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ARTE: I MAESTRI: Il Tàccola

25 Marzo 2011

di Cesare Brandi
[Dal “Corriere della Sera”, lunedì 5 gennaio 1970]

Con questo soprannome, quasi burlesco, il Tàccola, Mariano di Iacopo,  riemerge dalle carte d’archivio, ed ora sarà più difficile che il cu ­rioso personaggio, moderata ­mente accostato a Francesco di Giorgio Martini e a Leo ­nardo, torni ad essere seppel ­lito a solo uso di pochi spe ­cialisti. L’edizione che ha fat ­to il Polifilo (per cura di J. H. Beck), edizione splendida e meritoria, pone intanto sott’occhio la serie intera dei di ­segni del Liber tertius de Ingeneis ac edifitiis non usitatis, come dire delle invenzioni e congegni inusitati, conservato a Firenze alla Nazionale, e assai poco noto. Né solo per ­ché è alla fine rivolto più agli scienziati che ai critici d’arte. Ma non c’è che Leonardo che sia riuscito ad attrarre l’at ­tenzione sulle sue macchine dell’avvenire, e il povero Tàc ­cola, anche se precursore a buon diritto con questi suoi ingegnosi ordigni e con lo stu ­dio delle acque, deve ancora trovare l’esperto esegeta.

Che non sarò io, certamen ­te, ignaro di macchine belli ­che e di idraulica: ma per i disegni, abbelliti di animali, mostri e anche figure umane, il Tàccola può bene interes ­sare la storia dell’arte. E, so ­prattutto, data la rarità dei disegni senesi del primo Quat ­trocento. Questa rarità rende difficile il giudizio fino a quan ­to dipenda, il Tàccola, dai suoi contemporanei senesi. Amico di Domenico di Bartolo e del grande Iacopo della Quercia, nei suoi disegni sembra assai più gotico di ambedue, e par ­ticolarmente più settentriona ­le. Ciò che non sorprende, del resto, se si pensi che tanto Gentile da Fabriano che il Pisanello transitarono da Siena. Appunto c’è un certo accento veronese nel tratteggio fitto e fumoso: e ora che è venuta in luce una sinopia di Domenico di Bartolo, è assai più chiaro che le direzioni sono diverse. L’abbondanza di pieghe, nella figura di S. Doratea ad esem ­pio, fa pensare più alla cor ­rente internazionale, che sfo ­ciò anche in Niccolò Lamberti a Firenze, in quel moto di rigoticizzazione che seguiterà a riaffiorare in seguito, come la gramigna riscoppia, da appena un virgulto, in un campo di grano.

*

Ma il Tàccola fu anche scul ­tore in legno, e qui, sebbene non sia rimasto nulla di quel che scolpì, a varie riprese, nel Coro del Duomo, è facile tro ­vargli un parallelo, più che con Iacopo della Quercia o il Valdambrino, con Domenico di Niccolò dei Cori, un altro suo contemporaneo, anche lui assai volto verso il Settentrio ­ne. Ma a questo punto, per una ricostruzione ipotetica del Tàccola scultore, si andrebbe fuori dal seminato, mentre, a parte le bombarde, le barche che navigano contro corrente e altri sfiziosissimi artifici, è in fondo l’uomo che suscita la maggiore curiosità, con questa mescolanza che prefigura la universalità del Rinascimento, senza riuscire a togliere il so ­spetto di un’attività dilettantesca, in tanti campi: da fare il notaio e il Camarlengo della Sapienza, allo scultore in le ­gno, al costruttore, all’invento ­re di professione.

Ora, universale, nel senso che la parola ha preso rivolta a Leonardo o a Leon Battista Alberti, il Tàccola non fu di sicuro. Non è stata tentata una ricostruzione della sua cultura, ma non dovette essere molto profonda: il suo latino è pieno di grezzi spropositi, anche se la scrittura è curialesca. Ma il personaggio attira. E intanto le amicizie: Iacopo della Quer ­cia, il Brunelleschi, Mariano Sozzinis, tutti nomi cospicui. Iacopo della Quercia doveva fargli da padrino alla figlia e non poté perché era a Bolo ­gna: però delegò un banchiere. E il Brunelleschi, a cui fece vedere i disegni delle sue mac ­chine, gli dette il consiglio di non mostrarli con tanta facilità; gliele avessero a rubare.

C’è tutto il Brunelleschi, come lo conosciamo anche dal suo biografo, in questa ossessione del plagio.

Nel manoscritto del Tàccola che è a Monaco, una specie di taccuino, più che un trat ­tato, si trova infatti la nota esplicita e preziosa. Pippo de Brunelleschis, dopo averlo lo ­dato come egregio e famoso â— siamo verso il 1430, dunque un’epoca ancora antica per va ­lutare il riverbero immediato della fama del Brunelleschi â— continua per un bel pezzo a elencare le cattiverie che pos ­sono commettere i plagiatori: « noli cum multis partecipare inventiones tuas ».

A questa ossessione del Bru ­nelleschi noi dobbiamo intan ­to tutte le incertezze, che già, lui vivente, accompagnarono l’esecuzione delle sue opere, e l’imperfezione in cui rimasero, più o meno, tutte. Dal S. Lo ­renzo alla Cupola (come avrà pensato, il Brunelleschi, il bal ­latoio intorno al tamburo?), dalla Cappella dei Pazzi (co ­me avrebbe dovuto essere il cornicione?) al S. Spirito. E’ anche vero che per il S. Spi ­rito si sapeva benissimo come l’aveva pensato il Brunelleschi, e furono gli epigoni a cambiar ­lo, seppure non senza aspre discussioni. Ma il Brunelleschi era vissuto col perpetuo terro ­re di venire plagiato, e così consigliava al Tàccola di tene ­re le sue cose per sé.

Forse le tenne troppo per sé, e quando le offerse, ad esem ­pio, all’imperatore Sigismondo, non sortirono l’effetto dovuto. Il « terzo libro », di cui si par ­la, è infatti dedicato a Sigi ­smondo, che i Senesi avevano invitato a Siena, fra un’inco ­ronazione e l’altra, nel 1432, e ne speravano aiuto contro Fi ­renze, mentre il Tàccola am ­biva ad essere invitato al se ­guito dell’Imperatore, in Un ­gheria. Nel « terzo libro » è detto con tutta chiarezza, non senza accentuare le capacità idrauliche e memorialistiche, in quel barbaro latino: e na ­turalmente fa subito venire in mente la lettera che Leonardo manderà a Lodovico il Moro, quarant’anni dopo, in cui elenca, in una superba confessione, tutte le sue innumerevoli abi ­lità.

Questo parallelo, dunque, con Leonardo si estende anche al modo di procacciarsi una brillante carriera presso i po ­tenti. Leonardo tuttavia fu più fortunato del Tàccola. Sigi ­smondo non lo prese con sé, e il Tàccola restò a Siena, ma non come un poverello.

*

Una denuncia dei beni del 1453 ce lo mostra con una se ­rie di vigne e di terre da cui traeva notevole rendita: certo, dice che è vecchio, infermo e non ha nessun guadagno, e che per di più, come friere di Santo Jacomo è tenuto a ricevere i frieri dell’Ordine in ca ­sa sua e aiutarli e difenderli, ma insomma non stava tanto male e perfino, con una certa imprudenza per la tassazione a cui verrebbe portato da quel ­la denuncia dei beni, riconosce che riceve una provvisione vi ­talizia dal Comune di Siena: « e so’ stato ben pagato ». Ma in questa denuncia, scritta in italiano, c’è anche qualche bel ­la parola senese, come quando dice della casa di un suo po ­dere che fu « afocato », come dire che aveva subito un in ­cendio, ed è parola bellissima e sonante come uno zecchino.

Ma se, in fondo, si chieda chi alla fine fosse il Tàccola, basterà intanto ricordare che Francesco di Giorgio tenne le sue invenzioni in grande stima e talora le copiò o ne trasse ispirazione. E non sembri po ­co. Francesco di Giorgio non era un coetaneo, apparteneva alla generazione seguente, era già l’uomo del Rinascimento pittore, scultore, architetto, e, se non pittore grandissimo, grandissimo scultore e architetto. A un esperto come lui, in balistica, oltre che in archi ­tettura vera e propria, non do ­veva essere facile dare udien ­za ad un uomo ancora legato al secolo precedente. Mi sem ­bra il migliore giudizio sulle qualità scientifiche, per il tempo, del Tàccola; né il Brunelleschi risulta giudice facile o benevolo, dalla storia, anzi crudo e spiccio. A poco a poco anche il Tàccola risalirà dal limbo e andrà a finire al Mu ­seo della Scienza.

Ma questi suoi disegni sono amabilissimi, né mancano motivi paesistici, e certe bestiole, buone per antifonari e per le gargolle del coro. Ma soprattutto l’immagine di Sigismondo ti avvince: ad uno sguardo frettoloso, l’Imperato ­re (che in questo caso asso ­miglia come una goccia d’ac ­qua agli uomini famosi di Taddeo di Bartolo nell’atrio della Cappella del Palazzo pubblico di Siena) sembra che pesti la coda ad un barboncino. Altro che barboncino: è un leone. E’ il leone del Mar ­zocco fiorentino, che egli tiene a freno col suo piede ferrato, mentre dall’alto Gesù Cristo si raccomanda che gli difenda le sue pecorelle, i senesi, cioè. E non ne seguì nulla. Perché Sigismondo, con la sua corte, stette, mangiò, bevve e nulla dette. Proprio come nelle no ­velle che si raccontano ai bambini.


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