CINEMA: I film visti da Franco Pecori8 Ottobre 2011 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini] Il villaggio di cartoneIl villaggio di cartone Un gruppo di clandestini africani trova rifugio nella chiesa dismessa dov’è rimasto il vecchio Parroco, solo e sconsolato, a occupare la canonica. Gli operai hanno staccato dalle pareti i quadri dei santi, hanno calato dall’alto il grande Crocefisso e sguarnito completamente l’altare. Gli immigrati accostano i banchi e li coprono con dei cartoni, a formare un piccolo “villaggio†posticcio. Svuotata dei simboli liturgici, la chiesa si popola di nuovi fedeli, miseri e derelitti. Il prete ritrova le ragioni di vita che gli sembravano essere cadute. «Ha inizio un tempo – dice Olmi – in cui il mondo ha bisogno di uomini nuovi e giusti ». Parole come carità e fratellanza ritrovano il loro significato, a fronte dell’arroganza di quanti (bravo Haber nella parte del comandante di una “ronda†locale) vogliono mettere “ordine†nel mondo che si rinnova e nonostante la presenza di una componente terroristica (la cintura di candelotti pronta all’uso) tra i nuovi arrivati. Sceneggiato dal regista con il contributo di Claudio Magris e Gianfranco Ravasi, quest’ultimo lavoro  dell’autore de Il posto, de L’albero degli zoccoli, di Centochiodi è il primo suo film in cui la tesi è espressa in modo esplicito e didascalico, non scaturisce dalle immagini ma le spiega, ne indica passo passo l’interpretazione. Il patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati sotto cui è stato realizzato Il villaggio di cartone sottolinea l’importanza del tema, di estrema attualità , ma purtroppo la poesia di Olmi questa volta è soltanto enunciata, resta sulla carta. Il film è di maniera, solo parzialmente riscattato dalla sensibile interpretazione di Lonsdale nel ruolo del vecchio prete. Final Destination 5Final Destination 5 La morte non può attendere. Se ti salvi da un disastro (il crollo di un ponte, per esempio, dove si trova il pullman con un gruppo di impiegati in gita aziendale) per cui era previsto che te ne andassi, la morte si ritiene ingannata e ti perseguiterà . Al massimo ti può concedere uno scambio: uccidi un’altra persona e ti prenderai la vita che a quella rimaneva. Parola di coroner. Quinto film della serie cominciata in Francia nel 2000 con l’opera prima del regista di Hong Kong, James Wong (Dragonball Evolution, 2009), quest’ultima versione ricalca l’espediente narrativo originario del giovane che ha una premonizione e “vede†ciò che capiterà di lì a poco, restando poi prigioniero di un meccanismo mortale. È  l’ennesima ripetizione, contando – pare – sull’insaziabile avidità del “risaputo†da parte di un pubblico (giovane) disponibile a sentirsi rassicurato dalla ripetitività del format. Steven Quale (anche per lui si tratta del primo film) gestisce la “novità †esaltando il carattere spettacolare (3D) della catena persecutoria che colpisce gli otto superstiti del disastro d’apertura (il ponte) a scapito dell’ironia, che invece era più marcata in Wong. L’imperativo “uccidere per vivereâ€, pur disvelandosi molto avanti nel racconto, vi proietta tutto il suo peso con l’aria di essere una cosa seria – aria supportata dalla credibilità tecnica degli incidenti sistematici e horribili che, uno alla volta, arrivano puntuali a eliminare i sopravvissuti della gita iniziale. «D’ora in poi – aveva avvertito il coroner – state tutti attenti ». Abduction – Riprenditi la tua vitaAbduction A Nathan (Taylor Lautner, lo Jacob di Twilight) la vita è stata rapita. Il ragazzo frequenta il liceo e fin da bambino si è sentito come estraneo a se stesso, ha sempre avuto la sensazione di vivere la vita di un altro. John Singleton (Boyz n the Hood – Strade violente 1991, Rosewood 1997, Shaft 2000, Baby Boy – Una vita violenta 2001, 2 Fast 2 Furious 2003, Four Brothers 2005) è bravo a trasmettere il disagio del protagonista con le sequenze introduttive, la quotidianità di Nathan è uguale e diversa da quella dei coetanei, fuori e dentro casa, con i compagni e con i genitori. Quando poi si entra un po’ di più nei particolari, proprio mentre l’amicizia con Karen (Lily Collins), la ragazza vicina di casa, sta andando verso qualcosa di sentimentalmente più definito, Nathan scopre in Internet di essere in un sito di persone scomparse, c’è la foto di sé bambino e non possono esservi dubbi. Scatta così la ricerca della propria vera identità . Kevin (Jason Isaacs) e Mara (Maria Bello), l’uomo e la donna con cui è cresciuto sono i suoi veri genitori? Si parte da un’istanza che sembra soprattutto psicologica e si vedrà che siamo in un ambito più complesso, in una sorta di Bourne Identity giovanile, tanto che cominciamo a notare anche una “somiglianza†dell’attore con il Matt Damon del film di Doug Liman (2002). Emerge il genere spionaggio. Fughe, inseguimenti, uccisioni, carambole, lotte di tutti i tipi si susseguono a ritmo sostenuto, azione e thriller si fondono nella caccia a Nathan da parte di uomini armati e forniti dei più moderni mezzi tecnologici; e il ragazzo, mentre cerca disperatamente insieme a Lily di sfuggire alla cattura, persegue la propria caccia, per individuare e trovare il suo vero padre. Ruoli importanti hanno Alfred Molina nei panni di Burton, agente della Cia, e Michael Nyqvist in quelli di Kozlow, il “cattivo†che vuole rimettere le mani su una certa lista rubata da uomini i quali hanno poi venduto informazioni di stato. Capita che quella lista finisca in un telefonino nelle tasche di Nathan. E ora il ragazzo è rimasto solo con Lily, l’unica persona di cui può fidarsi. Alla fine sapremo chi è il vero padre del protagonista e perché ha voluto/dovuto nascondersi e “nascondere†il figlio. Si chiarirà anche il profilo della Dott.ssa Bennett (Sigourney Weaver), la psicologa “protettiva†che ha seguito sempre Nathan da vicino. Stando al cast, di grande richiamo, si penserebbe a un film spettacolare e insieme di importanti contenuti. Lo spettacolo non manca ma resta confinato in un prodotto spiccatamente dedicato allo spettatore adolescente, dove per altro i temi della “formazione†finiscono per lasciare il campo alla pura dimensione avventurosa. Jane EyreJane Eyre Una bravissima Wasikowska/Jane Eyre affascinata da un Fassbender/Edward Rochester alquanto legnoso ripropone (fuori tempo massimo?) l’eterno romanticismo della ragazza orfana maltrattata e povera e del piacente e un po’ scontroso signore la cui ricca dimora è teatro del dispari e fatale incontro. La sceneggiatrice Moira Buffini (Tamara Drewe) ha affrontato l’arduo compito dell’ennesima riproposta (in Italia, ricordiamo la Jane Eyre/Charlotte Gainsbourg di Franco Zeffirelli, 1995, e ancor prima la versione televisiva di Anton Giulio Majano, 1957, con Ilaria Occhini)  del romanzo di Charlotte Brontë (1847) nell’unico modo, forse, possibile oggi: animando in positivo il carattere dell’eroina, spennellandolo di una grinta nuova e di una coscienza femminile postromantica più accentuata. L’attrice si porta dietro ancora l’immagine del personaggio di Alice in Wonderland (Tim Burton, 2010) e ciò le giova per dare alla sua Jane un aspetto non solo orgoglioso ma perfino un po’ aggressivo, una Jane che non si arrende al destino e lo affronta mai abbassando lo sguardo. Le atmosfere inglesi (nebbia, pioggia e verde cupo all’esterno, luce di candela all’interno) si addicono, ben realizzate dalla fotografia di Adriano Goldman, alla vicenda dai risvolti un po’ misteriosi, raccontata in flashback nel momento in cui Jane fugge dalla dimora di Thornfield e trova rifugio nella casa del pastore St. John Rivers. La parte centrale del film è la più convincente, quando il regista (al suo secondo lungometraggio dopo Sin Nombre, premiato al Sundance nel 2009 e non uscito da noi) si affida alla forza della protagonista. Un po’ scolastico, invece, il ricordo iniziale dell’infanzia di Jane, la zia cattiva, l’arcigno direttore del collegio, ecc. Comunque, rispetto alla figura di Jane, il personaggio di Edward stenta ancor più a decollare, resta quasi un enunciato. La difficoltà è in parte dovuta alla zona d’ombra semi-horror situata al piano superiore di Thornfield, rumori e una strana voce di donna tengono spesso sveglia Jane. Ma il mistero non fa presa abbastanza e i turbamenti del Signor Rochester non emozionano, non giustificano emotivamente la drammatica soluzione del mancato matrimonio con Jane Eyre. Improvviso e “teorico†risulterà anche il ritorno della ragazza alla vecchia dimora e il finale incontro del “vissero feliciâ€.
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