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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

10 Settembre 2011

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini]

Ruggine

Ruggine
Daniele Gaglianone, 2010
Fotografia Gherardo Gossi
Filippo Timi, Stefano Accorsi, Valerio Mastandrea, Valeria Solarino, Giampaolo Stella, Giuseppe Furlò, Giulia Coccellato, Giacomo Del Fiacco, Leonardo Del Fiacco, Annamaria Esposito, Alessia Di Domenica, Giulia Geraci, Michele De Virgilio, Anita Kravos, Giuseppe Vitale, Cristina Mantis.
Venezia 2011, Giornate degli Autori

Nella periferia degradata di una grande città del Nord (Torino), Sandro (Accorsi), Carmine (Mastandrea) e Cinzia (Solarino), immigrati meridionali, si portano dentro la vicenda di pedofilia che ha toccato drammaticamente la loro infanzia, quando facevano parte di una banda di ragazzini il cui teatro di giochi era un vecchio stabilimento abbandonato, nient’altro che un ammasso di ferri vecchi pieni di ruggine. Ora Sandro tira avanti alla meglio facendo traduzioni e cerca di intrattenere il figlietto inventando per lui storie e lotte fantastiche,  ma si vede che qualcosa lo turba e lo porta fuori misura. Carmine sembra il più “danneggiato†psicologicamente, bivacca al bar sempre sul punto di buttar fuori il “rospo†che non gli dà pace. Cinzia cerca equilibrio insegnando a scuola Arte e Immagine e combattendo, per quel che può, a difesa di ragazzi dalle problematiche  che le ricordano in qualche modo la propria. La vicenda turpe ha per protagonista il medico di zona, Dott. Boldrini (Timi), la cui figura acquista rilievo e dona suspence al racconto man mano che la regìa entra nella sensibilità dei tre protagonisti con un lavoro di dettagli più che di memoria/flash. Tutto è sempre “presente†nella scansione delle sequenze e tuttavia le singole scene mantangono un’articolazione logica molto chiara. Qui è il punto critico del film, tratto dal romanzo di Stefano Massaron. Si avverte infatti la disomogeneità tra due modi di condurre la regia. Per un verso, Gaglianone conferma la propria scelta di un cinema di poesia rivolto specialmente a personaggi e situazioni del tipo “adolescenze spezzate†(Nemmeno il destino, 2004) o “vite emarginate†(Pietro, 2010), puntando a coglierne l’essenza con un lavoro di taglio e dettaglio che lascia respirare le inquadrature secondo il ritmo di un’osservazione appassionata; d’altro canto però, il regista sente il bisogno di un’interpunzione didascalica, che rischia di attenuare di molto il valore estetico della prima scelta. Un esempio arriva subito ad apertura di film, quando Cinzia bambina (brava Coccellato), seduta su un mucchio di terra con alle spalle uno scorcio del quartiere degli Alveari, spara al suo amichetto la battuta: «Qua le donne fanno solo figli e salse di pomodoro ». Poi Timi (una caratterizzazione la sua, più che la costruzione del personaggio), sottolinea la propria perversione sussurrando fra i denti arie liriche “significative†(per esempio, “una furtiva lacrimaâ€) e, al culmine della propria tragedia, tira fuori Hitler: «Se avesse vinto, saremmo molti di meno ». Nemmeno Mastandrea riesce del tutto a scrollarsi di dosso il peso del “peso†psicologico che sta sopportando ormai da una trentina di anni (non riveliamo il particolare). La più credibile, nonostante la rappresentazione schematica del consiglio di classe a cui la vediamo partecipare da insegnante, risulta Solarino, misurata e riflessiva nella segreta sofferenza e portatrice di una coscienza sociale non urlata ma trasparente.

Terraferma

Terraferma
Emanuele Crialese, 2011
Fotografia Fabio Cianchetti
Filippo Pucillo, Donatella Finocchiaro, Mimmo Cuticchio, Beppe Fiorello, Timnit T., Martina Codecasa, Filippo Scarafia, Pierpaolo Spollon, Tiziana Lodato, Rubel Tsegay Abraha, Claudio Santamaria.
Venezia 2011, concorso.

Ogni minuto di passaggio in Tv ha un proprio costo aziendale, sono soldi che messi insieme al costo di produzione e agli introiti pubblicitari relativi allo spazio occupato e ai dati dell’ascolto fanno la convenienza economica di un programma. Quando di un film si dice che sa di televisione ci si riferisce a tale insieme di parametri, individuabili anche, e prima di tutto osservabili, a livello espressivo. Fatalmente la durata delle sequenze tende a dilungarsi, spesso oltrepassando la necessità produttiva del senso e la regia è più attenta che mai al controllo della “chiarezza†nella tessitura del significato delle inquadrature. L’ascolto televisivo, si sa, è generalmente più distratto rispetto a quello cinematografico. Quando succede il contrario, ossia il montaggio “stretto†di inquadrature brevi e brevissime, siamo nel modello “pubblicitàâ€, dato che lì il mercato è molto più rigido, le durate sono preordinate anche secondo un metro di efficacia concretamente verificabile (quantità di prodotto venduto). Che il cinema di Crialese faccia pensare all’utilizzo televisivo di film come Nuovomondo (addirittura premiato con un Leone d’Argento Speciale nel 2006) o come quest’ultimo in concorso ancora a Venezia, sembra ipotesi attendibile. Le scelte espressive sono inequivocabilmente insistite e dall’inizio alla fine vanno nella direzione di un fastidioso didascalismo estetico, ciascuna immagine “bella†è indicata e sottolineta in quanto tale e cioè in quanto apprezzabile secondo un gusto fotografico “domenicaleâ€. Laddove poi l’immagine si spinge a farsi carico di uno sguardo sociologico e per acquistare forza chiama in aiuto la musica, il riferimento spettacolare è pure tardivo, fino a produrre la quasi-cancellazione del senso. Veniamo così al contenuto, partendo proprio dalla locandina del film, pensata – dobbiamo ritenere – in maniera non casuale. Su imput di un animatore locale (Fiorello), un grappolo di giovani vacanzieri in gita in barca si apre a ventaglio sul mare e tutti finiscono in acqua cantando Maracaibo, la canzone evocativa di paradisi cubani, tormentone dei primi anni ’80. A fronte della “scemenza†perdurante ai giorni nostri Crialese contrappone la crisi dei pescatori dell’isolotto siciliano dove si svolge la vicenda. La barca di cui sopra è del vecchio Ernesto (Cuticchio). Se fosse per lui, tutta la famiglia dovrebbe continuare a vivere con la pesca, ma i figli, Nino l’animatore e Giulietta (Finocchiaro) vogliono cambiare mestiere, darsi all’accoglienza turistica. Man mano sale in primo piano la figura del nipote Filippo, figlio di Giulietta (un Pucillo alla Ninetto Davoli), il quale, da ragazzo semplice ma anche contemporaneo, oscilla tra le due possibilità. La scelta è resa più difficile dall’arrivo sempre più frequente di imbarcazioni di immigrati dall’Africa. La legge italiana dice di lasciarli in acqua e affidarli alle motovedette della Finanza oppure soccorrerli e denunciarne la presenza ai Carabinieri, la morale dei pescatori dice di salvare chi è in mare. Filippo, mentre aiuta lo zio nell’affitto degli ombrelloni, ha pure compassione per la donna etiope che è arrivata in casa di Giulietta giusto in tempo per partorire. Il dibattito no! – direbbe qualcuno. E invece assistiamo anche a una riunione dei pescatori dove, obbiettivamente, ciascuno ha le sue ragioni. Sicché, non sapendo come risolvere, la cinepresa si leva in alto e con un immenso zoom all’indietro avvolge in un mezzo giro di vite la barca di Filippo che di notte va via portando con sé la giovane mamma di colore verso la terraferma. Ferma, non trema come quella di Visconti. Ma per carità lasciamo stare gli estetismi di altre epoche.

Super 8

Super 8
Jeffrey Jacob Abrams, 2011
Fotografia Larry Fong
Joel Courtney, Kyle Chandler, Elle Fanning, Riley Griffiths, Ryan Lee, Gabriel Basso, Zach Mills, Jessica Tuck, Joel McKinnon Miller, Ron Eldard, Amanda Michalka, Jade Griffiths, Britt Flatmo, Glynn Turman, Noah Emmerich, Amanda Foreman, David Gallagher, Brett Rice, Michael Giacchino.
Locarno 2011, Apertura in Piazza Grande.

Ragazzini giocano molto seriamente a fare il cinema inventando una storia di zombi che poi diventa fantascienza. La girano in Super 8, il formato delle pellicole che si usarono negli anni ’70 e che usò lo stesso Abrams (autore poi di Mission: Impossible III, 2006, e Star Trek, 2009) per le sue prime prove con la cinepresa. Siamo in un piccolo centro dell’Ohio nell’estate del 1979, Charles (Griffiths) è il piccolo regista, scrive la sceneggiatura e si fa aiutare da Joe (Courtney), nella speranza di coinvolgere Alice (Fanning), da cui è attratto. La ragazzina si dimostra attrice brava e però si interesserà a Joe, figlio del vicesceriffo Jackson Lamb (Chandler). Della compagnia fanno parte anche Cary (Lee), appassionato di “botti†d’artificio, Martin (Basso) e Preston (Mills). Mentre stanno girando una scena emotivamente impegnativa vicino alla ferrovia, i ragazzini assistono a un impatto terrificante del treno merci contro un furgone che va contro la locomotiva correndo sul medesimo binario. Il carico del treno si rivelerà misterioso, frammenti di oggetti si spargono in giro mostrando una strana potenza distruttrice. Presto il paese entra in confusione, muoiono alcune persone, manca la luce, l’evacuazione generale sembra l’unica soluzione mentre l’esercito si muove in gran segreto tentando di occultare la causa della minaccia. Siamo in epoca di guerra fredda e c’è chi pensa ai Russi, ma la sorpresa sarà ben diversa – non chiarissima, per la verità. Un po’ pasticciata e debole nella motivazione la trama (sceneggiatura dello stesso Abrams), più divertente è seguire le riprese dei bambini in Super 8. Il loro feeling cinematografico ha l’aria di essere “vero†mentre la mostruosa apparizione finale, che non riveliamo, è insieme sproporzionata e inutile rispetto alla storia e alla sua soluzione. Il maggiore interesse del film sta nel curioso contest tra il cinema dei bambini, serissimo, e l’ingenuità forzosa del cinema dei grandi (occhio ai titoli di coda). Il nome di Steven Spielberg tra i produttori non basta a garantire un sentimento autentico.

 


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1 commento

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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart