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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

5 Marzo 2011

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini]

127 ore

127 Hours
Danny Boyle, 2010
Fotografia Anthony Dod Mantle, Enrique    Chediak
James    Franco, Amber    Tamblyn, Kate    Mara, Clémence    Poésy, Kate    Burton, Lizzy    Caplan, Sean A.    Bott, Treat    Williams, Koleman    Stinger, John    Lawrence, Bailee Michelle    Johnson, Rebecca    Olson, Parker    Hadley, Fenton    Quinn, Pieter Jan    Brugge, Jeffrey    Wood, Norman    Lehnert, Darin    Southam.

Storia vera? E chi lo sa. O meglio: e chi lo vuole sapere. Sullo schermo che a tratti si triseziona per un effetto grafico un po’ pubblicitario vediamo un giovane escursionista cercare il contatto con la natura. Va in bicicletta e si videoregistra con una piccola telecamera. La vita è bella perché la rete è idealmente disponibile per l’elastico esistenziale, fuori-dentro-fuori-dentro passeggiando per i canion dell’Utah. Labirinto e viaggio interiore, il pericolo di lasciarci la pelle è il lato minore. Lo capiamo quando Aron, il giovane avventuroso, resta incastrato in un crepaccio col braccio destro stretto tra la parete e un maledetto masso precipitato dall’alto. Sopra la profonda fessura uno spicchio di cielo e l’indifferenza della Terra. Dopo pochi minuti di panico, Aron recupera la cama e continua a registrarsi. Adesso il materiale si fa più interessante. E via via il senso del “documentario” svanisce, si entra in una dimensione introspettiva, tra onirica e misterica. Col buio avanza la solitudine e la memoria si apre a una cronologia non lineare. Comunque la sensazione è che non siamo nel dramma realistico, non siamo da vivi nella cassa da morto e non finiremo male come fu per il sepolto vivo in Iraq nel 2010 (Buried, Sundance Festival). Qui Il lato più interessante è la “denuncia” (o autodenuncia) dell’irresistibile attrazione del potere di fissaggio che l’immagine può avere su di noi anche in circostanze estreme. Dal fissaggio all’eternità il passo è più breve di quanto si immagini. Momenti di umorismo e di patetismo si alternano sapientemente e l’abilità di Boyle (regista inglese che va con disinvoltura da Trainspotting a 28 giorni dopo, da Sunshine a The Millionaire) nella variatio delle inquadrature sul “prigioniero” del crepaccio risponde pienamente al gioco dell’immaginazione che man mano diviene allucinogena nelle visioni deliranti di Aron. Ed ecco che lo schermo cede di nuovo alla grafica, torna all’inizio e tutto si aggiusta in una soluzione formale. Destino e forma si coniugano nell’orribile scena risolutiva, in cui dolore e sangue liberano Aron dal cunicolo del suo io.

The Fighter

The Fighter
David O. Russell, 2009
Fotografia  Hoyte Van Hoytema e Matthew Libatique
Mark Wahlberg, Christian Bale, Amy Adams, Melissa Leo, Mickey O’Keefe, Jack McGee, Melissa McMeekin, Bianca Hunter, Erica McDermott, Jill Quigg, Dendrie    Taylor.
Oscar 2011: Christian Bale atnp, Melissa Leo atrnp.

Così finto che sembra vero, un vero fumetto (non nel senso del valore artistico). Scansione univoca delle scene (oh, i “Sette tipi di ambiguità”, pensati dall’inglese William Empson nel 1930), didascalismo narrativo, espressività bloccata nei momenti “significativi”, prevedibilità esibita degli snodi drammatici, funzione simbolica degli scambi di colpi sul ring, inverosimili “documenti” sportivi. Uso letterario della boxe. Non incide nella sostanza la bravura, premiata con l’Oscar, dei due attori “non protagonisti”, nei ruoli fondamentali di Dicky Eklund (Bale), fratellastro maggiore del protagonista Micky Ward (Wahlberg), e di Alice (Leo), la madre che in tutti i modi cerca di conservare il dominio sulla famiglia (ci sono anche sette sorelle). Nonostante il riferimento alla “storia vera” dei due pugili realmente esistiti, il tema c’entra poco col pugilato – destino comune, del resto, ad altri film del passato, a partire da Lassù qualcuno mi ama (1956). Un po’ forzato l’espediente della troupe tv che sta girando un documentario su Dicky, non per registrarne un improbabile ritorno al trionfo ma per sottolinearne la caduta nella dipendenza da droga. Nella provincia piccola e grigia (siamo a Lowell, Massachusetts), lo squinternato Dicky vive nel mitico ricordo di un knock  down ottenuto nel 1978 a Boston sul campione Sugar Ray Leonard. L’ex eroe di Lowell vuole ora, insieme alla matriarca, spingere il fratello Micky, allenarlo e gestirne la carriera. Micky sembra succube, le sconfitte si susseguono. Poi entra in gioco Charlene, la ragazza che gli apre gli occhi (ma il pubblico ha già capito da un pezzo): «Sei veramente convinto che la tua famiglia badi a te? ».  Il pugile si convince che è meglio affidarsi ad altri manager e il sistema entra in crisi. Il pugilato, però, è fatto anche di cuore e Micky potrà vincere sul ring soltanto quando sentirà tutta la famiglia stringersi attorno a sé. Restano i problemi, intravisti, del degrado ambientale entro cui vivono le speranze di tanti giovani. In fondo, a Micky interessa il denaro per avere finalmente un appartamento dove possa ospitare degnamente e più spesso la piccola figlia che ora sta con la madre e con il nuovo compagno di lei. Trionfo sul ring e recupero della famiglia, un cortocircuito retorico che può funzionare.


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Bart