di Dino Buzzati
[dal “Corriere della Sera”, sabato 21 giugno 1969]
Torino. Sono andato da Luigi Mallé, direttore della Galleria civica d’arte moder na, per chiedergli il permesso di visitare nottetempo la gran de mostra: « Il sacro e il pro fano nell’arte dei simbolisti ».
– Capisco â— ha detto Mallé. â— Io sono il primo a rico noscere che molti di questi quadri è probabile vivano più intensamente di notte. Ma co me si fa? Di notte è tutto chiuso, tutto spento.
– Be’!, non pretendo la luce, anzi. La luce sarebbe ne gativa. Mi basterà una lam padina a pila.
Era presente anche Luigi Cartoccio, ordinatore della mostra:
– Ma, dico, avresti l’in tenzione di venire solo? Io non mi fiderei. Guarda che ci sono certi tipi. Ti garanti sco, poco raccomandabili.
– Dove?
– Nei quadri, no? E di notte… posso dire di saperne qualcosa.
Però il permesso me l’han no dato. Ed eccomi solo nel museo, dove penetra dalle ve trate e dal soffitto una fievole luce che non si può nemmeno chiamare luce, in mezzo a questa straordinaria assemblea di spiriti, angeli, fanciulle aeree, deità strane, satiri, dia voli, ragazze nude, foreste mi steriose, cavalli volanti, sche letri, soprattutto scheletri, te schi, mascheroni di morte, vuote occhiaie. Paura? Nem meno l’ombra. Ma sono i vecchi amici della mia prima giovinezza. Sono stati loro ad aprirmi le porte della poesia e dei sogni. Con loro mi sono avventurato, tanti anni fa, nei palazzi stregati, sulle monta gne degli elfi, nelle selve dei nibelunghi. Tenebrosi, perver si, demoniaci? Guai se fosse stato altrimenti. Non gli avremmo voluto tanto bene.
Qui ne è presente una mas siccia dose. E dei più forti, belli, sinistri ed autorevoli. Che se ne fanno dunque della placida notte torinese? Nella fitta penombra blu, consta to che per lo più non dormo no. E qualcuno bisbiglia, qualcuno si muove, qualcuno è riuscito perfino a sfilarsi dalla cornice, come spesso ac cade nei musei, vagamente lo intravedo che si sposta qua e là, a lievi scatti, librato a mezz’aria. Ecco alcuni in contri:
BOECKLIN. â— L’anima, in piedi sulla barchetta che in silenzio, adagio adagio, sta approdando all’isola dei mor ti, è preoccupata. « Sei tu Caronte? » sento che chiede al vogatore. « Perché? Che vuoi? » â— « Sarà questa la mia nuova casa? » â— « Non ti piace? Più solenne e pit toresca di così! » â— « Con fesso che l’aldilà speravo as somigliasse meno a un cimi tero. Quei lugubri cipressi, quei loggiati che sembrano cripte, quella luce da giudi zio universale… E poi mi sem bra piccola, quest’isola. Come fanno a starci tutti i morti, per quanto evanescenti, ete rei…? » â— « Hai paura di non avere spazio abbastanza? Tranquillizzati… Non tutti i morti risiedono qui. Anzi. L’isoletta è una dimora riser vata… Ci stanno in pochi. Pochissimi » â— « Lo sai quan ti? Un centinaio? » â— « Me no » â— « Una ventina? » â— « Meno ancora » â— « Non mi vuoi dire quanti? » â— « Uno solo » â— « Vuoi dire che nel l’isola troverò soltanto un al tro come me? » â— « Non tro verai nessuno. Per ciascuno c’è un’isola, dove ciascuno consuma il riposo eterno in solitudine ».
KLINGER. â— Il giovane signore barbuto si confessa: « Mi vede qui, alla patinoire, che perdo il cappello e a mo menti vado lungo disteso sul ghiaccio, per raccogliere il guanto lasciato cadere â— l’avrà fatto apposta? â— da quella là, alta magra, elegan te, che vediamo di spalle, mi steriosa? Non l’avessi mai fatto. Quel guanto mi ha stre gato, non mi dà requie, è diventato uno spirito folletto, un fantasma, una ossessione, di notte entra nei sogni in dimensioni mostruose e mi naccia di soffocarmi, poi mi tormenta con mille scherzi maligni e velenose allusioni, contornato da amorini. Le giuro: da quel giorno io so no un pazzo, uno schiavo, un povero diavolo, e sì che sono passati novant’anni. Strana cosa, l’amore ».
KANDINSKY. â— Forse an che di giorno, nelle ore morte, sicuramente di notte: flebi li fiati di musica attraversano le sale della mostra e si intrecciano, formando confusi cori e risonanze. C’è moltissimo Wagner, naturalmente. E Schumann, Brahms, Mahler, Franck, D’Indy. Ma soprattutto Debussy. Anche Dukas, Strauss, Ravel si fanno vivi. Curiose le melodie che escono dalle sorprendenti tempere e silografie di Kandinsky, del 1902, 1903, prima che lui diventasse « fauve » (non parliamo del Cavaliere azzurro, ancora in mente dei). Favole medievali con turrite città e giovani guerrieri cavalcanti nei boschi solitari. E dietro palpitano le orchestre di Mussorgski, di Rimski-Korsakov, di Borodin, c’è perfino un presentimento di Stravinskj.
ENSOR. â— Nella squallida stanza i sette scheletri cerca no invano di scaldarsi intor no alla grande stufa. Una vol ta erano persone importanti. Due sono ancora vestiti da preti, coi paramenti. Uno in dossa il mantello e il cilindro dei bei tempi. La stufa è vuo ta e spenta. Ma anche se fosse incandescente i sette non ne avrebbero sollievo, tanto lun go e profondo è il gelo entra to nelle ossa. La notte di giu gno, qui a Torino, è tiepida, dai giardini intorno filtrano echi primaverili di profumi. Ma i sette non trovano pace. Avvicinando un orecchio alla incisione, posso udire, esile ticchettìo, il battere dei denti.
MOREAU. â— La Salomè numero 72 e la Salomè nu mero 76 parlano sottovoce tra di loro: « Povero Jean, se ci vedesse qui… » â— « Chi? Il caro duca Des Esseintes? » â— « Sì. Dico che rimarrebbe un po’ deluso. Ti ricordi? Il simbolo deificato della indistrut tibile lussuria, eravamo ai suoi occhi, la beltà maledetta, la bestia mostruosa, indifferen te, irresponsabile, che avvele na tutti quelli che la vedo no, tutto quello che lei toc ca… E invece qui… Hai sen tito i commenti del pubbli co? » â— « Lo so… volgarità… miserie… E poi si vede che i gusti son cambiati ». â— « Due, oggi, si sono fermati a guar darci per un pezzo. E il più giovane: Bella sì, ma un tipo snob, non trovi? Sofisticata. Fredda. Matronale. Statuaria. Profilo greco. E poi dicono perversa, dissoluta? Ma dove? Io non capisco quello sciagu rato di tetrarca come abbia potuto perdere la testa. Al paragone, trovo più sexy per fino la Salomè di Pasolini, quella ninfetta da Cottolengo, minorata di mente… ».
SEGANTINI. â— Nella lan da nevosa il vento â— ne ho udito distintamente il sibilo â— tormenta i contorti alberi spogli e insieme agita qua e là, come rotte bandiere, tre «cattive madri », giovani mantellate anime in pena, op presse da chissà quali rimor si. Apparizioni? Spiriti del purgatorio o dell’inferno? Se gantini le ha chiamate in causa appunto in omaggio al la moda. Ma è fin troppo chiaro che ai peccati delle tre infelici non ci crede. Le trat ta quindi gentilmente, trasfor mandole in graziose meduse di veli neri da cui sboccia il bianco dei seni. In realtà quello che lo interessa è la neve, sono le ombre azzurre sulla neve, è il chiaro di lu na, sono le meravigliose mon tagne ghiacciate che risplen dono laggiù in fondo. E soprattutto l’aria pura e allu cinata, il silenzio, il freddo di vetro, che anche noi si percepisce benissimo toccan do con un dito la superficie del quadro.
ALBERTO MARTINI. â— Al quasi buio i suoi minuti disegni in inchiostro di china emanano una fosforescenza tipica. Infatti sono per lo più disegni notturni che raccon tano incantesimi, paure, de liri, tentazioni notturne. Ci si domanda come mai i raccon ti di Poe, già pubblicati in centinaia di edizioni inutili, non siano ancora apparsi con le figure di Alberto Martini, che di gran lunga superano, per fantasia e genialità, tutti gli altri tentativi, italiani e stranieri, fatti finora. Quando ci sono passato accanto, il celebre corvo starnazzava, sbeccottando la persiana del poeta insonne, chiedendo di entrare.
DENIS. – Non si capisce se nel » bosco sacro » le prime foglie cadute si siano di sposte da sole con tanta sa pienza ornamentale, o se si tratti di una moquette. Le muse che lo abitano sono ve stite e pettinate alla fin-de-siècle, un po’ esangui al lu me della mia lampadina az zurrata, hanno tutte l’arguto profilo, col naso a punta un po’ aquilino, prediletto da Denis. Siedono, leggono, di segnano â— ce n’è una che fa la punta a una matita â— pas seggiano tra gli alberi, discor rono placide di arte, lettera tura, amore, relazioni mondane. E’ cominciato l’autunno l’aria è malinconica, ma regna la serenità, destinata a durare in eterno. Il mondo è un luogo amabile, dove si può essere felici. Neppure al più remoto orizzonte si intravedono le nubi del diluvio, neppure premendo un orecchio al terreno (o si tratta di moquette?) si ode approssimarsi lo scalpitio dei quattro cavalieri fatali. Denis appartiene al simbolismo idillico, elegante, sensualmente decorativo. Ma anche i tenebrosi, satanici, i perversi, qui convenuti, non credono alla fine del mondo. Il personaggio Morte, il demonio, lo spirito maligno, lo scheletro, la strega, lo spettro, così riccamente e variamente rappresentati, sono affascinanti e innocue favole da raccontare la sera a bambini diventati grandi, per dar loro un brivido delizioso. Non hanno la più lontana idea di quello che succederà. Rispetto agli orrori, ai mostri, ai supplizi, alle angosce, all’odio che invaderanno l’arte dopo le guerre mondiali, gli incubi e i diavoli dei simbo listi sono esseri frequentabi li, educati, quasi per bene, che chiedono scusa al pecca tore se devono trascinarlo al l’inferno.
Ma una tenera luce si span de nelle sale. E’ l’alba. Dei, angeli, ninfe, teschi, lemuri, satanassi, si addormentano dolcemente.