[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]
Gomorra
Gomorra
Matteo Garrone, 2008
Toni Servillo, Gianfelice Imparato, Maria Nazionale, Salvatore Cantalupo, Salvatore Abruzzese, Giorgio Morra, Marco Macor, Ciro Petrone, Carmine Paternoster.
Sull’idea che ciascun italiano, in quanto anche cittadino del mondo, possa avere circa la camorra e tutta la malavita organizzata, crediamo vi siano pochi dubbi. Ma guardare il diavolo in faccia è un’altra cosa. E l’aspetto più interessante di un film ispirato ad un libro come quello di Roberto Saviano (vendute oltre un milione di copie) non è tanto nella soddisfazione che se ne può trarre nel sentirsi, mettiamo, “dalla parte giusta” riguardo ai contenuti, quanto nella necessità, suggerita e “imposta” dall’autore proprio col suo film/cinema, di stabilire con camorra e relativo background un rapporto di interazione profonda, cioè di costruzione del senso, che non può limitarsi a giudizi stereotipi sul “male” che affligge la società, ma che deve necessariamente avere a che fare col testo, col film, comprese le reazioni derivanti dallo stile del regista. In sostanza, il valore del film Gomorra sta principalmente nell’essere un film di Garrone. Dopo L’imbalsamatore (2002) e Primo amore (2003), il regista continua imperterrito nella sua visione a-emotiva, che per contrappasso fa risaltare, gli elementi più crudeli e feroci delle vicende narrate. O meglio, non narrate bensì “presentate”. Tra Napoli e Caserta la vita è come ghiacciata, “freddata” con uno degli stessi colpi di pistola e di mitra che risuonano nel film, a sorpresa e insieme naturali, espressioni di normalità necessaria quanto terribile. Il paradosso estetico è dato dall’essenza composita dei personaggi (uno su tutti il Franco/Servillo, boss dei rifiuti tossici), i quali con-tengono in sé, nelle loro voci (dialetto stretto con sottotitoli) e nei loro corpi, tutta la problematica sociale che li incatena in quella specie di santuario perverso dell’illegalità; e nello stesso tempo vivono di una loro autonomia cinematografica, fatta di momenti molto diversi tra loro, dettagli dell’inconsistenza e della disperazione coatta, che vanno a formare un destino chiuso, invalicabile: una vita recintata dal cordone mitologico che riduce ogni aspirazione a un generico, martellante e falso «Tutto a posto ». Cinque storie, trascelte dal voluminoso lavoro di Saviano (lo scrittore ha partecipato alla sceneggiatura), si svolgono intrecciandosi senza alcuna progressione drammatica, tutto accade in forma di linguaggio, ogni violenza è messaggio per un discorso assurdamente autoreferenziale. Ma la freddezza di Garrone non è distacco, non è lontananza, è piuttosto invito, indiretto eppure perentorio, alla riflessione. Dice uno dei ragazzi del film: «Abbiamo tutto, possiamo fare come ci pare ». Non è vero, non hanno tutto e non possono fare come vogliono.
Carnera, The Walking Mountain
Carnera, The Walking Mountain
Renzo Martinelli, 2007
Andrea Iaia, Anna Valle, F. Murray Abraham, Paul Sorvino, Kasia Smutniak, Daniele Liotti, Antonio Cupo, Burt Young, Nino Benvenuti.
Primo Carnera, mito triste e piccolo, legato ad un periodo velleitario in cui la grande comunicazione, in Italia, muove i primi passi verso la grande propaganda senza andare al di là di una goffa rappresentazione del falso. Oggi ormai ci sono altri mezzi, sia tecnologici, come dimostra il laboriosissimo intervento digitale per cucire in forma “documentaria” la faccia nuova del pugile campione del mondo 1933 (Iaia) con il backgraund d’epoca (Madison Square Garden gremito di tifosi italiani sbandieratori, Piazza Venezia gremita di fascisti idolatri), sia culturali (il sofisticato dettato comportamentale della pubblicità che ci fa sentire “liberi” nelle scelte); sicché perfino l’Uomo di ferro (Iron Man) può sembrarci più “umano” della Montagna che cammina. In effetti, questo Carnera di Martinelli (Porzus, Il mercante di pietre) sembra uscire da un sogno felliniano. Fiabescamente semplificato a fanciullo, “viaggia” come trasognato dalle elementari in Friuli (Sequals è il paesino dove nasce nel 1906) alle ribalte della boxe mondiale (Parigi, Londra, New York) portandosi dentro la costante di una “semplicità” più citata che verosimile. E la dura batosta, che dopo il trionfo con Jack Sharkey gli viene inflitta nel successivo violentissimo combattimento, non basta a tirarlo fuori da una retorica di maniera (prenderne tante ma restare in piedi), invano nascosta nel corpo colossale (non “maestoso”, quale si è voluto vedere) dell’attore protagonista (improvvisato). Zampanò resta dietro l’angolo, non se ne va. Si sente solo, senza il suo regista preferito. E proviamo compassione a lasciarlo lì, in quell’Italietta povera assetata di eroi.
Mongol
Mongol
Sergei Bodrov, 2007
Tadanobu Asano, Honglei Sun, Khulan Chuluun, Odnyam Odsuren, Aliya, Ba Sen, Amadu, Mamadakov, Ba Yin, He Qi, Sun Ben Hou, Ji Ri Mu Tu.
Com’è buono Genghis Khan! Il siberiano Bodrov – Il prigioniero del Caucaso (1997), Decisione rapida (2001), Il bacio dell’orso (2002) – ha realizzato le riprese nelle sterminate steppe e nelle foreste dove vissero le primitive tribù mongole, in Cina, in Kazakhstan e nell’attuale Mongolia, prima di venire riunite in un unico impero dal khan Temujin (1162-1227); ha studiato la vera storia dei mongoli che non aveva potuto conoscere da ragazzo, nelle scuole dell’Unione Sovietica; è andato a Ulan Bator, la capitale della Mongolia, a chiedere al capo sciamano il permesso di fare il film; ha dato il ruolo del protagonista al giapponese Tadanobu Asano perché è un grande attore (Zatí´ichi) e perché i giapponesi credono, come anche i Kazaki e i coreani, che Genghis Khan sia stato in realtà uno di loro; ha rispettato le usanze e le credenze della gente ancora nomade nei più sperduti territori; ha ottenuto la collaborazione di centinaia di “comparse” per le scene di battaglia a cavallo; ha “catturato” le voci di un complesso folk (curiosa l’assonanza con certi cori dell’antica Sardegna) per la suggestiva colonna composta poi dal finlandese Tuomas Kantelinen. Insomma, è stata seria l’intenzione di restituire alla fama del grande condottiero, dipinto dai russi dominati per due secoli come il più feroce dei conquistatori, una più giusta dimensione storica. E la contaminazione della primaria fonte d’autore ignoto, il poema in versi La storia segreta dei Mongoli ritrovato in Cina nel XIX secolo, con lo studio dell’illustre storico Lev Gumilev (il suo libro La leggenda della freccia nera attenuava la “ferocia” di Genghis Khan) sembra essere avvenuto in maniera indolore, preservando cioè al film la dignità di una verosimiglianza progressiva. Nulla a che vedere con “cose” come Gengis Khan il conquistatore (Henry Levin, 1965, con Omar Sharif) e simili – una ventina di approssimazioni spettacolari dagli anni ‘50 ad oggi. Nella superproduzione (Germania/Kazakhstan/Russia/Mongolia – 15 milioni di euro) che racconta la mitica ascesa al potere di Temujin a partire dall’età di 9 anni e dal contrasto paterno con la tribù rivale dei Merkit, l’elemento spettacolare non manca certo, ma Bodrov attenua il rischio di un cedimento troppo marcato verso tipologie post-western (i grandi spazi, i cavalli, gli scontri anche rallentati quasi alla Peckinpah) con una tensione antropologica nello sviluppo della sceneggiatura e nel tratteggio dei caratteri. L’amore per Borte (l’esordiente Khulan Chuluun), la donna che ha scelto fin da bambino come sua moglie, porterà Temujin a combattere per riconquistarla, trasgredendo princìpi che affondano nella tradizione: «Non dire a nessuno che andiamo in guerra per una donna », lo avverte Jamukha (Honglei Sun, uno degli attori cinesi preferiti di Zhang Yimou), suo fratello di sangue e poi nemico acerrimo. L’amore è centrale nella vita del futuro Gran Khan, il quale, con Borte, arriva a scoprirsi in accenti “romantici” del tipo: «Senza te non posso vivere ». Ma ancora più importante, dal punto di vista storico, è l’idea di dare a tutti i mongoli una sola legge, regole più “umane” in battaglia, rispetto per le famiglie, proibizione della tortura. Il film è stato già nel programma della Festa del cinema di Roma 2007.
In Bruges – La coscienza dell’assassino
In Bruges
Martin McDonagh, 2008
Colin Farrell, Brendan Gleeson, Ralpf Fiennes, Clémence Poésy, Jordan Prentice.
Non è un paese per assassini? Sembra uno scherzo, ma l’inglese McDonagh (Oscar 2006 per il corto Six Shooter) scopre presto un caratterino niente affatto morbido. Il paese è il Belgio, in particolare la città di Bruges, per i turisti un paradiso di arte gotica. Ma per Ray (Farrell) e Ken (Gleeson) sarà un posto da incubo. Lo vediamo presto. Già appena arrivati da Londra, i due compari, strana coppia di killer “sfortunati”, si mostrano a disagio. Più accomodante Ken, che sembra voler prendere dal momentaneo confino a cui li costringe il boss Harry (Fiennes) quel che di positivo ci può essere nella fastidiosa situazione; del tutto scontento, sull’orlo di una crisi nervosa, l’emotivo Ray, il quale non sopporta l’idea di dover restare in quel «cesso di città » per 15 giorni, a nascondersi dopo il “lavoro” londinese andato male. Una commedia inglese? Inquivocabile lo spirito, che però, verso la metà del film, si fa sempre meno leggero, si scurisce fino al Noir. La stessa città diventa nemica (ma per Ray non è certo una sorpresa) e si trasforma in luogo di morte. Ray e Ken sono prigionieri del loro capo, Harry li possiede nell’intimo, posseduto egli per primo da una paranoia surreale. Viene il momento che il boss si fa vivo in persona, inferocito dalla negligenza dei suoi uomini, e li tratta come un maestro di scuola isterico tratterebbe due ragazzini birboni. Si ride anche, ma poi si resta col sorriso a metà, agghiacciati dal finale violento e segnato da una strana “umanità”. E’ come se i personaggi si spogliassero del ruolo fittizio e mostrassero il loro lato segreto, persino commovente, sulle tracce di un copione esistenzialista fuori portata, di fuggevole consistenza. Ed è proprio questo aspetto paradossale che, mentre qualcuno muore, lascia che qualche altro abbia ancora una possibilità. Il tono dell’ambientazione e dei dialoghi è così perfetto da sembrare ottenuto con un miracolo creativo, di quelli difficili da realizzare al cinema. Si può perfino perdonare a Farrell qualche smorfia di troppo e al regista/sceneggiatore qualche simbolismo teatrale (Jimmy/Prentice, il nano americano, a Bruges sul set di un film d’essai europeo). – Dal Sundance Film Festival 2008.
Certamente, forse
Definitely, maybe
Adam Brooks, 2008
Ryan Reynolds, Isla Fisher, Derek Luke, Abigail Breslin, Elizabeth Banks, Rachel Weisz.
Toccante. Forse era di aprile, di sicuro fu Maya (Breslin), dieci anni, a dire senza mezzi termini la verità al padre Will (Reynolds): «Credimi papà, tu non sei felice ». Siamo a Manhattan, sembra la conclusione amara della lunga storia sentimentale, che il giovane pubblicitario venuto dal Wisconsin a New York per sostenere la campagna elettorale di Clinton ha raccontato alla figlia. E invece il bello deve ancora venire. Sarà un happyend, ovvio, ma sarà un finale sofferto e meritato, che allo spettatore questa volta non si poteva proprio negare. La bambina, svelta intelligente e sensibile (vista in Little Miss Sunshine), ha fatto tesoro della lezione di educazione sessuale ricevuta a scuola per chiedere a Will di metterla al corrente del suo incontro con la mamma e magari di altri amori precedenti. Il momento è delicato perché i cari genitori stanno per divorziare. Will racconta. Con un accorgimento, però: cambierà i nomi delle tre donne che ha conosciuto e Maya dovrà indovinare quale delle tre ha poi sposato il padre. Brooks, già sceneggiatore di Che pasticcio Bridget Jones, costruisce un simpatico thriller sentimentale poggiato sì su una solida piattaforma per la difesa della famiglia, ma con toni alquanto sbarazzini e con un intreccio non banalissimo. Il versante non è reazionario. I caratteri sono credibili e ben delineati. Reynolds non è soltanto un manichino e sfrutta al meglio l’”ambiguità” che scaturisce dalla sua maschera sexy semi-ingenua. Breslin ha il compito di raccordare la successione di flash con cui Will ricostruisce i propri tormenti amorosi. E visto che si risale al 1991, riviviamo in modo verosimile le atmosfere che portarono gli Stati Uniti alla vittoria democratica. Emily (Banks), April (Fisher) e Summer (Weisz) costituiscono un terzetto ben diversificato e tutt’altro che di superficiale confezione, ciascuna ha le sue buone ragioni per amare e per lasciare Will. Sicché il thriller “tiene” fino all’ultima scena. Alla fine, il “trionfo” della bambina risulta spogliato di retorica, non moralistico.