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ARTE: I MAESTRI: Grandezza di Bramante

29 Gennaio 2011

di Cesare Brandi
[dal “Corriere della Sera”, martedì 15 settembre 1970]

Queste celebrazioni braman ­tesche vengono fatte con una data non impegnativa: nato nel ’44, morto nel 1514, non siamo né a cent’anni né a cinquant’anni e neppure a venticinque dalla nascita, che avrebbe dato il 1969. Ma se lo scarto d’un anno non è gran cosa, rientra tuttavia nel costume italiano del festina lente, e magari schiacciarci un pisolino. Comunque, riportare alla memoria, di un pubblico più vasto, un nome come quel ­lo di Bramante, tonifica sem ­pre, e tanto più in una felice epoca come la nostra, in cui l’arte serve solo se serve di sgabello ai politici, o altri ­menti vada pure a farsi frig ­gere.

Ora, la grandezza di Bra ­mante, che è di prim’ordine, anzi primissimo, anzi supre ­mo, non è tale da colpire a fondo la fantasia della gente, perché insomma San Pietro l’ha poi costruito Michelangiolo e sciupato il Maderno, e le altre opere, sia pure gran ­diose, come il Coro di S. Ma ­ria delle Grazie a Milano, S. Maria presso S. Satiro, e, a Roma, il Chiostro della Pa ­ce e il famosissimo tempietto di S. Pietro in Montorio, non sono tali da dare il brivido a chi architetto non sia, storico d’arte non sia, ma solo un di ­lettante volenteroso.

In che consiste allora que ­sta grandezza di Bramante, in un secolo che fu assai più che secolo dei lumi, anzi dei soli, e tanti in una volta, e tanti tutti insieme, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Giorgione, Tiziano, il Correggio, e cuoce non citare subito i Sangallo, il Botticelli, Seba ­stiano del Piombo, e quanti altri ancora?

Per i più il nome di Bramante impersona, riguardo all’architettura, quell’ideale clas ­sico che sbrigativamente viene a definire il Rinascimento, e, di questo Rinascimento, sa ­rebbe Bramante, in un certo senso l’apice, o per lo meno la conclusione di una traiet ­toria, che incominciava col Brunelleschi. Ma appunto, poi ­ché queste immagini non fal ­sino del tutto la Storia, non si può parlare di apice come se il Brunelleschi potesse essere perfettibile, genio sommo, pie ­tra miliare di ogni e qualsiasi architettura. E’ vero che il classicismo del Brunelleschi fu un classicismo di codice più che di struttura, completamen ­te elaborata, codesta, non desunta, entro l’invenzione dello spazio prospettico.

Ciononostante come classi ­co fu inteso anche ai suoi tempi, il Brunelleschi, pur se sia impossibile scambiare una sua architettura per antica, pur se perfino nel desumere capitelli, cornici e colonne, il Brunelle ­schi ci mise quasi interamente del suo, e non esiste elemento da lui adoprato che possa ri ­trovarsi tal quale nel reperto ­rio greco-romano. L’Alberti, se mai, operò un raddrizza ­mento più deciso verso la pre ­cettistica e gli esempi classici, ma non si esageri questa di ­rezione, solo in apparenza più ortodossa: è pur sempre lo spazio prospettico del Brunelleschi, quello in cui opera l’Al ­berti, e le volte a botte della Cappella dei Pazzi non sono, in tal senso, meno romane di quelle dell’Alberti.

Se allora questa meraviglio ­sa tradizione arriva fino a Bramante, che cosa ci immise e cosa ne levò, per meritarsi il posto che la storia concor ­demente seguita ad attribuir ­gli?

Intanto, come non fu un precursore, non fu un precoce: e scarse notizie biografiche che lo danno ad Urbino, ma non operante come architetto ad Urbino, non rendono con ­to della sua cultura nel primo cruciale periodo della giovinezza. Mediocre pittore di fac ­ciate, come lo si trova a Ber ­gamo e a Milano, di un melozzismo di vena provinciale, fa subito uno scatto incom ­mensurabile quando passa all’architettura. Ma è quasi qua ­rantenne: e la divergenza che subito si rivela fra la sua pit ­tura e la sua architettura, non è per facilitare il compito a chi indaghi una personalità così a lenta maturazione ed invece a subitanea esplosione, come sarà per Bramante a Roma. Arnaldo Bruschi, che ha dedicato il migliore e più ponderoso studio italiano a Bramante architetto (Laterza Bari), ha cominciato a sfatare molti luoghi comuni e a rivedere, con acuto spirito cri ­tico, tutta l’opera di Braman ­te, da quella supposta a quel ­la svolta o appena incomin ­ciata. E’ il più concreto contributo al centenario braman ­tesco, e gli se ne deve essere grati.

Ma insomma l’interrogativo resta, complicato dal fatto che, nell’esplosione romana, esplo ­de il Cinquecento; fino a Ro ­ma è un architetto quattro ­centesco, a Roma, non basta la sua asserita e non provata partecipazione al Palazzo del ­la Cancelleria o a quello Giraud-Torlonia, per presentar ­celo in veste ancora quattro ­centesca. Semmai la trama dei corridoi del Belvedere risente d’un modulo quattrocentesco, ma non l’impianto grandiosissimo del cortile-teatro, con la superba esedra sul fondo. E poi c’è il Tempietto di S. Pietro in Montorio, piccolissimo e grandissimo, in cui pur rimanendo la scala umana di Vitruvio, risulta diversa, ma soprattutto diversa da quelli delle edicole, dei cibori quattrocenteschi. Ora questa diversità non si esplicita osservando la maggiore attenzione portata da Bramante sull’ordine classico: il codice è corretto, come il latino del Bem ­bo sarà più aulico di quello del Petrarca, ma questo tem ­pietto classico, non è classico per nulla. Non è un tempio rotondo a colonne, come quel ­lo della Sibilla a Tivoli o di Vesta al Foro Romano, con sopra una cupola: è cosa che è nata per la prima volta lì, a S. Pietro in Montorio, e che tutto lo studio e le imitazioni che ha suscitato, non sono riusciti a scalfirlo, a indebo ­lirlo, a renderlo antiquato. Non lo renderà antiquato il Bernini né il Borromini né Pietro da Cortona. Il tempo è passato sul tempietto come un’onda di piena, che l’ha la ­sciato (quasi) intatto, e senza fargli perdere questa « centra ­lità » nella storia della cultu ­ra, da renderlo anzi come un omphalos, un ombelico del mondo, o la pietra nera della Kaaba.

Dicendo questo, si impugna il problema della classicità di Bramante, ed è problema deludentissimo, come volere ab ­bracciare un’ombra: si resta senza niente in mano. Eppure qualcosa deve restare, per quanto inafferrabile ed impon ­derabile. E intanto questo: non c’è architettura al mondo che cortesemente ma inflessibil ­mente sia meno a servizio del ­l’osservatore. Non vuole stor ­dirlo, non vuole dilettarlo, o almeno al minimo, come un bicchiere d’acqua quand’uno ha sete, ma non di più. L’im ­magine ci fa fare un altro passo: non toglie nessuna se ­te. Non può essere « consu ­mata ».

Certo, se guardarlo è con ­sumarlo, si consuma anche il Tempietto di S. Pietro in Mon ­torio, ma è metafora inadeguata. In realtà, nella sua indubitabile astanza, nella pienez ­za che suscita, come nella pa ­ce che comunica, c’è, se mai, quel che si prova ascoltando la più astratta, la meno ame ­na delle fughe di Bach, che è un mondo sonoro a sé, sen ­za melodia e senza passioni, perfetto come una figura geo ­metrica, eppure tale da in ­durre quel che un dì si chia ­mava o spirito o anima o co ­scienza, come in una levita ­zione atemporale, che dà un presente in cui non scorre il tempo, in cui non c’è passato né futuro. Una fetta di pre ­sente che dura assai più del ­l’attimo fuggente, perché è un attimo che si è fermato, è un attimo tolto alla temporalità.

Chiunque ascolti Bach, prova, io credo, cosa del genere, per quanto approssimativo sia sempre il tradurlo in un linguaggio.

Orbene, l’architettura di Bramante appartiene alla stes ­sa specie della musica di Bach: non concede nulla all’osserva ­tore, al fruitore come ora si dice, e, pur essendo stata crea ­ta in un tempo determinato, entro una determinata tempe ­rie culturale, né sarebbe pen ­sabile se non nel Rinascimen ­to italiano e nell’ambiente ro ­mano, è fuori del tempo, sta fuori del tempo, come sulla riva della storia. Donde si presenta immutabile, donde la sua eternità. Perché questa è davvero l’eternità classica, riuscire ad imporsi al di là del ­l’uomo, pur attraversando la coscienza dell’uomo, e ridurre il ruolo dell’osservatore a quel ­lo di un nastro magnetico che oda se stesso, e come in pun ­ta di piedi su se stesso.

Certo, nessuna opera d’arte è perfettibile, nessuna si fruisce al di là di se stessa, e, so ­lo se così, è opera d’arte. Ma la classicità, ben al di là di una sua storica formulazione, è questa autosufficienza, que ­sta eliminazione di scorie, que ­sta asemanticità assoluta.

Non significa nulla, il tem ­pietto di Bramante, come non significa nulla una fuga di Bach; se non l’autosufficienza assoluta, e quel potere di svuo ­tare le passioni, di allontana ­re dal presente, e di ridurre così, sedendo e mirando, co ­me all’ultimo residuo di una umanità travagliata; e tutta ­via, in questa sorta di impon ­derabilità, farla sentire felice. ­


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