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STORIA: I MAESTRI: Vittorio Emanuele III

29 Gennaio 2011

di Indro Montanelli
[dal “Corriere della Sera”, 9 novembre 1969]

Dopodomani 11 novembre scade il centenario della na ­scita di Vittorio Emanuele III. E quando si entra nel clima dei centenari, vuol dire che si esce da quello delle polemi ­che. Credo che ormai si pos ­sa cominciare a parlar di lui senza rimpianti, ma anche senza furore. Nonostante l’esi ­guo margine di maggioranza che decise le sorti della mo ­narchia, quello istituzionale cessò di essere un problema il giorno stesso del plebiscito. I nostalgici che presero il lutto non hanno avuto eredi. Si dice che Umberto, parten ­do per Lisbona, mormorasse: » I Re sono come i sogni: o si ricordano subito, o non si ricordano più ». Gl’italiani non li ricordano più.

Fra le immagini che di Vit ­torio Emanuele ci sono rima ­ste nella memoria, ce ne sono per tutti i gusti. Quella del giovane principe che a bordo del pànfilo Yela nei mari di Grecia sbianca, ma non trasale, alla notizia della morte del padre. Quella del buon papà che nel parco di San Rossore conduce a spasso in barroccino la moglie e i figli. Quella del «primo fante d’Ita ­lia » che divide il rancio coi soldati in una trincea del Car ­so. Quella del Comandante supremo che all’indomani di Caporetto assume con digni ­tosa fermezza tutte le responsabilità di fronte ai plenipo ­tenziari alleati. Quella del Re che ringrazia Mussolini di avergli portato « l’Italia di Vittorio Veneto ». Quella del ­l’Imperatore che sembra viep ­più rimpicciolito sotto le in ­segne del suo nuovo e più al ­to rango. Quella del Sovrano che dopo la notte del Gran Consiglio congeda affettuosa ­mente il duce sulla soglia di Villa Savoia scambiando una complice occhiata coi carabi ­nieri che lo aspettano al can ­cello. Quella del fuggiasco di Pescara rannicchiato in fon ­do all’automobile per non far ­si riconoscere dai tedeschi in reflusso su Roma dopo l’armistizio. Quella dell’esiliato che si spegne, distrutto dalla marezza, nella villetta di Alessandria d’Egitto. Queste immagini sono tutte vere. Ma a sceglierne una, quale che sia, si commette un falso.            

*

Era un personaggio plesso, che non si presta a giudizi sommari. Dicono che sul suo carattere influirono in ma ­niera determinante la miseria fisica e la mancanza di affetti. Ma né l’una né l’altra costi ­tuivano eccezione nella sua fa ­miglia. Gli scarti di leva in casa Savoia non si contano. Lo stesso Emanuele Filiberto, che passa per il loro più pit ­toresco e atletico campione, diventò tale solo grazie al bu ­lino degli scultori e al pen ­nello dei pittori. A parte qual ­che eccezione come Vittorio Emanuele II, i Savoia sono stati una dinastia di visipallidi, spesso stortignaccoli e gozzuti. E di affetti ne hanno sempre dati e ricevuti pochi. Insieme alla taccagneria, la diffidenza era la regola anche nei rapporti con le moglie e i figli. Margherita è la donna di Casa Savoia che  abbia avuto un volto, e i Prin ­cipi ne acquistavano  uno solo quando salivano sul trono.

« Si regna uno alla volta » di ­ceva Vittorio Emanuele a chi Gli consigliava d’iniziare Umberto ai compiti di Re, affi ­dandogli qualche responsabi ­lità.

In lui questi caratteri avevano trovato una caricaturale sublimazione. La freddezza con cui trattava il figlio era quella con cui suo padre ave ­va trattato lui, ma forse con qualcosa in più: una specie di astio per la sua prestanza fisica. Se lo disprezzasse veramente, non lo so. Ma si spazientiva quando qualcuno gli parlava della popolarità di cui « il principino » godeva, e la bazza gli tremava co ­me sempre nei momenti di collera. «Già, lui è bello » mormorava.

L’unica cosa in cui diraz ­zava dai suoi avi era la fedeltà coniugale. A parte qual ­che eccezione come Carlo Al- berto, in fatto di amanti i Savoia erano sempre stati corrivi e di bocca buona. Più che belle e brillanti, le vole ­vano docili e che costassero poco, ma le volevano. Vitto ­rio Emanuele non fece mai un torto a sua moglie, e su di lei riversò quel po’ di calore umano di cui era capace. Il suo primo gesto di Re fu il licenziamento in tronco della marchesa Litta, favorita di suo padre, e di tutte le altre dame che affollavano la Cor ­te. Con lui il Quirinale di ­ventò un quaresimale, molto più severo (ci voleva poco, del resto) di quando ci sta ­vano i Papi.

Teneva spasmodicamente al ­l’etichetta perché gli serviva da isolante. Nemmeno il suo aiutante di campo, Puntoni, ha saputo darci nel suo « Dia ­rio » l’immagine di un Vitto ­rio Emanuele confidenziale. Era sempre sulle sue, guar ­dingo e puntigliosamente at ­taccato alle forme e alle pre ­cedenze. Dicono â— e ci cre ­do â— che l’unico scatto di rabbia contro il duce lo ebbe quando questi inventò, per lui e per sé, il grado di Primo Maresciallo dell’Impero. Di tanti più sostanziosi affronti che aveva subito dal regime, questo di trovarsi appaiato nel ­la gerarchia militare a un ex ­caporale gli parve insoppor ­tabile. E i plenipotenziari al ­leati ch’ebbero a che fare con lui al tempo di Brindisi e di Napoli hanno lasciato curiose testimonianze sul cerimoniale di cui egli imponeva l’osser ­vanza pur in quel po’ po’ di bancarotta. Perfino agli ame ­ricani (figuriamoci!) non si stancava di ricordare che lui rappresentava « la più vecchia casa regnante d’Europa ».

Di questa casa aveva un concetto altissimo e quasi re ­ligioso. Come pochi, ne co ­nosceva le vicende, e gli unici uomini di cultura per i quali mostrava un certo apprezza ­mento erano gli specialisti della storia dei Savoia. Fece Conte il padre di Carlo Sfor ­za perché aveva riordinato gli archivi di famiglia. Di tutto il resto â— arte, letteratura, poesia, teatro â— s’infischiava, verso gl’intellettuali ostentava un misto di disprezzo e di diffidenza, e non ne avvicinò mai nessuno che in occasio ­ne di qualche cerimonia. Ma ­ria Josè mi raccontò che un giorno, avendogli chiesto che genere di musica preferiva, egli rispose: « Io di musiche ne conosco due sole: la Mar ­cia Reale e la non-Marcia Reale ». Verdi, Wagner e Bach, per lui, erano non-Marcia Reale.

Questo orgoglio dinastico e lo spregio per tutto ciò che non vi era direttamente con ­nesso, credo che siano stati fra le sue più gravi limitazio ­ni anche in politica. Vittorio Emanuele non si sentiva Re d’Italia. Si sentiva Re di un Piemonte ch’era riuscito ad annettersi l’Italia seguendo la direttiva di Vittorio Amedeo, per il quale la penisola era « un carciofo da mangiarsi fo ­glia a foglia ». L’unico momento in cui mostrò un po’ di gratitudine a Giolitti – che non amava – fu quando questi gli portò su   un vassoio d’argento la Libia. Che fossero sabbie, non importava. Era comunque un Regno di cui i Savoia arricchivano il loro serto. Ma quando Giolitti si dichiarò   contro l’intervento nella prima guerra mondiale, il Re si mise a trescare con Sonnino e Salandra. Voleva la guerra quasi quanto D’Annunzio, perché da buon Savoia ci vedeva l’occasione di arraffare qualche altra foglia di carciofo.

*

Negli italiani non aveva nessuna fiducia. Ad eccezione dei piemontesi, li considerava pessimi soldati, cattivi cittadini, sudditi infidi, gente insomma da tenere sotto sorveglianza. E fu questo il vero motivo per cui non volle firmare lo stato d’assedio al momento della marcia su Roma.   La classe politica con le sue divisioni e rivalità e lotte di potere, non più nobili e non meno dissennate di quelle d’oggi, gliene fornì i più ampi pretesti. Ma sotto la sua resa alle squadre fasciste c’era soprattutto la profonda sfiducia nella democrazia in generale e in quella italiana in particolare. Forse suo padre o suo nonno, in una simile emergenza,   avrebbero preferito ricorrere a uno di quei generali piemontesi che i Savoia si sono sempre tenuti di riserva per far fronte agli imprevisti. E su questo contava Badoglio quando chiese un reggimento di granatieri per disperdere « quella banda di straccioni ». Il Re rifiutò non per scrupolo costituzionale, ma perché quella che voleva realmente disperdere non era la banda di straccioni ma la banda del Parlamento.

Durante il ventennio, i fe ­deli della monarchia ostili al regime dicevano che il Re su ­biva Mussolini senz’amarlo e che non vedeva l’ora di levar ­selo dai piedi. Forse fu così in qualche occasione come quando, all’indomani del Con ­cordato, il duce lo costrinse a rendere visita al Papa. In Casa Savoia c’erano sempre stati due filoni: quello bigot ­to, e quello anticlericale. Vit ­torio Emanuele apparteneva al secondo. Se fosse veramen ­te massone, come si è mormorato, non so. Ma ateo era di sicuro. Negava Dio con la stessa convinzione con cui si considerava Re per grazia di Dio più che per volontà della Nazione, odiava i preti, e del Concordato avrebbe fatto volentieri a meno.

Ma il fascismo gli garbava, e più ancora gli garbava il suo capo. Non fu soltanto per correttezza costituzionale che si rifiutò di rendere visita a Giolitti morente, come suo nonno aveva fatto con Ca ­vour, e suo padre con Lanza, Cairoli e Depretis. Tutti co ­loro che avanzavano critiche al regime ricevevano da lui ri ­sposte taglienti e venivano garbatamente messi alla porta. Dopo la famosa notte del Gran Consiglio, Mussolini aveva buoni motivi di crede ­re che il Re ne avrebbe re ­spinto l’ordine del giorno. Il rapporto che legava Vittorio Emanuele al duce era complesso. Di amicizia non si po ­teva parlare perché il Re non conosceva questo sentimento, che del resto non è da Re. Ma, sia pure corretta da un sottofondo di diffidenza e di invidia, Vittorio Emanuele nutriva una sincera ammira ­zione per l’apparente sicurez ­za di quel domatore di folle, per il suo fiuto politico, per l’ordine da caserma che aveva instaurato in Italia. Ma molto vi contribuiva anche la più totale sfiducia negli uomini dell’antifascismo. Li chiamava « i revenants », i fantasmi; mentre di Mussolini diceva: « Ha una testa grande così ». Il duce non calcolò che Vitto ­rio Emanuele era pur sempre un Re, e Savoia per giunta: ben deciso a pagare gli sbagli propri di tasca altrui.

*

La disfatta della monarchia non fu la disfatta militare, ma il modo con cui l’affrontò. Malgrado tutto, dubitiamo che le sorti dell’istituto si fossero giuocate la notte del 25 lu ­glio. L’8 settembre forse il Re avrebbe potuto ancora riscat ­tarle con un gesto: restando a Roma, assumendo il coman ­do, sia pure platonico, delle truppe, e offrendo la propria persona alla rabbia dei tede ­schi. Non avrebbe salvato nul ­la, d’accordo. Nulla, meno che il proprio onore e quello del la Nazione. Ma i Re ci sono appunto per questo: è l’unico servizio che ormai possono rendere, il solo che può an ­cora giustificare la loro so ­pravvivenza.

Qualcuno dice che fu la co ­dardia a impedirglielo, ma non lo credo: Vittorio Emanuele non era un codardo. A impe ­dirglielo fu il cinismo. Non credeva nei bei gesti perché ad essi era egli stesso insensibile, non ci vedeva che re ­torica e melodramma. Fu que ­sta aridità di cuore, questo disprezzo del sentimento po ­polare (che lui chiamava sentimentalismo »), fu que ­sta mancanza di slancio e di fantasia, che lo persero. E nella scenata al figlio che, avendo capito, gli chiedeva di restare, non c’era amor paterno, ma solo la paura meschina di essere scavalcato da lui.

Eppure, quest’uomo sgrade ­vole, gretto e privo di calore umano suscita in noi più com ­passione che riprovazione. I propri errori e difetti li ha pagati fino all’ultimo centesi ­mo. Il gelo che infondeva ne ­gli altri, lo provava egli stes ­so, e per tutta la vita vi rima ­se immerso. Nonostante gli sforzi dell’iconografia ufficia ­le per accreditarlo come un buon padre di famiglia, un Re borghese di stampo vitto ­riano, non riuscì mai a diven ­tar popolare come lo erano stati suo nonno e suo padre, sebbene molto meno intelli ­genti, colti e rigorosi di lui. E’ stato uno degli uomini più soli e più infelici del mondo: un personaggio patetico, vit ­tima più di se stesso che degli eventi, un Re che aven ­do tutto sacrificato al suo mestiere di Re â— piaceri e affetti â— non seppe tro ­vare un gesto, un atteggia ­mento, una parola da Re nemmeno nella tragedia e, dopo averlo amministrato con tanto zelo e taccagneria, ha liquidato il grande patrimonio morale dei Savoia senza la ­sciarne nel popolo italiano neanche il rimpianto.


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2 Comments

  1. Commento by Mario Salvatore MANCA di VILLAHERMOSA MANCA di VILLAHERMOSA — 30 Aprile 2013 @ 17:35

    Non mi pare che l’autore sia Indro Montanelli.   Era troppo monarchico, per scrivere un articolo del genere.   Ne ho letti altri, che erano esattamente il contrario.

    Mario Salvatore Manca di Villahermosa

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 30 Aprile 2013 @ 19:58

    Confermo l’articolo, a pag 3, a sinistra.

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