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CINEMA: I MAESTRI: Gli idoli

15 Ottobre 2008

[da: Vittorio Calvino, “Guida al cinema”. Prefazione di Vittorio De Sica, Nuova Accademia Editrice, 1954]  

Anno 1945. Al termine d’una dura e sanguinosa bat ­taglia sul suolo francese, un giornalista corrispondente di guerra s’avvicinò a un carro armato inglese che marcia ­va verso le retrovie, per felicitare l’equipaggio dell’auda ­cia dimostrata e per la fortuna d’essere uscito indenne da un durissimo scontro. Uno degli uomini, sudato e sporco, si affacciò dal carro armato e sorridendo mostrò una foto ­grafia di Vivien Leigh: «È per lei che mi sono battuto, disse, ed è lei che mi ha protetto… ». « Voi la conosce ­te? » chiese il giornalista. « Nemmeno per sogno. L’ho vi ­sta solo al cinema… » rispose il soldato.
Nulla meglio di questo episodio può dimostrare e de ­finire che cosa sia quel singolare fenomeno che si chiama « divismo ». In questo nostro tempo affannoso e febbrile molti ideali si sono spenti, molti dei sono tramontati, o sono stati rovesciati dai loro piedestalli. Tuttavia la folla, con ostinazione quasi infantile, si crea nuovi idoli e ad essi presta la più sconfinata e spesso disinteressata e muta adorazione. Tra questi idoli dei tempi moderni, i più rap ­presentativi, sono certamente quelli che il cinema ha crea ­to nella sua breve storia, da Rodolfo Valentino a Bob Taylor, da Francesca Bertini a Greta Garbo, da Pina Menichelli a Rita Hayworth ai pochissimi altri che sono riu ­sciti ad emergere e a conquistare il favore delle platee.
A questi idoli la gente tributa la propria ammirazione nei modi più impensati, scrivendo lettere d’amore così come imitando nell’acconciatura o nel modo di vivere l’eroe o l’eroina preferita. Nascono in America i circoli dei « fans », i fanatici di un’attrice o d’un attore, e gli ammi ­ratori sopportano con pazienza lunghissime e disagiate at ­tese pur di strappare al divo un sorriso o un autografo, pur di ottenere una fotografia, un ricordo.
Rare volte il mondo ha visto manifestazioni di entusia ­smo collettivo tanto frenetiche quanto assurde come quelle provocate dalla presenza di un’attrice o di un attore. Chi si è trovato in mezzo alla folla urlante allo sbarco di Charlie Chaplin in Inghilterra, chi ha assistito ai funerali di Rodolfo Valentino in cui la bara del divo scomparso era seguita da diecimila persone, non può non serbarne un ri ­cordo incancellabile e insieme conturbante. La potenza del cinema si rivela appieno in questi fenomeni; è il cinema che ha creato gli idoli dei tempi moderni, moltiplicandone a milioni di esemplari il volto e il sorriso. Nessun tipo d’artista prima d’oggi ha mai avuto una simile immen ­sa notorietà, non Adelina Patti, né Enrico Caruso, che pure furono popolarissimi. La loro immagine non poteva giungere, come quella di Greta Garbo o di Ingrid Bergman, fino allo sperduto villaggio di campagna o al più povero e squallido cinema di periferia.
Tra le centinaia di attrici e di attori che il cinema ha presentato al pubblico d’ogni continente, pochissimi, però, sono quelli che veramente hanno raccolto l’universale suf ­fragio. E, di questi, rarissimi sono coloro la cui celebrità è durata più di pochi anni. Tra questi eletti, questi privi ­legiati della fortuna e della gloria, due sono italiani. Il loro nome, il loro ricordo, sono ancora vivi nel cuore di milioni di uomini : Francesca Bertini e Rodolfo Valentino. La passione e l’ammirazione che essi suscitarono non sono ancora dimenticate.  

Nel 1912, in un film della « Cines » accanto ad Amle ­to Novelli, apparve per la prima volta una giovane at ­trice dai capelli nerissimi. Si muoveva con tanta grazia, era così semplice e fresca, che il pubblico ne restò con ­quistato. Francesca Bertini: questo era il suo nome d’arte, ma in realtà si chiamava Elena Vitiello e se per l’anagrafe risultava nata a Firenze era però partenopea al cento per cento. Sua madre, donna di teatro, l’aveva fatta esordire giovanissima in una compagnia dialettale napoletana. Tut ­tavia, per quanto graziosa ed attraente nella sua acerba avvenenza di giovinetta, non riuscì a farsi avanti nel tea ­tro perché aveva una sgradevole voce di gola. Nel cinema cominciò alla « Pathé » a Roma, in piccole particine sen ­za importanza. Poi accadde un fatto che costituì il princi ­pio della sua fortuna: scritturata da un produttore, venne da questi provvisoriamente ceduta a un’altra Casa, la quale non volle più restituirla. L’avvenimento dette origi ­ne a un processo lungo e clamoroso che, se non altro, servì a mettere in luce la giovane debuttante e ad attirare su di lei l’attenzione del pubblico. Fu questa l’occasione buona per Francesca Bertini. Di punto in bianco ella s’impose, quasi con prepotenza, con la sua calda bellezza meridiona ­le e il suo istinto di attrice. Eccola protagonista di Don Pietro Caruso e poi di uno dei suoi film migliori, Assunta Spina. Da questo momento Francesca Bertini diventò una stella di prima grandezza e il suo nome varcò i confini d’Italia. Lettere e lettere giungevano per lei da tutte le parti del mondo, da tutti i paesi in cui i suoi film si ven ­devano a scatola chiusa; ella non si degnava nemmeno di aprirle. Cosa potevano interessarla i mille spasimanti? Lei era ormai una diva, anzi, « la Diva ». Legata da un con ­tratto che le assicurava favolosi compensi, si comportava come una regina.
I film interpretati dalla Bertini non si contavano: era ­no sempre un buon affare per i produttori e i soggettisti lavoravano senza risparmio per inventare storie che le pia ­cessero. Ella passava con disinvoltura da Malia a Sangue blu da Processo Clémenceau a Tosco, da Diana l’affascinatrice a La signora delle Camelie, a Odette, a Fedora. In costume o in abito moderno, la Bertini dominava e i giornalisti che scrivevano di cinematografo – la critica non esisteva ancora – scioglievano inni alla Diva non ri ­sparmiando aggettivi. «La Bertini è stata grande: – scri ­veva un giornalista dopo la presentazione di Odette – ha saputo meravigliosamente trasmetterci tutto lo spasimo del personaggio, lo strazio crudele di quell’anima votata al martirio. Abbiamo sofferto di quel dolore, abbiamo applau ­dito commossi… ».
E intanto la passione per lei cresceva smisuratamente. Perfino a Parigi, la Parigi così restia a concedere il suo favore, ella era celebre. E le modiste creavano i capelli alla Bertini, le sarte lanciavano i mantelli alla Bertini, i parrucchieri del gran mondo consigliavano alle loro clien ­ti la pettinatura alla Bertini.
Amata, idolatrata, invidiata, la diva trionfava nel mon ­do intero. « La bocca della Bertini è un capolavoro di ele ­ganza espressiva », scriveva in quegli anni un cultore di cose cinematografiche. « Se non avesse quegli occhi mera ­vigliosi, il suo valore intellettuale si rivelerebbe dalle lab ­bra, che anche nel silenzio dello schermo riescono ad espri ­mere le tenerezze e i tumulti dell’anima ».
Nel 1919, quando ormai il cinema italiano era alla vigilia del tracollo, Francesca Bertini ebbe il più forte con ­tratto che fosse stato concluso in quei tempi: due milioni di lire per otto film da realizzarsi in un anno.
Ma ormai la grande diva, la prima diva del cinema, era stanca di lavorare. Nell’agosto del 1921 si dette l’ultimo giro di manovella al film La Fanciulla di Amalfi. Un mese dopo Francesca Bertini si sposò. Era milionaria, diventa ­va moglie di un conte francese e si recava con lui all’e ­stero. Altre fugaci apparizioni sullo schermo non aggiun ­sero né tolsero nulla alla sua fama. Il mondo di Francesca Bertini era oramai scomparso, travolto dalla prima guerra mondiale, dissolto dal mutare delle mode e dei gusti d’un pubblico che cercava nuovi idoli da adorare.  

Nel 1921 la Metro affidò a un regista, Rex Ingram, che s’era distinto in altre prove, il compito di realizzare un film tratto dal popolare romanzo dello scrittore spagno ­lo Blasco Ibaí±ez I quattro cavalieri dell’Apocalisse.
Per i diritti d’autore la Metro versò la somma rotondetta di trentamila dollari, ma fu un eccellente affare, per ­ché nelle casse della Casa produttrice affluirono diversi milioni e non tanto per il film in sé, quanto per merito del giovane protagonista, un attore sconosciuto o quasi, che di colpo svegliò l’attenzione del pubblico conquistandosi una fulminea enorme popolarità. Si chiamava Rodolfo Valentino. Accanto a lui era un’attrice bionda, fine, gentile, Alice Terry.
Chi era? Da dove veniva questo giovane bruno, sotti ­le, dallo sguardo imperioso e la bocca sensuale? Pochissi ­mi lo sapevano, allora. Più tardi gli toccò addirittura l’o ­nore di avere come biografo uno dei maggiori scrittori americani, John Dos Passos.
Al suo apparire sullo schermo nel film che doveva dar ­gli la celebrità e la gloria, facendo di lui l’uomo fatale per milioni e milioni di donne, pochi sapevano che Ro ­dolfo Valentino era italiano. Si chiamava Rodolfo Gugliel ­mi ed era nato il 6 maggio 1895 a Castellaneta nelle Puglie. Suo padre faceva il veterinario. Dopo un’infanzia movimentata (pare che non avesse molta voglia di studiare) e dopo aver tentato tre o quattro mestieri, a diciannove anni si era imbarcato per l’America deciso a far fortuna. Il suo primo periodo americano era stato, come quello di molti emigrati suoi pari, difficile e banale. Volta a volta fu meccanico, lavapiatti, giardiniere, cameriere. Tutto ten ­tò per acciuffare la fortuna, senza riuscirvi, finché diven ­ne ballerino, fece coppia con Jean Acker e prese il nome di Rudolph Valentino. Imparò a muoversi, a portare con disinvoltura il frak, a sorridere al pubblico dei piccoli teatri di Broadway. Fu allora che si sentì maturo per il cinema. Andò a Hollywood, ma nessun produttore gli of ­frì contratti: i ballerini non interessavano, l’epoca d’oro dei film-rivista era ancora lontana, sarebbe venuta poi, col cinema sonoro. A corto di quattrini, Valentino si acconten ­tò di fare la comparsa a cinque dollari al giorno. Poi salì la scala di qualche gradino, ebbe piccoli ruoli insignifi ­canti. Finché Rex Ingram lo notò e lo volle quale protago ­nista del suo nuovo film I quattro cavalieri dell’Apoca ­lisse.
Da quel momento la storia di Rodolfo Valentino di ­venta una favola. Una enorme campagna pubblicitaria fe ­ce di lui « un caso » ; i produttori imbastirono per lui film in cui la sua bruna bellezza mediterranea potesse risal ­tare. Lo vestirono da cosacco ne L’aquila nera, da arabo ne Lo sceicco, da torero in Sangue e Arena, lo misero in co ­stume e parrucca in Monsieur Beaucaire, inventarono per lui drammi, passioni, duelli, romantiche avventure e lan ­guidi amori. Ma la fortuna di Valentino fu creata dalle donne. Per milioni e milioni di donne questo giovane atto ­re italiano fu « l’eroe », la vivente immagine d’un prepo ­tente bisogno di evasione, il seducente volto di un sogno impossibile. Egli fu, in sostanza, l’amante ideale. E ciò fu dovuto non tanto alla sapiente pubblicità di cui era oggetto, quanto alla seduzione che il suo fascino latino fatto di gentilezza e di grazia, esercitava sulle donne anglosas ­soni. Per esse Valentino era l’uomo nuovo che soppianta ­va quello che era stato fino ad allora il dominatore, l’eroe dello schermo americano, il rude cow-boy. Per questo lo amarono, lo adorarono anzi, con una frenesia indescri ­vibile.
Valentino, l’idolo delle donne, trascorreva le sue gior ­nate vertiginose nei teatri di posa della « Paramount », poi nella sua villa sontuosa, ove ammucchiava bellissime cose con pessimo gusto, o nella sua scuderia, dove teneva i cavalli che erano la sua sola passione.
Aveva sposato una compagna di scena, Natascia Rambova, per divorziare ben presto. Strano a dirsi: quest’uo ­mo che le donne idolatravano – al suo passaggio esse s’accalcavano per mendicare uno sguardo – quest’uomo, dunque, non fu felice in amore. Si sentiva solo, un po’ triste. Il frastuono che lo circondava sembrava spaventar ­lo. Quando nella sua lussuosa automobile correva per le strade delle grandi città americane, quattro agenti motoci ­clisti lo scortavano per sottrarlo ai frenetici assalti della folla. E questa folla era composta di donne, di donne che urlavano, che gli tendevano le mani, che gli strappavano i bottoni, la cravatta, le falde dell’abito, il cappello, di donne che giungevano, perfino, a introdursi nella sua camera da letto e dovevano esser cacciate via dai dome ­stici.
Ma il destino si divertì a stroncare bruscamente que ­sto splendido idolo. Un giorno dell’agosto 1926 Rodolfo Valentino moriva improvvisamente di peritonite, in una stanza dell’Hotel Ambassador di New York. Non aveva che trentun anno.
La notizia, diffusa in un baleno nel mondo intero, de ­stò un senso di angoscioso stupore. Possibile che Rodolfo Valentino, così giovane e bello e fiero e celebre, fosse mor ­to? Migliaia di donne si precipitarono dov’egli giaceva in una bara di noce massiccio, imbottita di raso bianco, con le maniglie d’argento. La polizia a cavallo dovette in ­tervenire per arginare la marea, ristabilire il traffico, di ­sciplinare l’afflusso nella stanza mortuaria.
Udite come Dos Passos descriveva le scene drammati ­che provocate dalla morte di « Rudy », il bel Rudy… « De ­cine di migliaia di uomini e donne e bambini gremivano le vie all’esterno. A centinaia vi furono calpestati, moltis ­simi ebbero i piedi schiacciati dai cavalli della polizia. Nella pioggia e nel sudore i poliziotti persero la testa. Masse pigiate si gettarono sotto gli sfollagente e gli zoc ­coli levati dei cavalli. La cappella funeraria venne denu ­data, uomini e donne lottarono per un fiore, un brano di tappezzeria, un frammento di vetro rotto di una finestra.
Si sfondarono vetrine. Macchine ferme vennero rove ­sciate e frantumate. Quando finalmente la polizia a ca ­vallo, dopo ripetute cariche, respinse la folla, a Broadway, dove il traffico rimase fermo per due ore, si trovaro ­no scarpe scompagnate, ombrelli, borsette, maniche strappate. Tutte le ambulanze di quel settore della città ebbero da fare per soccorrere donne svenute, ragazze calpestate. Alcuni epilettici ebbero degli accessi. I poliziotti dovette ­ro anche raccogliere gruppi di bambini sperduti ».
Ai funerali prese parte Mary Pickford, singhiozzante, e Pola Negri, l’ultimo amore di Valentino, che apparve fittamente velata di nero e svenne. Dovettero riportarla di peso nel suo appartamento dell’Hotel Ambassador.

Se la fortuna di Rodolfo Valentino era stata brevissi ­ma, cinque anni in tutto, la storia del cinema annovera, per contro, il caso opposto d’una fortuna durata lunghissimo tempo, e d’uno splendore che in venti anni non è sta ­to mai offuscato. Protagonista di questo caso veramente unico è una donna: Greta Garbo.
Con il suo volto da sfinge nordica, la sua bocca dura, Greta ha concesso ben poco alla curiosità del pubblico, rinchiudendosi in un ostile, ermetico silenzio, creando in ­torno a sé una specie di mistero tanto più piccante quanto difficile da penetrare.
« II pubblico mi conosce dal mio lavoro, – disse un giorno l’attrice. – Che può interessare la mia vita priva ­ta? Sono un essere umano come tutti gli altri e voglio che qualcosa mi venga lasciato. Non intendo di essere come un pesce in un acquario ».
Qualcuno ha voluto vedere in questo atteggiamento di assoluta intransigenza un’abile trovata pubblicitaria. Ma forse no: chiudendo alle sue spalle la porta di casa, Greta Garbo ha soltanto desiderato veramente d’essere lasciata in pace. A chi la interrogava sulla sua vita ella risponde ­va semplicemente : « Sono nata in una casa, sono cresciuta come crescono tutti. Non mi piaceva andare a scuola ».
Troppo poco per appagare la curiosità di milioni di ammiratori. La svedese selvatica, che ha saputo incarnare con tanta dolcezza le più belle creature d’amore dello schermo, colei che ha portato a Hollywood il gelo e il fuo ­co delle donne nordiche, ha una storia più lunga di quella che racconta.
Greta Luisa Gustafsson nacque a Stoccolma nel no ­vembre del 1906, figlia d’un modesto uomo d’affari, in una decorosa casa alla periferia della città. A quattordici anni perdette il padre e le toccò impiegarsi per aiutare la madre a tirare avanti. Divenne commessa nel reparto modisteria dei Magazzini Bergstrom. (Oggi questi magaz ­zini diffondono a migliaia di esemplari una cartolina con la fotografia dell’edificio dove la Garbo vendeva cappelli, e la scritta « Where Garbo sold hats »). Fu destinata in ­fatti alla vendita dei cappelli per le signore eleganti, e siccome aveva un visetto grazioso un giorno fu invitata a posare per una serie di fotografie pubblicitarie. Erano i cappelli che interessavano e non ancora il volto di Greta. Successivamente, nel 1921, le venne offerto di interpreta ­re un piccolo film pubblicitario. Oh, niente di straordina ­rio, nessun mutamento nella vita della futura diva: è sol ­tanto il piccolo passo verso il Cinema. Il secondo avviene per opera del regista Erik Petschler che, notata la ragazza, la scrittura per un film comico dove ella appare in costu ­me da bagno! Il risultato è tale che qualcuno consiglia Greta di darsi al teatro, e lei, infatti, entra al Conservato ­rio e vi resta due anni, superando brillantemente gli esa ­mi finali con la recita de La donna del mare di Ibsen. Ormai è attrice di teatro e comincia a recitare. Un giorno Maurizio Stiller, il celebre regista svedese, dopo averla notata in una particina del film Erik il vagabondo, la chia ­ma negli stabilimenti della Svenska Film e le affida il ruolo della contessa Dolina in Costa Berling. Il primo grande passo è fatto. Stiller ha intuito la ricchezza che è in lei. Egli parte, un giorno, con la giovane donna, che ha battezzato Greta Garbo, per la Turchia, dove avrebbe do ­vuto girare un film. Ma i capitali vengono a mancare sul più bello e Greta, delusa, demoralizzata, si trova a Costantinopoli senza un soldo. La brillante carriera è dunque già finita?
Nel viaggio di ritorno, per Belgrado e Vienna, si ferma ­no a Berlino. Stiller affida l’ignota debuttante alle cure di G. W. Pabst, regista non meno illustre. Sarà Pabst che la dirigerà, con Asta Nielsen, nel film La via senza gioia, storia amara della gioventù del dopoguerra. È l’anno 1925. Greta ha compiuto già un discreto cammino; e quan ­do Stiller deve partire per Hollywood ottiene di condurre con sé la giovane protetta. Un giorno ella sbarca a New York, ancora timida e un po’ provinciale, muta e ri ­trosa. Sembra aver paura di tutti e non fa nulla, proprio nulla, per accattivarsi la simpatia del prossimo. Stiller l’accompagna sempre, tanto che a Hollywood la chiamano « la ragazza svedese portata qui da Stiller ». Ma ben pre ­sto ella riesce ad affermarsi. Il suo primo film americano s’intitola Il torrente ed è diretto da Monta Bell. Suo com ­pagno è Riccardo Cortez. Poi viene La tentatrice con Al ­berto Moreno, diretto da Fred Niblo. Stiller, che aveva sperato invano di lavorare con lei, muore. E qualcuno tes ­se già una leggenda, la prima delle cento leggende create intorno a questa enigmatica figura di donna. Si dice, si mormora, che Maurizio Stiller si sia ucciso, disperato perché Greta Garbo non aveva ricambiato il suo amore. Questo degli amori fatali della « sfinge del nord » è uno dei temi che più spesso ricorrono nella vita dell’attrice. Nessuno sa, nessuno ha mai più potuto conoscere un suo amante. Eppure a molti uomini fu attribuita una grande passione per lei. Quando realizzò La carne e il diavolo si disse che il suo compagno, John Gilbert, pazzamente innamorato di lei, avesse attraversato l’Atlantico per strap ­parla a un principe svedese col quale, durante una vacan ­za, s’era fidanzata. Ma non era vero nulla, o meglio, nulla lasciava credere che fosse vero.
Nel 1928, con La donna divina diretto da Vietar Sjöstrom, Greta Garbo conquista il titolo di « stella ». Or ­mai ha un pubblico fedele che accorre ai suoi film con la stessa passione e lo stesso entusiasmo coi quali era accor ­so ai film dei beniamini di ieri, la Pickford, Douglas Fairbanks, Valentino. Tuttavia Greta continua a rimanere una ragazza semplice: non mette trucco sul suo viso, in ­dossa sempre un tipo di tailleur di grezza lana, non par ­tecipa a feste e divertimenti, non compera una villa ma vive per anni in un appartamento d’affitto. In cambio si applica a studiare l’inglese e legge moltissimo. I film si susseguono e immancabilmente sono dei successi. Non la ­vora molto; in media un film all’anno. In vent’anni circa ha interpretato poco più di altrettanti film, di cui i miglio ­ri sono Anna Karenina, Destino, Orchidea selvaggia, An ­na Christie, II velo dipinto, Come tu mi vuoi. In ognuno, essa appare come una creatura dolente alla quale è nega ­ta la felicità. Una creatura che insegue vanamente quel ­l’amore che potrebbe dare alla vita luce e calore, dolcezza e ristoro. Le sue storie sono drammatiche. Il suo volto serio, quasi severo, segnato da una sofferenza inferiore che forse non è soltanto apparente, è il volto d’una donna che non sa ridere. Questo atteggiamento vale ad aumentare il suo fascino. Milioni di persone si sentono attratte, come stregate, dalla espressiva maschera della donna misteriosa. Solamente nel suo penultimo film, Ninotchka, diretto da Lubitsch, ella rompe deliberatamente l’incantesimo e ride, ride fragorosamente, apertamente. Ma c’è qualcosa che non va più. Gli anni sono passati, il pubblico forse è stanco, di ­stratto, la guerra ha suscitato nuove preferenze, ha desta ­to nuove passioni. Nel 1941 Greta Garbo gira il suo ulti ­mo film La donna dai due volti, poi si ritira, rinchiusa in un ostinato mutismo.


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1 commento

  1. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 15 Ottobre 2008 @ 18:48

    Io non sono mai stato fanatico né per i divi del cinema né per quelli della canzone. E non me ne rammarico. Anzi! Ho sempre amato guardare ed apprezzare ottimi film e ascoltare buona musica. Niente di più.
    Ma il “divismo” non è affatto finito. Ai personaggi dello spettacolo si sono prepotentemente aggiunti quelli del calcio. Non sopporto certe manifestazioni eclatanti dei cosiddetti fans nei confronti dei loro “idoli”. Si è assistito in passato e si assiste frequentemente tuttora a momenti di grande esaltazione ed esasperazione, che rasentano quasi la follia, di fronte a personaggi divenuti in qualche modo famosi. Non ci si rende conto che spesso questi, strapagati fino all’inverosimile, custodiscono un vuoto raccapricciante e manifestano non di rado un’ambizione smisurata. Va dato, a mio avviso, il giusto merito, dove c’è, ma senza esagerazioni. Personalmente sento più vicini e considero piccoli eroi, ad esempio, quel padre di famiglia che si alza presto, per andare a guadagnare con fatica il pane quotidiano e quella madre che accudisce con cura ed amorevolezza la propria famiglia, cercando di far quadrare i conti
    Gian Gabriele Benedetti

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