CINEMA: I film visti da Franco Pecori18 Maggio 2013 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini] Il grande GatsbyThe Great Gatsby Jay Gatsby, il protagonista del romanzo di Francis Scott Fitzgerald, The Great Gatsby (1925), vive la sua esistenza pienamente immerso nell’Età del Jazz. La definizione di quel periodo, gli anni ’20 negli States, appartiene alla storia e non sarà certo arbitrario ricordare come fu allora che alcuni tra i più significativi musicisti del XX Secolo si siano espressi al più alto grado artistico, uno per tutti Louis Armstrong. La musica proveniente dai campi di cotone del Sud, dalle strade e dai bordelli di New Orleans, trasferitasi a Chicago e poi a New York è qualcosa di più che il background di una civiltà in grave espansione, ne segna il carattere corruttivo e volgare, rappresenta in forma di suono la qualità inconscia di un’autocritica collettiva implicita che porterà alla grande crisi del ’29. E’ nel jazz che la volgarità della situazione viene sublimata e si trasforma in valore estetico, tanto da potersi riproporre oggi e sempre, anche al di là del riferimento storico preciso. La lettura che di Gatsby (Leonardo Di Caprio nel film) ci dà Fitzgerald è, non a caso, filtrata dal racconto di Nick Carraway (Tobey Maguire nel film), figura di narratore grigio e conformista, una specie di mezzemaniche della vita, al quale l’energia neoromantica del sognatore contiguo appare come un miraggio inspiegabile. Il film di Baz Luhrmann sottolinea più volte la posizione ambigua di Nick, “dentro e fuori†rispetto a un contesto semi-estraneo. Ma qui è il punto critico: Nick è il film, è l’identificazione sul versante della volgarità , rappresentata attraverso se stessa in un raddoppio del senso, tipico oggi della cultura pop. Nick non è più Fitzgerald, il jazz viene tradito, sostituito da quella che erroneamente è scambiata per una sua attualizzazione in termini di resa espressiva. Travisamento doppio, perché – fuori dal film – la sostanza (forma propria e referenzialità esterna) della musica degli Anni Ruggenti “racconta†quell’epoca in modo specifico e intraducibile; e perché, in maniera altrettanto specifica, il sound odierno (soprattutto hi-pop) scelto da Craig Armstrong per animare il film, mentre descriverebbe passabilmente un affresco della nostra volgarità attuale, denuncia con inadeguato asincronismo scenografico l’impertinenza estetica. Inevitabile l’impressione di uno scambio di forme, esso sì volgare. Non si tratta, sia chiaro, di un discorso da musicologi, gli è che la musica andrebbe presa, specie quando esplicitamente definisce un’epoca, per ciò che è e non solo per l’effetto che può fare a livello di sound. La chiave musicologica “facilita†fino al rischio di confusione l’interpretazione del film dell’australiano Luhrmann, già autore di riletture “epocali†come Romeo+Giulietta (1996) e Moulin Rouge (2001). Ammesso che ci si spinga a considerare “pop†il jazz degli anni ’20, come valutare la funzione di un “equivalente†pop odierno nella metafora implicita, quale la propone quest’ultimo  Gatsby, in una forma comparativa tanto poco indispensabile? Perché mai il popolo dei festaioli americani, nella corsa al disastro del secondo decennio scorso, dovrebbe ballare un charleston finto? Finirà per attenuarsi di molto il portato della  forma principale del film,  dichiaratamente scenografica (Craig Pearce insieme al regista). Le grandi feste occlusive della coscienza che la grande casa esibizionistica del parvenu losco e innamorato ospita con scopo attrattivo tendono a coprire il fondo della storia sentimentale di Jay e di Daisy (Carey Mulligan), fino ad annullarne quasi il valore drammatico – che infatti si manifesta solo nel finale, rattenuto comunque nella cifra espressiva del film, secondo la legge non da oggi dilagante del volgare espresso con volgarità . Grandi mezzi (200 milioni di dollari per 142 minuti) e cast adeguato, di grande richiamo, invitano a una fruizione rilassata che accantona l’ipotesi di una riflessione sulla qualità del sogno americano. Le stesse maschere dei protagonisti segnalano un’abbondante convenzionalità , tendente a retrocedere la pur indubbia bravura degli attori. Altri Gatsby nel cinema: Letto 1904 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||