di Raffaele Carrieri
[dal “Corriere della Sera”, lunedì 12 gennaio 1970]
Una delle occasioni della mia infanzia era la capellera. Ho avuto l’antipatia pronta fin dalla tenera età. Oltre a odiarla mi faceva paura: una gigantessa piena di denti, di nei, di capelli pettinati su tre piani, l’ultimo dei quali rin forzato da pettini sembrava un castello notturno. Nelle case meridionali la capellera era un personaggio importan te. Le donne a qualsiasi ceto appartenessero erano in gara per la fertilità dei capelli. Più ne avevano e più ne voleva no. Nelle stanze l’odore dei capelli bruciati era nauseante. Sopra la carbonella c’erano in permanenza ferri intrecciati che si scaldavano in attesa della capellera.
La nostra arrivava in un carrozzino color pulce, col mezzo mantice abbassato, ti rato da un cavallo quieto, più piccolo degli altri. Il carroz zino non faceva rumore per ché era l’unico che avesse la gomma sulle ruote: arrivava in silenzio come un’ombra e la capellera scendeva come un’ombra più grande impu gnando la valigetta dello stes so colore del mantice. L’in tero caseggiato attendeva la visita mattiniera. Le donne si disponevano per terrazze e ballatoi coi capelli disciolti sulle spalle, simili per am piezza a mantelli. La capelle ra non poteva pettinarle tut te in una volta; mettevano le chiome in esposizione, più per mostrare la qualità e la lun ghezza dei capelli che per la fretta di essere pettinate.
La mattina andava pren dendo odore dai capelli aper ti simili a piante aromatiche; le chiome più lunghe, disciol te trecce e boccoli e sparec chiate dai pettini che le te nevano insieme nelle compli cate costruzioni, respiravano profumando l’aria che anda va prendendo le esalazioni delle misture. Le donne se devano coi capelli sopra la spalliera delle sedie. Da lon tano queste spalliere ricoper te di chiome facevano la stes sa ombra dei pergolati: oscu ri pergolati d’uva nera; per golati trasparenti dove il co lore dei capelli era dorato co me l’uvetta.
Le giovani, irrequiete, non stavano mai ferme e parlava no dei capelli: i loro dove vano crescere per arrivare al l’altezza del ginocchio, e più giù col peso giusto. Perché non si trattava di averli lun ghi e lucenti come grappoli. Una grande capigliatura non si produce prima dei trenta; anche se il terreno è fertile il capello è un rampicante len to, la sua forza sta nella ra dice che può fare quello che vuole: colore, leggerezza. E anche il buon odore.
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L’arrivo della capellera in una casa si avvertiva fuori e dentro i muri. Le porte si aprivano in un altro modo, il vocìo si ramificava di stanza in stanza come se le don ne fossero trasformate in vo latili. La cerimonia era sem pre la stessa in qualsiasi stan za si svolgesse; i ferri erano tolti dalla brace e assaggiati sulla guancia. La capellera manovrava le arricciatrici pas sandole nelle mani e soffian doci sopra per raffreddarle; le inumidiva con la saliva, le scuoteva con gesti a ripeti zione. Tutto quel che faceva era ben congegnato, il ritmo variava secondo la qualità dei capelli, massa disponibile e costruzione. Era nello stesso tempo tappezziere, pasticciere e giardiniere.
E che parola facile! Parlava al di sopra delle teste con l’abilità con cui muoveva le mani: le parole erano altrettanti pettini e pinze. Le donne non si lasciavano soltanto pettinare: il gioco della pettinatura ne produceva un altro, meno visibile ma in più modi complicato. Togliere le confidenze, certe intimità inconfessabili, le allusioni a questo e quel piacere sfuggente; poi venivano le indisposizioni, i guasti appena accennati negli organismi. La capellera sostituiva medico e confessore in un’intimità gradevole e familiare. Alla capellera si poteva dire tutto con giri di frase, silenzi che duravano meno; e riprese che allontanandosi dal discorso principale lo completavano con piccoli inganni.
Le risposte continuavano in un’altra maniera; più abile in ciò che doveva essere sottinteso, i vicoli morti che conducono attraverso meandri alla stessa porta che sembra chiusa, invece è semplicemente socchiusa, per permettere a quelli che non vogliono essere visti di andare dall’altra parte. Il divertimento di lasciarsi pettinare occultava timori e speranze ma a poco a poco i timori si smagliavano fra le dita della capellera. Le speranze, al contrario, rimosse dal loro stato di incertezza a colpi di pettine, si andavano aggiustando nel verso giusto.
L’olio profumato impiegato dalla capellera era meno insinuante delle sue parole. Come per ogni capigliatura usava olio diverso e un trattamento corrispondente, così coi segreti che queste donne le andavano confidando traeva auspici conciliando rimedi, cure, scongiuri, e ogni altra diavoleria disponibile nel repertorio delle sue virtù taumaturgiche.
La capellera era contraria a farmacisti e dottori, alle me dicine, alle iniezioni, sciroppi e pasticche. Come i giardinie ri con le piante, le bastava dare uno sguardo ai capelli per intendere la natura dei mali, qualunque fossero. Ta stava le teste e sembrava una maestra orba su una tastiera. Sotto ogni capello c’era la ve ra vita delle persone, le loro debolezze e forza, le magagne, l’origine di ciascun male me scolati in una confusione la quale solo a lei era dato esplorare e accomodare.
Talvolta, quando i flussi maligni erano tanti e i polpastrelli incerti nel distinguerli ricorreva al suo orecchio a ventosa che affondava nei capelli come un palombaro nel fondo del mare per rimuovere qualche prezioso rottame. Le teste che meglio pagavano meglio erano rovistate. La gigantessa allora si assottigliava in astuzie senza fine. Non era più soltanto una capellera consumata in ogni arte del pettinare â— coi boccoli poteva far ponti e ogni sorta di pagode e cascate â— ma centro tumultuoso di un sistema di intuizioni: maga, cartomante, cerusica, guaritrice di mali inguaribili.
Per queste pratiche speciali arrivava dopo l’imbrunire col carrozzino chiuso. Nella valigia non c’erano pettini e forcine; al posto dell’olio armeno le boccette contenevano scurissimi intrugli; mazzi di carte con figure capovolte, amuleti, pezzetti di carbone vegetale, noci sbagliate e una quantità di piombi, che, una volta fusi, sgocciolavano nel bacile d’acqua scrivendo una specie di scrittura araba che la capellera decifrava. Non era quella del piombo la sua sola maniera di far scrittura: un capello attorcigliato, cera e cenere, i fondi dei caffè, l’olio sparso nell’acqua erano altrettanti segni per leggere l’invisibile e predire il futuro.
Durante la lettura ogni tanto una delle donne si alzava nascondendosi per piangere.