CINEMA: I film visti da Franco Pecori29 Marzo 2008
Nessuna qualità agli eroiNessuna qualità agli eroi Antonioni, va bene. Chiaro. Ma senza sentimento. E Antonioni non  è complicato. Tutt’altro. E’ molto semplice, solo che si accetti lo speciale sguardo che non fa differenza tra gli “oggetti” (persone e cose) e li tratta con equivalente “dignità ”. Con  Franchi, siamo a scuola. La chiave psicoanalitica, nel tentativo (ambizione) di entrare nel profondo dei  personaggi, produce un effetto “mistero” più vicino al quiz (noir esistenziale è la formula)  che all’impulso estetico e l’incastro ellittico delle sequenze denuncia il distacco, la fredda determinazione dell’autore (sì, perché di cinema “d’autore” si tratta), di esibire una posizione non-ingenua rispetto alla materia, alla sostanza del contenuto. Gli ingredienti sono congrui. Bruno (Todeschini), il protagonista, vagola un po’ imbambolato per le vie, gli uffici, le camere da letto (una moglie ce l’ha, Anne/Jacob,  ma col suo “riserbo”  la fa soffrire fino a costringerla a salutarlo), addossandosi (letteralmente, nel senso del corporale) la responsabilità di una specie di disperata afasia (dall’accento francese/svizzero, però). Il coprotagonista (Luca/Germano), complementare (attenzione, non è una parola a caso), è molto nervoso, si muove a scatti, da una crisi di panico all’altra, smozzicando man mano frasi sconnesse sul suo rapporto col padre. Ne fa le spese la sua ragazza (Elisa/Campironi),  giovane, inconsapevole e violentata in diversi modi. E per Bruno è una persecuzione, il giovane gli sta alle costole, se lo ritrova sempre più spesso accanto  – cominciamo anche a sospettare che Bruno si stia facendo male da solo…  Tutto nasce dalla difficoltà di restituire ad un usuraio la somma avuta in prestito. Oppure dalla notizia, avuta dal medico, di non poter avere figli. Sterilità e odio del padre (il padre pittore, che usava le impronte dei figli – Bruno ha una sorella, Cécile/De Medeiros, la va trovare, cosciente di una complicità che dobbiamo immaginare – per il suo capolavoro, “Nessuna qualità agli eroi”, da lui stesso detestato) vanno a formare la metafora centrale, sempre più trasparente col passare dei minuti (102). Pericolo di pennichella non ce n’è, la musica e tutto il sonoro danno forza (molta) ai passaggi e agli attacchi, rammentandoci che  il filo  va seguito senza distrazioni. Interessanti anche i titoli, di testa e di coda, con una loro discrezione, di corpo piccolo sul nero. Un bacio romanticoMy Blueberry Nights Wong Kar Wai, 2007 Vista da vicino, da molto vicino. L’America di Wong Kar Wai, sessantenne di Hong Kong, pubblicitario raffinatissimo  e innamorato del proprio stile (Eros – La mano, 2046, In the mood for love), a guardar bene, è molto convenzionale. Sembra diversa per via dell’ottica fotografica che la coglie prevalentemente  in dettaglio. Gli oggetti più usuali, un bicchiere, la vetrina di un bar, una torta di mirtilli, un paio di scarpe, due labbra, il riflesso di una vernice metallizzata, diventano paesaggi fiabeschi, che sembrano le chiavi per entrare nell’intimo dei personaggi, li “impastano” nel loro background e ne restituiscono una dimensione “morale”. E si tratta di una morale “indefinita”, che sembra  lasciare al plot tutta l’apertura possibile, perché vivere liberi nel paese delle grandi distese comporta anche un’angoscia del decidere, una suspence dell’azzardo. Al primo film girato negli Stati Uniti e  in inglese (ma sulla targa di origine si legge Francia-Hong Kong) il regista cinese con abbonamento a Cannes  manovra il simbolismo iconologico come fosse un’anima in pena. Norah Jones da cantante diventa attrice e indossa i panni della giovane donna delusa in amore. Subito una sequenza di struggente esistenzialismo da bar (in senso tecnico, non spregiativo), una fetta di torta e un bacio ultraromantico – il particolare lo vedremo alla fine (ma non deve sembrare un banale flashback) – e via, si parte per un viaggio semi-interiore durante il quale si incontrano persone e oggetti tutti importanti alla stessa maniera. Perno inamovibile, il barista Jude Law funziona da  calamita sentimentale non dichiarata, ma è intuibile che la sua attrazione finirà per risultare  irreristibile. Tra l’inzio e la fine, purché non sembri una narrazione troppo  lineare o progressiva, incontri umanistici del tipo “strana compagna di viaggio pokerista insensata” (Natalie Portman), o “poliziotto alcolista  con moglie sventata”  (David Strathairn e Rachel Weisz). L’importante è che il giro si compia. Tutta la vita davantiTutta la vita davanti «È strana, è laureata ». Può capitare che una tesi di filosofia, in particolare su  Marin Heidegger e  Hannah Arendt, possa venire premiata con il massimo dei voti, la lode e il bacio accademico e che la  ragazza laureata sia costretta a tamponare le necessità quotidiane con un lavoro a tempo, 400 euro al mese, in un call-center.  Si sentirà estranea e le diranno che è «strana ».  Il giusto contrappasso per una filosofia troppo “debole” o “leggera”  (in Italia, Vattimo, Severino)  per sostenere il peso della crisi postmoderna? Il tema che Virzì ha scelto per la sua nuova commedia di costume galleggia – come dire –  al centro della  vasca in cui sguazzano e  rischiano di affogare, folle di aspiranti Fratelli (e Sorelle) della Grande Tv, in attesa che “questa società ”  fornisca loro una soluzione diversa. L’inferno, intanto, li brucia. Il repertorio di pene è ciò che il regista, con lo sceneggiatore Francesco Bruni, esibisce come lasciapassare, di ritorno dalla visita in azienda, la Multiple Italia (elettrodomestici). Virzì prende spunto da una satira della scrittrice Michela Murgia, esperienza di vita messa online in forma di blog, e la restituisce al cinema con il suo stile sorridente e amaro, ben collaudato nel ‘94 (La bella vita), quando la Ferilli era “la Lollo degli anni ‘90″, e poi felicemente sviluppato in Ovosodo, My name is Tanino e Caterina va in città . La storia di Marta (Ragonese bravissima), la “filosofa” senza raccomandazioni, che passa dall’aula tombale della seduta di laurea (ma è proprio ridotto così il pensiero accademico?) al desk delle venditrici-telefoniste, è raccontata dalla voce fuori-campo di Laura Morante –  sembra che non si possa fare più un film senza l’ausilio del “narratore” (cattiva coscienza letteraria).  Nella prima parte, quando vieniamo introdotti nella struttura del call-center,  l’accumulo di tipicità è talmente vistoso da destare il sospetto di un’insicurezza  verso la  trasparenza del “messaggio”, ma poi vengono fuori angoli di “umanesimo”, man mano che Virzì si sofferma a “spiare” i risvolti privati dei personaggi. E non solo di Marta, la quale, nell’immersione dei turni e dei premi, degli esercizi motivazionali e delle angherie psicologiche, si salva dall’annegamento (alienazione) anche grazie all’altro lavoretto, che ha trovato, di baby-sitter. Tutti gli altri, ciascuno al suo livello, hanno comunque a che fare con una “verità ” e con una “poesia” della vita, che, sia pure in negativo,  configura la consistenza delle loro diverse  situazioni in un destino più generale, politico. Claudio (Ghini) è il boss un po’ farabutto ma tenero con la figlia che non vede mai, Daniela (Ferilli) è la telefonista, capo implacabile ma innamorata persa del boss, Lucio (Germano) è il venditore tradito dalla  propria convinzione, Giorgio (Mastandrea) è il sindacalista un po’ sfigato (non c’è più  molto da fare?), Sonia (Ramazzotti) è la svampita irrecuperabile (meno male che per la sua deliziosa  bambina c’è Marta). Tutti bravi, gli attori reggono bene il compito di far vivere le figure quanto basta a non restare completamente prigioniere del tracciato simbolico. Si attende un finale. C’è una trovata un po’ “pazza” e sbrigativa, che non riveliamo. C’è l’ Oxford Journal of Philosophy che finalmente si decide a pubblicare il lavoro di Marta. Ma in sostanza,  la morale della favola rimane incerta, un po’ vaga e leggera. Come la filosofia della laureata? Letto 2261 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||