la senatrice Ds ha una tranquilla muliebrità all’antica. Alta e morbida, tornita e levigata. E’ già uno spettacolo come appare in tv, col filo di perle al collo, i capelli neri, gli occhi chiari e la bocca vermiglia. Ma l’ideale sarebbe vederla illuminata da uno scintillio di lapilli dell’Etna, avvolta in un peplo che si gonfia lievemente sul seno, scende sinuoso sui fianchi e si affusola ai piedi della dea”. Seno, fianchi, dea, morbida, tornita, bocca: tutto, e il meglio… Quell’anno, al congresso diesse, la compagna Finocchiaro fece furore – insieme fu Carmen e pure Escamillo. Va al microfono e (sempre dal Giornale) in quel momento esatto “è sceso il silenzio che, stando all’Apocalisse, precederà il Giudizio universale nella valle di Giosafat” – da esultare, messa così, ma anche da procedere a qualche rapido, vigoroso esorcismo. Ventuno applausi furono registrati, ventuno: come una Muratti in più di quelle nel pacchetto. Da far schiattare tutte le Leopolde del mondo. “Faremo come Temistocle, che decide di affrontare per mare l’armata persiana anziché aspettarne l’arrivo dietro le spesse mura di Atene!”. Gli ateniesi diessini parevano già tutti sistemati e allertati, chi a poppa e chi a prua, al comando della Compagna Ammiraglia. “Vamos, compaí±eros!”. Ma ancora il soffitto di cristallo cadde su Anna – e fu Veltroni, con meno cinta di Atene e più spiaggia di Sabaudia, a essere innalzato.

La compagna Finocchiaro fu compagna davvero, quando c’era da essere compagni. Non voleva la svolta occhettina, narrano che scoppiò in lacrime alla visione del nuovo simbolo della Quercia che aveva schiantato ai suoi piedi la falce, il martello e la bella e cara bandiera rossa. Poi se le asciugò. Fece sempre figure migliori – così devota alla causa, così poco simile alla configurazione donna/sinistra/impegnata su cui i giornali reazionari ricamavano e che quelli progressisti vezzeggiavano. Quando fu nominata ministro – l’annuncio glielo diede D’Alema mentre percorreva, c’è da credere, e qui ancora Brancati soccorre, tra accecamenti e pubbliche ammirazioni, la via Etnea – uno stolto cronista dell’Unità ebbe a scrivere, nella cronaca del giuramento quirinalizio, che S. E. Finocchiaro come madrina di cresima stava abbigliata. La stoltezza con una risata e occhiataccia di brace fu segnalata, il modello sartoriale riabilitato, l’onore stilistico restituito. L’intera storia, che dal comunismo ha portato il granitico partito alla ribollita tardo democristiana di oggi, ancorata alle sue perle, Anna – “donna Anna” per alcuni, “Annuzza” per altri – ha vissuto. Così: dal dominio congressuale al mesto sortire dall’anonima Direzione di fresco attruppamento. Quasi era evocativa, al momento di gloria massima, la compagna Finocchiaro, di Teresa Uzeda principessa di Francalanza, quella dei “Viceré” catanesi di Federico De Roberto: “Gran donna, la principessa! Basta dire che rifece la casa già fallita!”. Seppure, si capisce, con appositi e necessari scongiuri – la nobildonna defunge a inizio del romanzo, Anna ha vigore e salute da vendere – le cronache che la raccontavano s’appaiavano alle iscrizioni barocche con la quale alla principessa i sottoposti rendevano onore: “Sotto muliebri spoglie / cuore gagliardo pietoso / animo eletto munifico / spirito svegliato fecondo / onninamente (e che vuol dire?, giustamente chiedeva il barone Carcaretta nelle pagine di De Roberto) degna / della magnanima stirpe / che la fé sua”. Ma ecco, in agguato, padelle, bidelle e monello. “Sempre pulcinellate?”, avrebbe chiesto don Blasco. Sempre forse no. Adesso, però, sì.

Rinfacciò le padelle dell’Ikea, Matteo Renzi alla compagna Finocchiaro, il cui nome circolava – quando nel buco nero dell’urna si sparò alle spalle di Marini e Prodi – per il Quirinale. Le maledette padelle. Antiaderenti, fu specificato – ma lì, sullo scivoloso padellame, insieme a un mesto stenditoio, nel carrello strapieno di ordinari manufatti, due uomini di scorta a far ala e un autista a spingere, qualcosa di Anna cadde. Come se le perle si sfilassero dal filo. Tic-tic-tic… Mon Dieu! Come se i coralli impallidissero. Come se fosse l’ultima sigaretta ed è giorno di chiusura dei tabaccai. Maledette foto. Impeccabile sempre, Anna: col tailleur rosso fuoco, il foulard abbinato, orecchini incantevoli. Maledette padelle. Gliele lanciò tra i piedi, Renzi: “Non può diventare presidente chi ha usato la sua scorta come carrello umano per fare la spesa da Ikea”. Anna: “Sei un miserabile”. Godeva il Fatto: “Finocchiaro canta ‘Pazza Ikea’, dirige l’orchestra Matteo Renzi”. Seguì l’uscita infelice sulle bidelle: “Stiamo parlando di parlamentari della Repubblica, non stiamo parlando di bidelle”. Si può precisare, correggere, dare completa lettura. Si può. Ma quella frase lì rimane – monca, magari; imbarazzante, comunque. Fece gran festa Maurizio Crozza a “Ballarò”: “Come si fa a paragonarle? Le bidelle lavorano!”. E lei in studio rideva, ma di riso amaro rideva – quasi da singhiozzare veniva. Poi le vicende giudiziarie che in Sicilia hanno coinvolto suo marito, il ginecologo Melchiorre Fidelbo. Persino certe banane al supermercato, sempre presente la scorta, ha messo di mezzo l’Espresso (seguì querela). Anna sorride meno – dice che cerca di limitare il fumo; magari è un po’ più nervosa, ammette. E a volte neanche si può più sorridere – se il Corriere così titola: “Rottamata all’ultima corsa l’eterna candidata Finocchiaro”. E Anna, tra la brace e il vermiglio, sempre più somiglia a quella della canzone di Dalla dallo sguardo bello, “sguardo che ogni giorno perde qualcosa”. Disse: “Un uomo, con il mio curriculum, l’avrebbero fatto presidente della Repubblica”. Disse che scherzava. Disse: “Il paese è pronto ad avere un presidente della Repubblica donna”. Disse seria. E perfetta sarebbe stata, Anna – già compagna, già viceré, già principessa. Sempre già molte cose. Sempre mai abbastanza. Sempre così.

Sulla mistica della rottamazione Anna è stata immolata. “Rumor di ciottoli sotto gli zoccoli del destriero consolare…”, ha forse udito, come la doí±a Flora di un romanzo del suo amato Abraham Yehoshua (dicono sia stato Violante a farla appassionare alla letteratura ebraica). Lei che ebbe ventuno applausi, non ha avuto posto tra centinaia disponibili. Ora i capelli non sono più tanto neri, come quando debuttò a Montecitorio – una spolverata di grigio sopra, come zucchero a velo sul pandoro natalizio. Bella di più quieta bellezza. Lei, che ha sempre detto di amare gli uomini che sembrano secchioni – ebbe modo di trarne elogio per Marco Follini: secchione tipico – è finita tra le mani del novello Franti: non di uno dei barbari che assediavano le mura, ateniesi o spartane o catanesi che fossero, del suo gran partito; ma il barbaro stesso a cui i suoi compagni di vita e di strada hanno aperto le porte e offerto le chiavi della città. Sono franate le torri, si è fatto più minaccioso il soffitto di cristallo.

Anna come sono tante – però non molte ce ne sono state. E di sicuro non ce ne sarà un’altra… Rimetterà magari a consolazione il vecchio disco di Lucio Battisti che amava – “Balla Linda” da una parte, “Acqua azzurra acqua chiara” dall’altra. Quando le ragazze che andavano per la maggiore dovevano essere bionde e lisce e magre come acciughe, svedesi di paese, e lei invece era come Angelica, di carni e capelli corvini: da farci pazzo Orlando e pure Rinaldo, Sacripante e pure Ferraù: ventuno applausi, non uno in meno. Ebbe giustificatissima rivincita. Ma intanto il luminoso cristallo pare mutarsi in oscuro piombo. “Questo caro sgomento mio d’esistere…”, scriveva il suo amato Giudici. Quasi niente, si direbbe, rispetto allo sgomento per l’esistenza di Renzi. “E in ogni caso l’essere è più del dire” – lo sa Anna e lo sa il poeta.

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(Bell’articolo. Sì, la Finocchiaro è caduta all’Ikea e sulla buccia di banana di quel disprezzo implicito per le bidelle – un po’ alla Mughini con i disoccupati di oggi – Sono state entrambe le sue bucce di banana, ma sono anche state, a mio avviso, la rivelazione della sua vera natura, troppo distante da noi miserabili del popolo. bdm)


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Bart