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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Cilento, Antonella

7 Novembre 2007

Neronapoletano

“Neronapoletano”

Guanda, pagg. 176. Euro 13,50

La Cilento è una giovane scrittrice, classe 1970, che ha al suo attivo tre opere di narrativa, prima di questo romanzo: “Il cielo capovolto” del 2000, “Una lunga notte” del 2002, “Non è il Paradiso” del 2003. Del 2004 è “Neronapoletano”.

Elide Sorano, la protagonista, così si descrive a sei anni: “ero un piccolo mostro occhialuto, frangetta nera e corta, codini con l’elastico colorato. Mi raccontavo favole anche da sola, quando ero malata.” La sua passione è sempre stata la lettura, qualunque cosa: romanzi, fumetti, riviste.

La sua fantasia, ora che è adulta, è ancora impregnata di quelle letture, e specialmente delle fiabe, di cui è sempre stata ghiotta. Leggeva quelle che Giambattista Basile ha immortalato nel suo “Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille” (postumo, 1634-36) e restava impressionata dalle illustrazioni cupe, paurose, che ne faceva il disegnatore Adelchi Galloni. In particolare le piaceva la fiaba intitolata “Pinto Smalto” (narrata da Meneca nel Trattenimento terzo della giornata quinta), in cui la protagonista Betta decide di fabbricarsi da sé il marito, impastandolo con le proprie mani. Oggi che è adulta, passando per le strade più popolari di Napoli, molte volte le tornano alla mente quelle storie e quelle tetre figure, e ancora la spaventano. La scrittura della Cilento, limpida, porta dentro di sé, in questo avvio, il canto di quelle fiabe. Il loro ricordo aiuta la protagonista a superare il panico che la prende ogni volta che cammina “per le strade sporche e tristi della mia città.” Sceglie, così, di percorrere una sua via di fuga: “Continuavo, per reazione, a comprare albi a fumetti e a leggere libri”. La fantasia e il sogno diventano l’altrove in cui riesce a ritrovarsi e a dimenticare: “Portavo qualcosa da leggere con me ovunque andassi, come se i libri fossero porte d’accesso a realtà più gradite di quella in cui vivevo, da aprirsi all’occorrenza, in qualsiasi momento.” Ma si può fuggire, chiudere gli occhi, per tutta la vita? La Cilento affronta questo difficile tema e non vi è dubbio che come la Betta della fiaba si era costruita Pinto Smalto, il “bamboccio fatto di dolci e preziosi”, anche lei vorrebbe costruirsela da sé, impastandola con le proprie mani, la sua Napoli, la sua realtà. Ma è possibile? Vediamo. Tutto ha inizio quando, nel corso di un ingorgo del traffico, lei in auto presa dal panico, scorge tra i passanti Domenico Serao, un artista sui quarant’anni, “Un attore di giro, che aveva avuto fortuna nei teatri d’avanguardia”, che mette in scena “adattamenti dai poeti dialettali del Seicento, come Giulio Cesare Cortese, e dalla commedia dell’arte meridionale”. Le sembra di averlo già visto, e una tale sensazione le suggerisce che “A passeggio per Napoli si ha spesso l’impressione di veder camminare dei quadri.” Già da bambina era una attenta osservatrice ed ora è più che certa che talune figure, taluni scenari che si osservano in Napoli sono rimasti gli stessi che s’incontrano nelle pitture composte “dal Sammartino o da Luca Giordano.” E ancora: “Sotto il fard, il make-up, i piercing, si nascondono facce livide, occhi disperati per antica fame, gesti popolari che l’educazione non cancella, oppure, delicatezze nobiliari che la rapidità dei nuovi tempi non modifica, anche se un po’ avvilisce.”

Così può accadere che “in visita ai musei, amici e conoscenti mi sorridessero dalle cornici”. La protagonista è impiegata presso i Beni Culturali di Napoli e sono quotidiani, quindi, i suoi contatti con le opere di pittori che hanno fermato via via nel tempo i tratti della sua città: “non ero più padrona di guardare Gherardo delle Notti, Simone Vouet, l’Orbetto, il De Matteis, il Tomer o il Beinaschi, perché era tutto un ritrovare gente nota: mi salutavano dalle cornici, chi nudo, chi torturato o in preghiera, vergognosamente ammiccanti, annoiati, sfacciati.” Ed ecco quindi, una prima risposta a quella sua ansia di fuggire dalla realtà presente: “Ma fino a quel pomeriggio, fino alla comparsa di Domenico Serao, mai mi era capitato di pensare che queste figure potessero avere davvero a che fare con la mia vita, che, insomma, anch’io rientrassi nel disegno del Tempo.” Dunque, non si può fuggire: siamo parte integrante della realtà, poiché siamo dentro “il disegno del Tempo.”

Le accade di entrare in una chiesa e di notare un quadro che aveva cercato da molto tempo. Il prete che la sta accompagnando all’uscita è evasivo. Le dice solo che quella chiesa si chiama Santa Maria di Medinaceli. La curiosità e il sospetto la inchiodano ancora di più alla realtà, dalla quale ad ogni modo riesce ad estrarre solo visioni e forme terrificanti: “Una buca delle lettere nuova e gialla, di quelle alte non più di un metro da terra, somigliava allora a un bambino, faccia al muro, le braccia conserte, coperto da un impermeabile giallo e scosso dal pianto. Un’ombra di pianta nella tromba delle scale nascondeva artigli di gatto. Una macchia nell’occhio racchiudeva mostri di pelosa natura.”

Il quadro intravisto nella chiesa è “il Cristo del Solimena”, trafugato a Maria Attias, proprietaria di un “importantissimo Fondo Vichiano”, che era stato saccheggiato di altri tesori.

La Cilento attraverso questo ritrovamento comincia a dare alla tessitura del suo romanzo una fitta rete di trame di una Napoli percorsa in lungo e in largo non tanto nei colori di una modernità frenetica e assillante, quanto in quelli più suggestivi e fermi di un mondo radicato nel passato dal quale provengono suoni e richiami quando cupi e tenebrosi quando barocchi (perfino la sua amica Veneranda, chiamata Venny, ha la passione per la musica barocca). La professione di Elide, tutta tesa al mondo dell’arte e soprattutto della pittura, aiuta a costruire una Napoli fascinosa avvolta nella sua storia secolare. Il Seicento e il Settecento percorrono le sue strade come non fossero mai trascorsi gli anni e tutto si fosse mescolato con l’oggi, al punto che uno sguardo attento e perspicace, sensibile, può ancora riuscire – secondo la visione dell’autrice – a decifrarli. La Napoli spagnoleggiante si appropria, così, a poco a poco della scena e avvolge con il suo affascinante mantello i personaggi di questa storia, i cui nomi la richiamano intensamente.

La protagonista riceve misteriosi messaggi in e-mail che la invitano a ricordare Luis Francisco de La Cerda duca di Medinaceli, vissuto a cavallo tra Seicento e Settecento e “Viceré di Napoli dal 1695 al 1702” (si deve ricordare che la chiesa dove il quadro è stato ritrovato si chiama Santa Maria di Medinaceli). I messaggi sono inviati da Arturo Perez de Roca, uno scultore napoletano con “ben trent’anni di attività alle spalle” che inaugura in quei giorni una sua personale “al Castel dell’Ovo”. Elide vi si reca e quando vede il suo ritratto, ancora una volta, come era già accaduto con Domenico Serao, ha la sensazione di averlo già conosciuto. Riesce ad avere il suo indirizzo e scopre che egli abita “proprio nello stesso palazzo del mio vecchio zio.”, ora defunto. Dunque, quello sguardo trasognato che rinveniva nei volti dei passanti le tracce di un’età trascorsa, ora è assillato da misteriosi fantasmi che sembrano provenire da lontano, come se restassero non solo i monumenti di una Napoli di altri tempi, ma anche, mescolate tra la gente, le stesse persone del passato, pronte a manifestarsi e a interagire come fossero vive. È una Napoli esoterica, anche, perciò, in cui non si ha mai la sensazione di toccare un corpo vero, pure se esso sta lì davanti a noi in carne e ossa. Quando Elide incontra Perez, scorge, tra le sue scartoffie, un altro dei tesori trafugati all’anziana signorina Maria Attias: è un quadernetto del Vico. C’è nascosta una foto dove Serao e Perez, più giovani, sono ritratti insieme davanti alla chiesa di Santa Maria di Medinaceli. Non vi è dubbio che la Cilento sta costruendo una atmosfera simile a quella che si respira ne “Il segno del comando”, il celebre sceneggiato televisivo che andò in onda nel 1971 per la regia di Daniele D’Anza, e che lanciò gli attori Ugo Pagliai (che interpretava la parte di un professore inglese di origine italiana che aveva lo stesso nome dello scrittore Edward Forster) e Carla Gravina (nella parte di Lucia, la modella del pittore Tagliaferri), ma anche un’atmosfera da “Il club Dumas”, il romanzo dello scrittore colombiano Arturo Pérez-Reverte, uscito nel 1993, portato magistralmente sullo schermo da Roman Polanski con il titolo “La nona porta”, del 1999.

La Napoli che ha sottomano è quella in cui il “popolo quasi mai ha il coraggio delle proprie azioni.”, così che ne ripercorre gli ultimi due secoli attraverso la lettura della traduzione dal latino di quel quadernetto di Vico, fatta nel 1971 con il titolo: “La congiura dei principi napoletani nel 1701.” È la congiura che viene ordita per assassinare il Viceré Luis de La Cerda, duca di Medinaceli, nipote nientemeno che di Luigi XIV, il Re Sole, che abbiamo già incontrato, e che fallisce nel sangue. Medinaceli (“il più ricco dei suoi tempi, non solo in Spagna, non solo in Italia.), tuttavia, poiché si era mostrato incapace e tirannico, viene da Filippo V rimosso e designato al governatorato delle Indie, e infine morirà in prigione.

Elide continua ad incontrare persone che crede di avere già conosciuto. È la volta di un ragazzo, Lucio, che sta provando in una commedia diretta da Domenico Serao. Si tratta dell’adattamento della fiaba di Betta e Pinto Smalto che l’aveva deliziata da bambina. La parte di Pinto Smalto è affidata proprio a quel ragazzo, ed è lui la persona che Elide crede di aver già conosciuto. Non è improprio paragonare tutti questi personaggi in certo qual modo a quelli di Pirandello che vanno in cerca di una loro reincarnazione e definizione: “quel ragazzo, come il prete della chiesa di Medinaceli, come Perez e Serao, mi era più che familiare.” Quando in Calabria, a Gerace, si trovano le tracce di un altro oggetto trafugato alla Attias, ossia l’ostensorio appartenuto a Tommaso Campanella, di nuovo ci troviamo tuffati nell’atmosfera seicentesca, allorché superstizioni e magie dominavano le azioni degli uomini. Una presunta discendente del filosofo possiede perfino il dito mignolo del suo antenato con il quale prevede il futuro: “Quello che nell’unghia teneva lu demone de casa, ca lu faceva vedere lu futuro, ca lu salvò dalla prigione, e ca lu fece addiventare ricco! Io l’aggio avuto in eredità. Dalla Franza, da Parigi, niente di meno, lo portarono indietro!” Campanella morì a Parigi, infatti, il 21 maggio 1639 nel convento domenicano di Rue Saint-Honoré.

Allorché ad Elide viene consigliato da Perez di leggere gli “Atti di famiglia di Don Luis Francisco de La Cerda”, nei quali avrebbe trovato qualche risposta alle cose misteriose che le stanno accadendo, ci viene in mente il romanzo “Il quinto evangelio” di Mario Pomilio, del 1975, in cui il protagonista si avventura in una ricerca simile e l’autore cerca di rendere nei documenti consultati il linguaggio del tempo.

Negli Atti di famiglia redatti dal Viceré di Napoli troviamo un po’ la storia della città in quegli anni, ed in particolare risaltano il ricordo di Giovambattista Vico e di Tommaso Campanella. È il Viceré che regala a Vico l’ostensorio d’avorio appartenuto a Campanella, nel quale Vico rinviene la reliquia del dito mignolo ora in mano della donna di Gerace. Il documento parla anche della edificazione della chiesa di Santa Maria di Medinaceli voluta dal Viceré e disegnata da Augusto Molina, il quale è anche l’autore dell’angelo che ha colpito per la sua bellezza Elide e che ha una stretta somiglianza con il giovane attore Lucio (Cìo), di cui la protagonista si è innamorata. Il modello fu, a quel tempo, un ragazzo chiamato Mosca, o anche Muschino (il suo vero nome è Tommaso Rescigno), di cui il Viceré si invaghisce a causa della sua bellezza: “Erano secoli che non incontravo un incarnato così delicato, un viso così dolce, occhi lunghi come di donna, ma barba d’uomo!”

Nel diario il Vicerè fa anche menzione del Basile e della sua fiaba in cui si narra di Betta e di Pinto Smalto. Gli Atti, in cui sembra che sia già stata scritta la storia che sta vivendo la protagonista, contribuiscono a rafforzare quell’atmosfera barocca ed esoterica evocata dalla scrittura della Cilento. La costruzione della chiesa di Santa Maria di Medinaceli e la visita all’altra chiesa dove è conservato il teschio di Santa Lucia – la Chiesa del Purgatorio ad Arco – ricolma di scheletri umani, dànno un riverbero ancora più cupo alla narrazione. Vi entrano con molti dettagli i fatti relativi alla congiura del 1701 che i nobili napoletani tramano contro il Viceré, il quale riuscirà a sventarla grazie alla scoperta che ne fa un popolano, certo Nicola Nicodemo: “Mi sento meglio ora che le navi sparano sulla città: con che tracotanza i rivoltosi hanno cercato di infilare la bandiera asburgica sulla torre di Santa Chiara! La Vicaria è piena di arrestati, da domani non voglio vedere che Forche sulle piazze di Napoli!” Anche il Molina sarà fatto giustiziare, facendo parte della congiura.

La Cilento si avvia, dunque, ora, a collegare il passato con il presente, quei volti di ieri con i volti di oggi. Anche il prete ha qualcosa dell’antico, il cognome. Si chiama infatti Rescigno, come il giovane Muschino, amato dal Viceré, con il quale, già lo sappiamo, ha più di una somiglianza il giovane attore Lucio. Ultimata la tessitura, l’autrice ci fa capire che ora è tempo di dare di essa la lettura conseguente, dopo che abbiamo gustato una città che profuma dei suoi umori più sanguigni e sotterranei, e una parola che ha la coloritura di una tenebra che tutto avvolge nel mistero e nella superstizione, e dove paure e sentimenti vengono tenuti celati finché esplodono al pari delle sommosse e delle rivoluzioni.

Così accade alla protagonista, che mentre tenta di riaffiorare in superficie da una immersione nel vasto universo delle sensazioni e dei misteri, ecco che riceve una rivelazione che pare definitiva. Cìo, addormentato nella sua camera, la chiama con il nome di Mariuccia, la donna che era stata l’amante nientemeno che di Muschino, e anche la donna che aveva salvato il Viceré dalla congiura. Siamo in presenza di una reincarnazione? Che cosa è, dunque, la realtà, se vi si trovano mescolate ed indistricabili cose, vite e azioni del passato? Non solo, quindi, la realtà non la si fugge, ma essa si fa somma di tutte le realtà che l’hanno preceduta.

E mai possibile che Elide sia davvero Mariuccia Capasso, la moglie adultera del cocchiere del Viceré, quel Vincenzo Capasso che ha tanta rassomiglianza con il burbero Domenico Serao, regista e attore nella stessa compagnia di Cìo?

Imbrigliata e stordita dalla realtà, non le resta che prendere atto e credere in ciò che appare così evidente. Scopre, così, che anche lo scultore Perez ha a che fare con quel tempo. Al museo di Capodimonte, inoltre, c’è un quadro dipinto da un anonimo nel 1698 che raffigura quel barone Giuseppe Capece che ebbe parte nella congiura e che fu fatto giustiziare dal Viceré. Elide ne resta colpita perché è il ritratto spiccicato di padre Rescigno. Si rende conto, infine, che non solo lei ha fatto la scoperta di una esistenza che l’ha preceduta, ma anche gli altri: “adesso la situazione mi sembra chiara. Non so come mai voi sappiate chi siete stati, ma è indubbio che lo sappiate. Io, prima di incontrarvi, non avevo idea di chi fossi stata.” Li chiama con il nome che ebbero al tempo della congiura. Sospetta che vogliano ucciderla, poiché lei, quand’era Mariuccia, salvando il Viceré, aveva fatto fallire la congiura. Erano occorsi più di due secoli, dunque, perché si ricomponesse la stessa scena di allora. Essa non solo si ricompone, infatti, ma torna a ripetersi, e sarà a questo punto che la protagonista farà una scoperta importante grazie alla quale capirà di non essere né Elide e nemmeno Mariuccia.

La Cilento, così, con una sadica perfidia, compone e ci mette innanzi un aggrovigliato mosaico raccogliendo dal passato le pietruzze che lo avevano colorato dell’intrigo seicentesco, e ricollocandole in una Napoli moderna, gravida dei suoi problemi, nella quale i segni del passato restano racchiusi e confermati negli uomini e nelle cose, affinché l’incontro di alcune tessere di quel mosaico possa bastare e tutto improvvisamente ritorni e si ripeta, secondo il ciclo dei corsi e dei ricorsi vichiano.

Il romanzo ricava, infine, questa lezione dalla storia, e riguarda il popolo napoletano, partendo proprio da quel: “chi gabba non si doglia s’è gabbato” del Vico: ossia “che la colpa dei napoletani è di essere eredi dei propri dominatori, schiavi di un assedio che ormai si è fatto biologia e che spinge ognuno a lamentare chi governa e non chi è governato, che deve a qualsiasi oppressione guerra e a qualsiasi rivoluzione diffidenza. Colpa del sangue francese, spagnolo, austriaco che, ormai mescolato, rende i napoletani nemici di se stessi, allegri in apparenza, rabbiosi in realtà.”

È vera questa conclusione? Se ne potrebbe discutere, mi pare, mettendo la Cilento nel novero di quei narratori napoletani che, attraverso le loro storie, cercano anche di darci una radiografia ed una interpretazione della loro amata città.


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