CINEMA: Dal cinema al racconto: Il prossimo film
13 Dicembre 2007
racconto di Marco Ercolani
[Marco Ercolani, nato a Genova nel 1954, è psichiatra e scrittore. Tra i suoi libri: Col favore delle tenebre, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala e Il tempo di Perseo. È autore di Fuoricanto, una raccolta di saggi critici su alcuni poeti contemporanei. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto Nodi del cuore e Anime strane e cura la collana «I libri dell’Arca » per le edizioni Joker.]
Una lettera di Steven Spielberg a un’amica (1993).
Il mio sogno di bambino, Thelma, era guardare dentro una notte nera: fissare il telescopio in quel cielo buio e immaginare che ci fossero moltissime stelle e che ognuna di loro avesse un nome e una storia da raccontare.
Ridicolo, vero? Se ci pensi, oggi che mezzo universo conosce i miei film e adulti e bambini sanno tutto di E.T. e di Indiana Jones, solo io posso ricordare quel mio antico sogno. Ho avuto la fortuna di mostrare, con effetti speciali, tutto ciò che mi avevano suggerito i miei sogni: li ho trasformati in immagini. È stato bello. E sarebbe sempre bello, se si restasse adolescenti.
Ma, purtroppo, si cresce. Non credevo accadesse anche a me, ma è accaduto. Ora tutte le mie fantasie sono dei film di strepitoso successo, mi arricchiscono ogni anno di diversi milioni di dollari. Ma io resto giovane e curioso, voglio scegliere altre strade, sperimentare qualcosa di nuovo. Un film nudo, senza suoni, senza trucchi. Magari un palcoscenico, due attori, che ne so! Come ricorderai, ho iniziato la mia storia nel cinema con Duel. Un inseguito, un inseguitore. Nient’altro. Un camion contro una macchina. Bastava che la storia accadesse, che la violenza si mostrasse, assurda e senza motivo, e il film scivolava via, senza spiegare nulla. Le immagini si spiegano sempre da sé.
Adesso è diverso. Oggi, il mondo sogna così facilmente i miei sogni che mi viene voglia di rifiutarli: forse non sono mai stati miei. Comunque, non mi appartengono più. Torno all’origine, a quella notte nera, senza stelle. Fisso il buio, e basta. Giro in silenzio. Un bello schermo nero. Una storia ce l’avrei, a pensarci bene – ma piccola, semplice. E’ l’incontro fra Samuel Beckett e Buster Keaton. Nella casa di Keaton, una tana in rovina, alla periferia di Los Angeles, l’ex- comico guarda la TV, beve lattine di birra, e non dice una parola. Beckett, imbarazzato, gli spiega la sceneggiatura: si tratta di un film sul cinema, sull’occhio che guarda l’attore. Keaton risponde «Bah ». Non ci capisce un diavolo di niente, ma accetta, perché è senza soldi. Lavora controvoglia: ormai ha settant’anni, ma sul set non è mai in ritardo. Ricordi? Si chiamava proprio così: Film. Keaton, mentre gira, non sa cosa fare, dice che gli sembra tutta una sciocchezza. Ogni sera Beckett e Keaton smettono di lavorare e vanno allo stesso ristorante. Ma Beckett siede a un tavolo con i suoi amici e Keaton a un altro; ordina una cena frugale, fissa la tovaglia quadrettata, mangia con gli occhi fissi sul piatto.
Sarebbe bello questo piccolo film sul grande Keaton. Lo girerei tutto cercando di mostrare meno immagini possibile. Senza musica, senza ritmo, fra una voce e un riflesso. Ho bisogno di un lavoro limpido, sobrio, disperato. Avrei voglia di non firmarlo col mio nome. Usare uno pseudonimo e ricominciare tutto da capo: così i critici non avrebbero di che scervellarsi con stupidi raffronti.
Ormai ho smesso di mostrare il mio immaginario. Mi interessano le vite degli altri, mi attirano parecchio certe biografie. Quella di Schindler è stata la prima, ma ci ho messo troppa enfasi, troppa musica. D’ora in poi girerò solo film minori. Non sto forse invecchiando? Bisogna lasciare le cose a metà , farsi attrarre dagli spazi vuoti, parlare poco.
Ricordo un aneddoto che Louis Bunuel raccontava di se stesso. Don Louis si sveglia, si stira le braccia e le gambe, si aggiusta il vestito nero; poi, rimosso il coperchio con irrisoria facilità , si mette seduto, scavalca la bara, poggia i piedi sul terreno molle; quindi, accertatosi che le gambe reggono, traversa il cimitero, spalanca il cancello, entra nella piazza di Las Palmas, inondata da un freddo sole autunnale. Socchiude gli occhi, respira con calma, gira l’angolo verso Calle Royas. Uno struzzo striscia le zampe sul selciato polveroso. Due cuscini cadono dal terzo piano. Giunto all’edicola, compra la Tribuna Nacionà l di Madrid, legge attentamente tutte le notizie, in piedi accanto all’edicola, poi restituisce il giornale con una smorfia di disgusto e riprende la via del ritorno. Lo struzzo sparisce, i cuscini tornano intatti nel letto della stanza. Riapre il cancello, traversa il cimitero e ridiscende nella bara, senza girarsi indietro. Dopo pochi secondi il sole rosso scuro tramonta su quel bizzarro 12 ottobre 1993.
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