ARTE: I MAESTRI: Il Tàccola25 Marzo 2011 di Cesare Brandi Con questo soprannome, quasi burlesco, il Tàccola, Mariano di Iacopo, riemerge dalle carte d’archivio, ed ora sarà più difficile che il cu rioso personaggio, moderata mente accostato a Francesco di Giorgio Martini e a Leo nardo, torni ad essere seppel lito a solo uso di pochi spe cialisti. L’edizione che ha fat to il Polifilo (per cura di J. H. Beck), edizione splendida e meritoria, pone intanto sott’occhio la serie intera dei di segni del Liber tertius de Ingeneis ac edifitiis non usitatis, come dire delle invenzioni e congegni inusitati, conservato a Firenze alla Nazionale, e assai poco noto. Né solo per ché è alla fine rivolto più agli scienziati che ai critici d’arte. Ma non c’è che Leonardo che sia riuscito ad attrarre l’at tenzione sulle sue macchine dell’avvenire, e il povero Tàc cola, anche se precursore a buon diritto con questi suoi ingegnosi ordigni e con lo stu dio delle acque, deve ancora trovare l’esperto esegeta. Che non sarò io, certamen te, ignaro di macchine belli che e di idraulica: ma per i disegni, abbelliti di animali, mostri e anche figure umane, il Tàccola può bene interes sare la storia dell’arte. E, so prattutto, data la rarità dei disegni senesi del primo Quat trocento. Questa rarità rende difficile il giudizio fino a quan to dipenda, il Tàccola, dai suoi contemporanei senesi. Amico di Domenico di Bartolo e del grande Iacopo della Quercia, nei suoi disegni sembra assai più gotico di ambedue, e par ticolarmente più settentriona le. Ciò che non sorprende, del resto, se si pensi che tanto Gentile da Fabriano che il Pisanello transitarono da Siena. Appunto c’è un certo accento veronese nel tratteggio fitto e fumoso: e ora che è venuta in luce una sinopia di Domenico di Bartolo, è assai più chiaro che le direzioni sono diverse. L’abbondanza di pieghe, nella figura di S. Doratea ad esem pio, fa pensare più alla cor rente internazionale, che sfo ciò anche in Niccolò Lamberti a Firenze, in quel moto di rigoticizzazione che seguiterà a riaffiorare in seguito, come la gramigna riscoppia, da appena un virgulto, in un campo di grano. * Ma il Tàccola fu anche scul tore in legno, e qui, sebbene non sia rimasto nulla di quel che scolpì, a varie riprese, nel Coro del Duomo, è facile tro vargli un parallelo, più che con Iacopo della Quercia o il Valdambrino, con Domenico di Niccolò dei Cori, un altro suo contemporaneo, anche lui assai volto verso il Settentrio ne. Ma a questo punto, per una ricostruzione ipotetica del Tàccola scultore, si andrebbe fuori dal seminato, mentre, a parte le bombarde, le barche che navigano contro corrente e altri sfiziosissimi artifici, è in fondo l’uomo che suscita la maggiore curiosità, con questa mescolanza che prefigura la universalità del Rinascimento, senza riuscire a togliere il so spetto di un’attività dilettantesca, in tanti campi: da fare il notaio e il Camarlengo della Sapienza, allo scultore in le gno, al costruttore, all’invento re di professione. Ora, universale, nel senso che la parola ha preso rivolta a Leonardo o a Leon Battista Alberti, il Tàccola non fu di sicuro. Non è stata tentata una ricostruzione della sua cultura, ma non dovette essere molto profonda: il suo latino è pieno di grezzi spropositi, anche se la scrittura è curialesca. Ma il personaggio attira. E intanto le amicizie: Iacopo della Quer cia, il Brunelleschi, Mariano Sozzinis, tutti nomi cospicui. Iacopo della Quercia doveva fargli da padrino alla figlia e non poté perché era a Bolo gna: però delegò un banchiere. E il Brunelleschi, a cui fece vedere i disegni delle sue mac chine, gli dette il consiglio di non mostrarli con tanta facilità; gliele avessero a rubare. C’è tutto il Brunelleschi, come lo conosciamo anche dal suo biografo, in questa ossessione del plagio. Nel manoscritto del Tàccola che è a Monaco, una specie di taccuino, più che un trat tato, si trova infatti la nota esplicita e preziosa. Pippo de Brunelleschis, dopo averlo lo dato come egregio e famoso â— siamo verso il 1430, dunque un’epoca ancora antica per va lutare il riverbero immediato della fama del Brunelleschi â— continua per un bel pezzo a elencare le cattiverie che pos sono commettere i plagiatori: « noli cum multis partecipare inventiones tuas ». A questa ossessione del Bru nelleschi noi dobbiamo intan to tutte le incertezze, che già, lui vivente, accompagnarono l’esecuzione delle sue opere, e l’imperfezione in cui rimasero, più o meno, tutte. Dal S. Lo renzo alla Cupola (come avrà pensato, il Brunelleschi, il bal latoio intorno al tamburo?), dalla Cappella dei Pazzi (co me avrebbe dovuto essere il cornicione?) al S. Spirito. E’ anche vero che per il S. Spi rito si sapeva benissimo come l’aveva pensato il Brunelleschi, e furono gli epigoni a cambiar lo, seppure non senza aspre discussioni. Ma il Brunelleschi era vissuto col perpetuo terro re di venire plagiato, e così consigliava al Tàccola di tene re le sue cose per sé. Forse le tenne troppo per sé, e quando le offerse, ad esem pio, all’imperatore Sigismondo, non sortirono l’effetto dovuto. Il « terzo libro », di cui si par la, è infatti dedicato a Sigi smondo, che i Senesi avevano invitato a Siena, fra un’inco ronazione e l’altra, nel 1432, e ne speravano aiuto contro Fi renze, mentre il Tàccola am biva ad essere invitato al se guito dell’Imperatore, in Un gheria. Nel « terzo libro » è detto con tutta chiarezza, non senza accentuare le capacità idrauliche e memorialistiche, in quel barbaro latino: e na turalmente fa subito venire in mente la lettera che Leonardo manderà a Lodovico il Moro, quarant’anni dopo, in cui elenca, in una superba confessione, tutte le sue innumerevoli abi lità. Questo parallelo, dunque, con Leonardo si estende anche al modo di procacciarsi una brillante carriera presso i po tenti. Leonardo tuttavia fu più fortunato del Tàccola. Sigi smondo non lo prese con sé, e il Tàccola restò a Siena, ma non come un poverello. * Una denuncia dei beni del 1453 ce lo mostra con una se rie di vigne e di terre da cui traeva notevole rendita: certo, dice che è vecchio, infermo e non ha nessun guadagno, e che per di più, come friere di Santo Jacomo è tenuto a ricevere i frieri dell’Ordine in ca sa sua e aiutarli e difenderli, ma insomma non stava tanto male e perfino, con una certa imprudenza per la tassazione a cui verrebbe portato da quel la denuncia dei beni, riconosce che riceve una provvisione vi talizia dal Comune di Siena: « e so’ stato ben pagato ». Ma in questa denuncia, scritta in italiano, c’è anche qualche bel la parola senese, come quando dice della casa di un suo po dere che fu « afocato », come dire che aveva subito un in cendio, ed è parola bellissima e sonante come uno zecchino. Ma se, in fondo, si chieda chi alla fine fosse il Tàccola, basterà intanto ricordare che Francesco di Giorgio tenne le sue invenzioni in grande stima e talora le copiò o ne trasse ispirazione. E non sembri po co. Francesco di Giorgio non era un coetaneo, apparteneva alla generazione seguente, era già l’uomo del Rinascimento pittore, scultore, architetto, e, se non pittore grandissimo, grandissimo scultore e architetto. A un esperto come lui, in balistica, oltre che in archi tettura vera e propria, non do veva essere facile dare udien za ad un uomo ancora legato al secolo precedente. Mi sem bra il migliore giudizio sulle qualità scientifiche, per il tempo, del Tàccola; né il Brunelleschi risulta giudice facile o benevolo, dalla storia, anzi crudo e spiccio. A poco a poco anche il Tàccola risalirà dal limbo e andrà a finire al Mu seo della Scienza. Ma questi suoi disegni sono amabilissimi, né mancano motivi paesistici, e certe bestiole, buone per antifonari e per le gargolle del coro. Ma soprattutto l’immagine di Sigismondo ti avvince: ad uno sguardo frettoloso, l’Imperato re (che in questo caso asso miglia come una goccia d’ac qua agli uomini famosi di Taddeo di Bartolo nell’atrio della Cappella del Palazzo pubblico di Siena) sembra che pesti la coda ad un barboncino. Altro che barboncino: è un leone. E’ il leone del Mar zocco fiorentino, che egli tiene a freno col suo piede ferrato, mentre dall’alto Gesù Cristo si raccomanda che gli difenda le sue pecorelle, i senesi, cioè. E non ne seguì nulla. Perché Sigismondo, con la sua corte, stette, mangiò, bevve e nulla dette. Proprio come nelle no velle che si raccontano ai bambini. Letto 2733 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||