CINEMA: I film visti da Franco Pecori11 Ottobre 2008 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.] Disaster MovieDisaster Movie Non sarà che il vizio di  Jason Friedberg e Aaron Seltzer è divenuto ormai incurabile? La coppia di sceneggiatori californiani ha cominciato col nuovo secolo a sfornare parodie di film di successo, creando una scia che sembra non volersi arrestare: dalla scrittura di  Scary Movie (2000)  e  Scary Movie 2, 3,  4 (2006)  alla scrittura e regia di  Hot Movie (2006), alla scrittura, regia e coproduzione di  Epic Movie (2007),  3Ciento – Chi l’ha duro la vince (2008), fino a quest’ultimo Disaster Movie, è stata tutta una serie di “versacci” ai generi, selezionati col criterio della notorietà (“Box Office”)  dell’originale. Qui siamo al catastrofico, dalla Preistoria (10.000 AC) a Indiana Jones e Batman, da Cloverfield a  Hulk e Iron Man  a Sex and City, con intercalari strampalati  che progressivamente intaccano  lo spazio-tempo (High School Musical, Non è un paese per vecchi) e amminestrano i materiali alla rinfusa, secondo un concetto burlesco (“spoof-movie”) del cinema, che pare piaccia soprattuto ai popcornisti e ai cinefili più giovani. Certo, per apprezzare l’operazione occorre frequentare spesso le sale, altrimenti il divertimento diverrà del tutto meccanico, privo di feeling. E comunque, rispetto alle prime prove, i due più recenti film hanno accentuato  un sapore di esercizio un po’ fine a se stesso. Per paradosso, diremmo che, a volte, un entusiasmo forzato può risultare peggiore di un’autentica malinconia. Con l’accumularsi delle parodie, il vigore satirico si attenua e viene in primo piano il (dis)valore parassitario di film che devono la vita ai loro originali. Del resto, il discorso vale per tutto il cinema, soprattutto di genere, in cui i riferimenti e i rimandi sono consustanziali al quadro delle  opere; e in cui il valore estetico (attenzione: l’estetica non è la “filosofia del Bello”!) è proporzionale, per così dire, alla capacità di rielaborazione e ristrutturazione dei materiali in funzione espressiva (in senso forte). Friedberg e Seltzer non devono credere che la loro “ispirazione” sia al riparo da offuscamenti sol perché il cinema continua a produrre i suoi film. Guardando in casa nostra, possiamo attingere alla lezione di “Franco E Ciccio”. Franchi e Ingrassia non erano meno “demenziali”, ma avevano in dote una retroterra teatrale ben indentificabile, al di là del singolo  spunto parodistico. The WomenThe Women Qualcuno se ne approfitta perché il popolo delle Scienze della Comunicazione e dintorni, sia pure in crescita, non è ancora abbastanza numeroso da  metter bocca  nel paragone con l’originale, col film di George Cukor, del 1939, dove, solo per fare un nome, Joan Crawford aveva il ruolo di Eva Mendes, Crystal, la donna che mette in crisi il matrimonio di Mary  (Ryan)  e la sua amicizia con Sylvie (Bening). Ma facciamolo qualche altro nome: Norma Shearer, Rosalind Russell, Paulette Goddard, Joan Fontaine, Mary Boland. C’è una battuta in questo film di esordio della English, «Dove credi di essere, in un film degli anni Trenta? »: non possiamo credere che si riferisca alle Donne (1939)  del regista di Incantesimo (1938, con Katharine Hepburn e Cary Grant). Sarà l’aria stressata del XXI Secolo, sarà la frenesia di voler tagliare il traguardo eliminando il percorso e saltando dalla sitcom televisiva al grande (in teoria) remake di Cukor (e ne fece un altro, nel 1956,  David Miller, Sesso debole?), ma non perdiamo la testa pure  noi che, in Italia,  strafacciamo filmetti della domenica, tutti barzellette “da maestri”. Qui non ci siamo proprio col background, qui l'”alta società ” dell’originale si è trasformata in un cicaleccio da magastore, un “vorrei ma non posso” che traduce in un falsetto rapido e insistente l’irrefrenabile discesa verso il trionfo di Molly (Ennenga), agghiacciante bambina “trentenne”, amore della mamma Mary e calamita vincente nella lotta di Adulterio e Fedeltà . Le scarpe e gli abiti d’autore non bastano. E non basta perfino la bravura delle attrici, se  la loro tecnica svanisce in una progettualità fredda, imprigionata in  un prodotto mediano disdicevole verso la dignità del modello. The mistThe mist Nebbia. Bibbia contro scienza, Apocalisse contro staminali: più nebbia di così… Una cittadina del Maine viene sconvolta da una forte tempesta e quindi invasa da una fittissima nebbia, che nasconde una misteriosa  minaccia. La gente si riversa nel supermercato per fare provviste e vi rimane intrappolata. L’edificio è scosso da un terribile terremoto. C’è anche David (Thomas Jane)  col suo bambino Billy (Gamble). E c’è una serie di tipi, nella classica situazione che “fotografa” le qualità e le mostruosità degli esseri umani. Buoni, cattivi, generosi, violenti, timorosi, increduli, religiosi, fanatici. C’è anche la signorina Carmody (Marcia Gay Harden), nota per essere un po’ squilibrata, che brandisce il volumetto della Scrittura e annuncia la vendetta divina (il Dio è quello del Vecchio Testamento) per i peccati del mondo. Uscire, non uscire, difendersi all’interno del negozio o affrontare i mostri là fuori, guardare in faccia la realtà ?  Mentre i  mostri prendono progressivamente forma, strani tentacoli, strani insetti, strane ragnatele,  la loro aggressività si rivela non meno pericolosa dell’ottusa conflittualità tra i “prigionieri”. Si va verso la catastrofe, si attende l’esito positivo ma c’è poco da stare allegri. Darabont (Le ali della libertà , Il miglio verde, The Majestic)  conduce bene la danza horror, seguendo con buona tecnica (aiutato anche  dagli effetti speciali) il filo della suspence tipica di Stephen King, dal cui racconto trae il film. Gia nella classica fase preparatoria, la successione delle scene evita l’ovvio e segue una logica di montaggio giustamente non-nervosa, senza però cedere ad una calma troppo convenzionale. La tensione trova il necessario equilibrio tra psicologia e azione, il rapporto tra razionalità dei comportamenti, sperimentazione scientifica e misteri della vita trova corpo espressivo nell’invenzione della nebbia che tutto avvolge. Peccato che ad un certo punto il velo ideologico si alza e lascia che la tesi prevalga con eccessiva irruenza. La scienza ha preso la mano all’uomo, gli scienziati (insieme ai militari, ma è un’attenuante?) hanno «aperto un buco » e «l’altro mondo è entrato ». Ha ragione  la signorina predicatrice, sia pure nella sua “follia”? Il fatto che il racconto resti a dir poco sospeso, appeso ad un finale tragico e urlato (non aspettatevi l’Happy End), costituisce una scelta inquietante. La classe – Entre les mursEntre les murs Meno vero del vero o meno falso del falso? Apparentemente, un anno nella classe di una scuola media francese (20 ° arrondissement di Parigi). Un professore precisino e moderno che viene messo in crisi da studenti “difficili”. Ma dipende dalla lettura che se ne può fare, unicuique suum. La “verità ” del cinema, come noto, non è rintracciabile nel referente ossia nel materiale profilmico. Non basta mai, la relazione con l’immagine finale, come noto,  è molto più complessa di quel che si può credere. In questo senso, l’operazione del regista (A tempo pieno, Verso  il Sud)  -l’idea gli viene  dal libro-diario di un vero professore, François Bégaudeau, il quale poi si è preso anche la responsabilità di mettere la propria faccia nel film – è normalmente fallita. E invece è riuscita rispetto al livello usuale di “falsità ” che il cinema ci ha abituati a farci passare per “vere”. In altre parole, entro i muri della scuola che vediamo “vivere” per 128 minuti, si svolge una dialettica in tempo non-reale, rappresa in montaggio e restituita alla visione con un carico di senso che ha richiamato l’attenzione della Giuria di Cannes (Palma d’Oro). E può fruttare una catena interessantissima di discussioni post-visione, buona per una serie infinita di dibattiti sul tema scuola-società . Saranno, è il destino di tali dibattiti, non proprio decisivi al fine del miglioramento della scuola e della società . Ma c’è un altro aspetto del  lavoro (comune a tutto il cinema, se vogliamo), che La classe di Cantet in particolare suggerisce di assumere come principale nella lettura del film. Il merito del regista è di suggerircelo senza didascalismi, bensì con lo stesso linguaggio del film, non accontendosi di una finta registrazione di ciò che accade in aula o appena fuori, ma tagliando e cucendo le scene con rigore espressivo mentre, immaginiamo, le ha lasciate abbastanza libere al momento delle riprese. Così i caratteri, le persone sono “vere” e, insieme, il discorso è ricco di senso. Sarà il caso di prenderlo dall’inizio. Forse il primo problema della scuola è nella gestione dei linguaggi, nella loro convenzionalità , che va dall’uso dei significati al senso che ne deriva e alle relative pratiche (che solo pratiche non sono mai) nella società . Qui partiamo dalla parola “difficile”. Riferita al comportamento degli studenti, ha un significato non semplice (ma il significato non è mai del tutto semplice, dipendendo dai tempi e dal contesto – storia e attualità ) e un senso convenzionale molto sincretico. Con ragazzo “difficile” i professori intendono: difficile da educare, quasi sempre attribuendo la difficoltà a ragioni esterne alla scuola, individuabili nelle condizioni sociali da cui lo studente proviene. Ma “difficile” si può (e si deve) riferire anche alla didattica in senso stretto (che tutto stretto non è mai), cioè alla difficoltà di insegnare nozioni, comportamenti e valori, commisurando la gradualità dell’insegnamento alla situazione culturale e psico-sociologica degli allievi, intesi questi uno per uno e anche nel complesso della classe, senza con ciò tradire il mandato, né specifico né più generale, che la società assegna all’istituzione pedagogica. Insomma un bel problemino, i cui aspetti e livelli, diversi e relativamente differenti, non sempre sono relazionabili in modo omogeneo nell’ambito del corpo docente, giacché i professori, a loro volta, costituiscono in ciascuna scuola altrettante classi. Problemino non-facile, se si pensa che fin qui abbiamo mantenuto a livello implicito il punto di vista dei ragazzi, che invece va considerato a specchio. Come infatti mostra La classe: per le allieve e gli allievi, è Bégaudeau il professore “difficile”. In tutto l’arco del film la tensione drammatica  è mantenuta alta ed è per questo che i temi interni al racconto (il rapporto tra altezza ed estensione della lingua-cultura, tra le regole e le sanzioni, tra scuola e genitori-società , tra  “umanità ” e formalizzazione dell’educazione – il Consiglio  Disciplinare) restano interni e discreti rispetto al piano estetico.  Non a caso il film ha un finale aperto, o meglio lasciato aperto, per il semplice motivo che chiuderlo sarebbe stato troppo “difficile”. Rimane impressa l’espressione della ragazzina che, salutando Bégaudeau (l’anno scolastico è finito), gli confessa: «Non ho imparato niente, non capisco quello che facciamo ». È il problema di ogni relazione, non solo della scuola. 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Pingback by celebritycelebrities.com » Blog Archive » CINEMA: I film visti da Franco Pecori — 11 Ottobre 2008 @ 22:05
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