LETTERATURA: Chiama il tre
16 Ottobre 2007
di Marino Magliani
[Gli ultimi libri pubblicati da Marino Magliani: “Quattro giorni per non morire”, Sironi, 2006, “Il collezionista di tempo”, Sironi, 2007]
Le carte erano accanto alla macchina del caffé, il vapore le danneggiava, poi seccavano e quando le mischiavi, quel sentire la contorsione rigida e malata della carta ti dava un senso di nausea.
Le carte devono stare in un posto asciutto, si lamentava un vecchio.
Quando chiusero l’osteria del rettilineo e andammo a giocare all’altro bar sul ponte, le carte stavano sulla mensolina di marmo della finestra e prendevano l’umidità degli spifferi. Le carte devono stare in un posto asciutto, diceva il vecchio.
Accanto al mazzo, ce n’era un altro, erano da scala 40, stroppicciate e scarabocchiate da qualche bambino. Di carte da scala 40 ne davamo dieci per uno e servivano da fiches. Non avevano un valore, nel senso che chi perdeva non pagava nemmeno da bere, peró alla fine quando ci si alzava si contavano le fiches e chi aveva vinto era come se fosse un po’ più furbo degli altri.
Il paese in quegli anni non superava le centocinquanta anime, due negozi, un ufficio postale, un bar e non più dieci giocatori di carte. Rigorosamente, dall’una alle due e mezza pomeridiane, anche i giorni festivi, si formavano uno o due tavoli. Bastava poi che quel giorno per un motivo qualsiasi  mancassero tre giocatori, e allora più di un tavolo non si allestiva. Il più delle volte comunque s’era sempre tutti e dieci presenti all’adunata, e questo comportava che due dei dieci restassero al palo.
Bisognava mangiare in fretta, addentare una mela per strada, sciaquarsi veloci i denti alla fontana, per arrivare in tempo al tavolo. Ma poi anche chi era costretto a far da spettatore poteva sempre sperare in una lite dei giocatori, una cosa assai comune, e grida che le sentivano dal paese vicino. Neanche i turisti ci facevano più caso. Nel chiama il tre si passa agli insulti per un nonnulla, una bussata sbagliata, una carta scordata, e non di rado la cosa degenerava a tal punto che un giocatore ci piantava lÃÂ. Allora subentrava il quinto, oppure se c’erano i due tavoli, il nono. Chi subentrava, se le fiches di cui veniva in possesso erano sotto le dieci unità , lo metteva subito in chiaro, e a volte si decideva persino di ridistribuire le fiches.
Non si barava. Peró si giocava falso, si poteva pertanto avere una sola carta di una merce e bussarci, ingannando l’avversario, ma anche il collega.
Le regole del chiama il tre (nel paese accanto giocavano con alcune varianti e diciture diverse) erano come quelle del tre sette. Il tre comandava, poi veniva il due, detta verdina, poi l’ asso, il re e cosÃÂ via fino al quattro. I punti erano 11, 20, e per vincere, una coppia doveva realizzarne 6, lasciando agli avversari i restanti 5, 20. Vincere gli undici punti era cappotto e veniva pagato doppio. Ogni carta vestita e ogni due (verdina) e ogni tre facevano un 0,10, con tre 0,10 si faceva il punto. L’asso da solo valeva un punto. L’ultima mano da sola, a parte i punti che conteneva, valeva un punto.
Mentre a tresette si ha un compagno fisso che sta di fronte, come a scopa scientifica e a briscola, col chiama il tre ogni mano si poteva avere un compagno diverso. Chi era di mano chiamava un tre oppure passava. Se aveva carte buone poteva chiamare un tre per completare la sua strategia o per bloccarla altrove. Oppure poteva aver carte cosàcosàma tentare lo stesso – chiamando un tre – di trovare nel compagno una fortuna. Chi chiamava e poi perdeva pagava anche per l’avversario e dunque erano due fiches (4 se prendeva cappotto), per questo, generalmente, chi aveva poco non rischiava e passava. Chi era di mano non poteva dire subito chiamo tale 3 ma sempre prima chiedere se poteva chiamare, perché poteva esserci qualcuno che aveva le carte talmente belle da decidere di andare da solo, ossia senza il bisogno del tre di un altro.
Se uno voleva chiamare un tre, la dicitura vera e propria era dunque: se nessuno va da solo, chiamo il tre di…
Da solo, in caso di vittoria si prendevano due fiches a testa dagli avversari. Ma uno poteva anche chiamarsi in mano, e non dichiararlo, ossia chiamare un 3 che aveva in mano e fino alla fine non si capiva mai con chi era uno e con chi era l’ altro. Era quando certi giocatori passionali finivano per tirarsi le carte in faccia, si minacciavano, si toglievano l’orologio, e si facevano tenere insultandosi la famiglia fino alla quarta generazione.
Se nessuno aveva carte buone da chiamare – oppure uno le aveva ma non aveva chiamato credendo che poi avrebbero comunque chiamato lui coi suoi tre – si passava tutti quanti e si andava al meno, cioé s’era tutti contro tutti e i due che facevano meno punti avevano vinto la fiche. Naturalmente quando si andava al meno si cominciavano a scaricare assi di traverso – sempreché non si dovesse rispondere alla merce, che era obligatorio – e carte alte in modo da non restar in mano. Il rischio era che a forza di far punti se a quello restavano solo carte firme, cioé vincenti, e gli avversari non avevano fatto nemmeno un punto, ci usciva un cappotto, e chi faceva cappotto, pur andando al meno, riceveva due fiche per uno dagli avversari.
Le merci erano le stesse che a briscola e scopa, cuori quadri fiori picche, come quando fuori piove diceva sempre un vecchio. Per richiedere al compagno una carta importante e liberare la merce, il giocatore bussava ( abbiamo visto come talvolta si bussava falso, ingannando anche il compagno ) e dava un colpetto sul tavolo. Ognuno aveva il suo modo di bussare, si andava dal tic dell’unghia sul tavolo di fórmica o dalla semplice parola: busso, all’autentico busso fatto di pugni stretti e quadrati sferrati sul tavolo che intimorivano i rari turisti.
Quando di una merce che si voleva giocare non s’aveva altra carta si volava, e il gesto che compiva la mano era quello vero e proprio del far volare la carta sul tavolo. Infine se di una merce non si aveva granché in qualità ma in quantità più di una carta – e quindi non si volava – si strisciava, e di nuovo la mano faceva strisciare la carta sul tavolo. Chi strisciava poteva anche dire quante carte di quella merce aveva ancora in mano. Una peggio, dunque, o due peggio. Una meglio non si poteva dire, perché si strisciava sempre partendo dalla maggiore. Tre peggio non si poteva dire neanche, perché era un lungo. Un re quarto ad esempio, ossia un re e tre inferiori, vestite o no, era un lungo. Un re quinto era un lungo fino al busso. Un asso quarto non era un busso, ma uno striscio lungo fino al busso.
Parlava chi aveva la mano, e chi guadagnava la mano aveva, o riaveva, la mano.
Alla merce giocata, si é detto, non si poteva rifiutare, scartare, se alla fine a uno usciva una carta di una merce  che poco prima aveva scartato, perdeva e pagava le tre fiches e si prendeva insulti alla famiglia ecc. Uno poteva essere di mano, avere una napola quinta o sesta e chiamare dunque un tre per arrivare alle sette mani, sette mani in due si vinceva. La napola era il 3, la verdina, 2, e l’asso di una merce. Quarta o quinta, sesta e cosàvia, dipendeva da quante carte della stessa merce era accompagnata.
Avere il 25 significava possedere il 3 e la verdina della stessa merce. Quando, sia la napola che il 25, non erano accompagnati, si diceva che erano secchi. Infine c’era il 31, ossia il 3 e l’ asso della stessa merce, ma di questo non sono sicuro.
Il capitolo dello scartare era importantissimo, perché dallo scarto uno si rendeva conto della merce che il compagno non desiderava.
In parte i vecchi sono morti, l’altr’anno hanno chiuso anche il bar del ponte, e quando torno a girare per le strade fantasma del paese, a volte mi fermo a guardare la vecchia scala che si faceva per entrare a giocare, annuso nell’aria e mi sembra ancora di sentire l’odore della spazzatura che solo fino a pochi anni fa gettavamo dal ponte perché il torrente l’accampagnasse alla foce e ogni tanto il messo comunale la bruciasse. E mi dico che tutto questo, naturalmente, fa parte dello stesso gioco.
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