CINEMA: I film visti da Franco Pecori12 Maggio 2012 [Franco Pecori  dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera.  È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini] Il richiamoIl richiamo Il richiamo del titolo è soprattutto un richiamo cinematografico. La macchina da presa è attratta dal materiale profilmico – sia il piede d’un pollo, sia il dorso d’una balena, l’orizzonte sconfinato della Patagonia o una vecchia barca da rimettere in mare o anche soltanto la mano sulla tastiera di un pianoforte – in maniera necessaria e insieme frammentaria. I particolari vanno a formare un insieme pieno di incognite simboliche e un vuoto di senso compiuto, organico e aperto non solo al respiro dei personaggi ma al complesso delle “cose†visibili e invisibili di cui è costituito il racconto. È  certo che Lucia (Sandra Ceccarelli) e Lea (Francesca Inaudi), ciascuna per proprio conto, rispondo a un richiamo che viene dal profondo delle loro vite, diversissime eppure destinate a incrociarsi per un destino di “superficiale intimità †impossibile da definire senza perderne il sentimento, ma ciò che conta di più è la sfida, consapevole a livello di regìa, tra il limite d’un romanzo d’amore e la decostruzione d’una trama affettiva che mentre delinea il proprio progresso sfugge al consolidamento e predilige la fuga. Così sembra, fatto salvo il finale in forma di tango che riapre il gioco di un’esistenza a due (donne), pronta di nuovo – siamo portati a immaginare – a frammentarsi secondo necessità del richiamo. Stefano Pasetto, dopo il primo lungometraggio  Tartarughe sul dorso  (2005), già intriso di micro-ellissi di montaggio, conferma la sua tendenza alla fusione costitutiva di racconto e visione in un cinema tendente al non detto, un cinema dell’attrazione che si sofferma sugli “oggetti†per la difficoltà (impossibilità ?) di definire le “ideeâ€, coglie nei comportamenti il richiamo di un filo conduttore che il cinema non si sente di fermare in una sola immagine.  Lucia e Lea, provengono da due storie e da due mondi lontani tra loro, ciascuna con i suoi segreti, con le insoddisfazioni della vita di coppia – bravi i loro due uomini (César Bordón e Guillermo Pfenning)  nell’esservi e non esservi, come richiesto dalla condizione “instabile†delle personalità – con i sogni e le depressioni, con gli affetti e i disturbi (in Lucia fino al limite della malattia grave). La sceneggiatura, dello stesso Pasetto e di Veronica Cascelli, pur con qualche cedimento all’â€esibizionismo†della discrezione, lascia il dovuto spazio all’indefinizione espressiva, permettendo ai due caratteri di vivere di vita propria. Non in tutte le sequenze il livello espressivo tiene fede alla concezione estetica programmaticamente rigorosa, il risultato sfiora a tratti l’ingenuità , ma è degno di rispetto il tentativo di realizzare dei film secondo una concezione del cinema non standardizzata. Tutti i nostri desideriToutes nos envies «Credete a tutti i vostri desideri »: è lo slogan  di uno di quei volantini che si possono trovare nella cassetta della posta. Andar dietro a simili suggerimenti può costare caro. Il 3% dei francesi, quasi 8 milioni di persone, non riescono a pagare i debiti contratti con le società di credito che, disposte a prestiti piccoli ma con alti tassi di interesse, non hanno scrupoli a trascinare in tribunale i debitori insolventi. Può succedere però, mettiamo a Lione, che il giudice sia una giovane donna come Claire (Marie Gillain,  Autoreverse  2003,  L’enfer  2005,  Coco avant Chanel  2009), coscienziosa nel cercare di impedire la condanna di Céline (Amandine Dewasmes,Les amants réguliers  2005), madre di una compagna di scuola della figlia e “strozzata†dai prestiti al consumo. Capita anche – e qui il racconto si arricchisce di altri sentimenti – che Claire trovi aiuto in un collega più esperto, Stéphane (Vincent Lindon,  Chaos  2001,  Welcome  2009), e che tra i due nasca una certa simpatia. Claire è molto combattuta, ama il marito (Yannick Renier) ma non sa restare indifferente verso quell’uomo, sposato anche lui, disincantato nel lavoro ma appassionato di rugby, contenuto e corretto nel gestire la propria attrazione ma non per questo meno affascinante. Mentre i due s’impegnano a cercare soluzioni giuridiche che salvino dai debiti Céline – e Claire le offre addirittura ospitalità in casa – proprio per Claire arriva la sentenza dei medici: non le resta molto da vivere. Oltre all’elemento emozionale si aggiunge qui il tema importante delle scelte che riguardano la cura quando il male è senza speranza. Il film prende una piega melodrammatica, mantenendo tuttavia la complessità del contenuto. Coinvolgenti le sequenze di Claire in un’â€ultima†fuga verso il fiume, accompagnata da Stéphane il quale la salva “inutilmente†dalle acque gelide. Tratto dal romanzo di Emmanuel Carrère,  â€Vite che non sono la miaâ€,  Tutti i nostri desiderisi aggiunge al precedente film di Philippe Lioret,  Welcome  (2009), confermando la vocazione del regista parigino per un impegno che non lasci in sottordine la prospettiva umanistica delle storie più attuali. SisterL’enfant d’en haut Simon, il ragazzino (Kacey Mottet Klein), ha lo stesso volto di Julien, il figlio minore di Marthe (Isabelle Huppert) e Michel (Olivier Gourmet), la coppia di “baraccati consapevoli†che in  Home, il precedente film di Ursula Meier (2008), viveva  in mezzo a un campo a pochi metri da un’autostrada non finita. Di quella strana famigliola facevano parte anche due sorelle, la più grande delle quali, Judith (Adélaïde Leroux), sopportava quell’esperienza in disparte, prendendo il sole sul prato e pensando di andarsene. Passata dalla Semaine de la critique di Cannes alla Berlinale, la regista francese sembra aver seguito il destino di Judith. Ora la ragazza si chiama Louise, ha le sembianze di Léa Seydoux, attrice più che emergente, avendo conosciuto autori come Quentin Tarantino, Ridley Scott, Woody Allen; e qualcosa di non espresso al tempo di  Home  sembra dover emergere nel nuovo personaggio. Simon, orfano, la conosce come sua sorella, una sorella strana, con i suoi stivali bianchi e senza nemmeno una giacca a vento contro il freddo: va e viene ogni volta con un uomo diverso e soprattutto con l’aria scontenta e strafottente della giovane assalita da un destino contrario. Si vogliono bene e a loro modo cercano di aiutarsi, ma in sostanza sono soli, ciascuno aggrappato alle piccole opportunità occasionali e senza prospettiva per il futuro. Il bambino, pur avendo 12 anni, sembra più consapevole della propria sorte, cerca di mantenere un certo ordine di vita quotidiana, si organizza per la stretta sopravvivenza, si arrangia trafugando e rivendendo sci, tute e altri oggetti nella stazione sciistica dove si aggira durante i periodo tra Natale e Pasqua, quando la montagna è maggiormente frequentata dai turisti. In un certo senso, Simon è un “lavoratore stagionaleâ€, un po’ come gli addetti all’impianto della funivia o alle cucine. Nel saliscendi della cabina il film trova il suo ritmo e un’indicazione di senso “provvisorio†che lega il bambino alla ragazza sul filo di un’inquietudine non solo sociale. Il merito della Meier è di non cedere a rimandi facili verso l’â€esterno†e di attenersi invece, pur con qualche sfasatura dovuta alla ruvidezza stessa della regia, al singolo/singolare mondo dei due personaggi, autonomi nel loro tratteggio soltanto “abbozzatoâ€. Se è vero che non sappiamo bene chi siano Louise e Simon – e nonostante la “rivelazione†che a un certo punto arriva sull’identità della giovane, restano indefinite le radici e i contorni del personaggio -, questa indeterminatezza della loro vita è però anche la forma estetica del film della regista francese. Il suo cinema ci tiene in una suspense attualissima, non assuefatta alla resa prospettica. Un’eccezione nel sistema dei megaprodotti “finitiâ€. Dark ShadowsDark Shadows Ce la ricordiamo, non ce la ricordiamo: ma che importa? La serie televisiva americana da cui il film di Tim Burton è lontana e perduta nel tempo (1966-’71) e la sua memoria non conta al fine di giudicare questo nuovo  Dark Shadows. Nuovo? questo, se mai, il punto. Mentre Tv e cinema più stanno separati e meno probabile è il danno per il cinema, vale la pena di considerare il portato “illuminista†del film con Johnny Depp rispetto alla tematica “vampiro†in generale e, in particolare, all’influenza oscurantista che negli ultimi tempi può avere avuto sul pubblico giovane una certa trasformazione del genere classico. Pensiamo alla saga  Twilight, dove le ragazze sono messe di fronte alla scelta di una forma di vita anziché l’altra, il ragazzo reale e il vampiro “buonoâ€. Tim Burton non propone simili alternative. E comunque il Barnabas/Depp lotta proprio contro la vendicativa Angelique/Green, configurando una specie di manifesto del giusto rifiuto verso la stregoneria in funzione amorosa. Il vampiro non è vampiro per destino ineluttabile e storico ma per la reazione della strega non corrisposta. Dalla presa di coscienza del proprio stato, “provvisorio†anche se esteso per secoli nel tempo, deriva una sorta di istanza disvelatrice che nel protagonista si manifesta sia a livello di sceneggiatura (Seth Grahame-Smith) sia di interpretazione attoriale. Le sottolineature espressive che di solito Depp usa specialmente a vantaggio della propria caratterizzazione vanno qui più fruttuosamente a vantaggio dell’esplicito rapporto dell’attore col pubblico. Burton lascia volentieri che il vampiro Depp sia quasi la guida per una nostra visita a casa Collins, una guida che fa ciò che il bravo insegnante dovrebbe fare a scuola, rendendo gli allievi consapevoli dei passaggi e delle relazioni anche le più lontane e meno ovvie tra elementi diversi della storia. La famiglia matriarcale (Michelle Pfeiffer è Eliabeth Collins) e  la sua trasformazione imprenditoriale nel viaggio dall’Inghilterra al Maine (la questione delle fortune aziendali e delle possibili eredità ), la figlia minore Carolyn (Chloe Moretz) che segna gli esiti culturali nelle forme del paradosso pedagogico tipico del 1971 e dintorni. E via dicendo, ciascun componente è il punto di riferimento per un possibile riesame della vicenda secondo un’ottica di aggiornamento.  È pur vero che, a tratti la chiave dell’esplicito ironico si materializza in didascalia (punta massima è l’apparizione del mito shock rock Alice Cooper in persona durante la festa Happening celebrativa della rinascita dei Collins) rischiando di attenuare l’efficacia complessiva della forma pop, ma sostanzialmente il “confronto†interno della visione seicentesca con l’â€attualità †dei nostri anni Settanta produce in alcuni momenti un divertimento non poco istruttivo. «Se un uomo può diventare un mostro, allora un mostro può diventare un uomo ». Perfetto il tentativo grottesco di “trasfusione†del sangue – l’idea viene alla psichiatra di famiglia Julia Hoffman (Helena Bonham Carter). Più scontata l’attribuzione di bellezza sexy alla strega (Eva Green). Per il resto, la famiglia Collins è sufficientemente standard per apparire verosimile nel contesto televisivo in cui nasce, ma Burton ne corregge a dovere i connotati amplificando la spettacolarità degli spazi e utilizzando gli effetti digitali con proprietà di linguaggio. Letto 2214 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||