CINEMA: I film visti da Franco Pecori18 Aprile 2009 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.] Focaccia BluesFocaccia Blues Tratto da una storia vera? Ma sì, uno in più o uno in meno! La realtà va di moda al cinema (Bova poliziotto, operaie assassine del padrone, mostri in mezzo a noi, assedio delle mafie, diversi non si sa da chi, studenti che fanno l’onda) e alla Tv (reality e molto altro), peccato le virgolette, che anche se non le vedete ci sono – a meno che non crediate all’obbiettività dell’obbiettivo (e allora consideratevi inguaribili). Certo non è detto che la “realtà ” sia di per sé una brutta cosa, ma dipende dalla qualità artistica e, prima ancora, dalla coerenza tra intenti e pertinenze di linguaggio (e di che altro?) rispetto al contenuto (forma e sostanza del). Tutto questo discorso per un “filmetto” rapido e disinvolto? Proprio qui è il punto. Il referente della focaccia è nientemeno che la globalizzazione, tema pesantissimo e universale per suo conto. Humor e ironia non mancano nei raccontini che Cirasola lega per mettere insieme il discorso. A volte vediamo cose risapute (gli antichi mestieri che vanno a morire, i sapori tradizionali che tentano di non sfuggire al gusto) ma riportate con garbo e senza lungaggini come si dovrebbe fare per ogni buon servizio giornalistico televisivo, altre volte dobbiamo perdonare accentuazioni di senso al limite del dilettantesco (la presenza “western” dell’inquietante Manuel con la sua fuoriserie gialla). Siamo ad Altamura (Bari), paradiso del buon pane e della focaccia. Nove anni or sono il prezioso pane casereccio giganteggiò, a sorpresa, sul colosso del fast food americano McDonald’s. A sorpresa? Non tanto, stando alle testimonianze della gente raccolte dal regista: la piccola panetteria lì accanto tolse in pochi mesi tutti i clienti al gigantesco locale pieno di hamburger e di luci colorate. Ora quella realtà diviene “realtà ” in un film. Niente di male, però la sproporzione – ecco il punto – tra tema pesantissimo e soluzione molto leggera (c’è persino un siparietto con Banfi e Arbore che disputano in cucina tra fungo cardoncello e lampascione, Bari contro Foggia) blocca il film sul filo di un “equilibrio” forse un po’ furbo: restare alla culinaria per ridere o rilanciare seriamente la sfida dello slow food accettando i rischi (quali?) dell’inimicizia multinazionale.  Equilibrio che funziona ancor meno nel temino analogico della sala cinematografica d’essai (una sorta di focaccia del cinema), condotta non si sa perché da Vendola e  col proiezionista che bacia la pellicola interpretato da Placido. Avremmo visto meglio personaggi presi dalla “realtà ” come per la focaccia. In ogni caso, nei panni del proiezionista abbiamo immaginato, per contrappasso, quel Banfi il quale, protagonista nel 2008 de L’allenatore nel pallone 2, ebbe a dire: «Non è un film d’arte, ma preferisco incassare ». Comunque, quando la disputa Banfi-Arbore finisce poi in musica, con i due che si sfidano nel cantare la canzoncina in forma di blues, si ha l’impressione che il Blues venga coinvolto a propria insaputa. E non se lo merita. Certe situazioni, storicamente, non gli appartengono. Fast & Furious – Solo parti originaliFast & Furious E quattro: Fast and Furious (2001), 2 Fast 2 Furious (2003), The Fast and the Furious: Tokyo Drift (2006), Fast  & Furious – Solo parti originali (2009).  Una certa  passione per le auto ruggenti continua. E si presenta con i medesimi ingredienti: coattume alla moda, esistenzialismo meccanico, giustizia fai da te, canto clandestino  dei motori, incanto delle carrozzerie.  E sotto sotto, buoni sentimenti: l’amicizia e l’amore vanno al di là dei recinti “sociali”, si può rischiare la vita per un principio di fedeltà . E per favore, non toccate la sorella/Brewster (di Toretto/Diesel). La distinzione tra bene e male è affidata quasi esclusivamente alle facce, ma per vederci chiaro e cogliere le sfumature decisive bisogna essere superesperti. Altrettanta esperienza e raffinatezza di gusto estetico richiedono le automobili. Non ci addentriamo in un campo che non è il nostro. La droga, il poliziotto infiltrato (O’ Conner/Walker)  nella mala, l’ex galeotto cuor d’oro e ferocia a fior di pelle: aggiungete burro quanto basta (una certa voglia di “tornare a casa” che fa pensare a Lassie) e la torta rombante è pronta per cuocere. Forte, energetica, la regia di Lin (il taiwanese già director di Spotlighting, Annapolis, Finishing the Game: The Search for a New Bruce Lee, oltre che del terzo Fast/Furious), dietro la scorza di una certa competitività periferica, lascia più che intravedere una consapevolezza, che sfiora la sapienza, dell’importanza delle apparenze. E non è solo di cinema (sarebbe perfetta ovvietà ) che stiamo parlando. Il problema di film come questi, se non sei né un vero coatto né un coatto intellettuale, è come leggerli. Dice: ma è vietato essere normali? E come, con quella giostra iperuranica di movimenti truccati che ti spingono di fotogramma in fotogramma nel vortice dell’indistinto? La cercheremo la normalità , speriamo di trovarla. Altrimenti, pazienza. La vita segreta delle apiThe Secret Life of Bees Alla ricerca della madre perduta. Tiburon, Sud Carolina. L’adolescente Lily (Fanning: La guerra dei mondi, 2005, La tela di Carlotta, 2006) vive una profonda crisi dovuta al terribile incidente che le capitò a soli 4 anni, quando involontariamente uccise la madre. Dal padre Ray (Bettany), che non ha mai mostrato di amarla, è  fuggita insieme alla governante Rosaleen (Hudson). La giovane donna, “negra”, come ancora si diceva con disprezzo in quella regione (è il 1964, il presidente Lyndon Johnson firma la legge sui diritti civili, ma il razzismo è ben lontano dall’essere cancellato), è affezionata a Lily con quel sentimento che avevano le “tate” una volta. Le due “fuggiasche” vengono accolte nella casa/fattoria delle tre sorelle Boatwright, August (Latifah), June (Keys) e May (Okonedo), dedite alla coltura delle api. E proprio un’ape entrata dalla finestra dà a Lily lo spunto per una ricerca interiore che la porterà a scoprire i segreti della mamma. Il suo amore verso di lei e il suo rapporto con Ray. Man mano sale in primo piano il tema del razzismo, inteso soprattutto nel suo rovescio spirituale, giacché ai soprusi e alle arroganze dei bianchi si contrappone la spiritualità e la generosità dei neri (le tre sorelle e le altre persone della casa sono afroamericane). Spicca così l’armonioso e progressivo aggiustamento affettivo di Lily, quattordicenne bianca che vive la sua favola soggettiva eppure di portata sociale. I due lati della medaglia ambiscono a formare un tutto narrativo che non sempre si mantiene a livello espressivo adeguato, ma in sostanza trasmette un senso della vita progessivo, in cui la tradizione non è di ostacolo all’epoca nuova che si profila. Non per niente, tra i momenti convincenti c’è la scena dello “spiritual” cantato dalle sorelle Boatwright durante la funzione religiosa, un canto che tocca il cuore di Lily, confermandole la validità della sua ricerca. Brava la giovane attrice e bravissima Queen Latifah (premiata cantante di Rap e di Rithm & Blues) nella parte della matriarca August. Questione di cuoreQuestione di cuore Il “cuore”, cioè un certo modo di fare attenzione e di dare valore ai sentimenti, è stato nel cinema di Francesca Archibugi, fin dagli inizi – Mignon è partita (1988) Verso sera (1989) e fino a Lezioni di Volo (2006), il filo di sostanza umana dei personaggi e delle loro storie. Anche qui il tocco resta delicato e si può apprezzare la capacità di cogliere dal “misto” del mondo circostante il segno di una sensibilità non rinunciataria, persino rischiosa. Si parte dal cuore inteso come malattia di cuore, l’infarto, e si arriva ad una configurazione di una  metafora complessa, realistica e surreale, tutta incarnata nei destini scenici di Alberto (Albanese) e di Angelo (Rossi Stuart). Il primo risponde meglio al ruolo di scrittore per il cinema, sceneggiatore un po’ in crisi, svogliato e spaesato a Roma (ha un accento del nord) eppure vivo e focoso, se si accende di curiosità – un Albanese così autentico che in certi momenti sembra voglia uscir fuori dallo schermo; il secondo, romano, carrozziere e meccanico che “mette da parte”, froda il fisco, compra case, costruisce famiglia, giovane ardente con la moglie incinta (Ramazzotti brava, “semplice” e intelligente) ma di carattere malinconico e riflessivo, si lascia un po’ andare nell’appoggio della recitazione (lo faceva anche Nino Manfredi, a volte), approfittando proprio del mal di cuore che, lo sa, gli lascia poco da vivere. I due sono capitati l’uno accanto all’altro all’ospedale per via dell’infarto. Hanno chiacchierato, hanno avuto voglia di conoscersi meglio. Per Angelo, Alberto rappresenta un mondo ancora da scoprire, dove ci si può guadagnare la vita senza sporcarsi le mani di grasso, e nello stesso tempo il meccanico avverte dentro di sé una specie di dubbio: vuoi vedere che lo scrittore divertente, affermato, spiritoso, ha un sacco di problemi pure lui? Rovescio della medaglia: Alberto sente che è arrivato il momento della concretezza e che quel suo istinto di osservazione con cui va avanti a scrivere storie deve forse provare a indirizzarlo verso la propria vita, non più soltanto immaginata. È un incrocio che si capisce bene e che Archibugi riesce a mantenere fuori dallo schema. Personaggi e dettagli si armonizzano in forma di commedia lasciando appena intravedere, come dev’essere nella commedia, risvolti esistenziali impegnativi. Tutto questo va  ottimamente nella zona centrale del film, che purtroppo non è un film perfetto per via dell’avvio esageratamente lungo nella “presentazione” di personaggi e situazioni e nei richiami ambientali, con un’eccessiva preoccupazione di dire tutto, di spiegare tutto (come in Tv?); e per via del tratto finale, dove il morbido andamento della “conclusione” risulta ridondante rispetto a ciò che si era già intuito. La sostanza del lavoro resta comunque apprezzabile per la tendenza ad arricchire il senso, andando oltre il suggerimento primario, un po’ ovvio, del “rinascere a nuova vita” e simili. Nel rapporto di Alberto e Angelo la regista sa cogliere pezzi di realtà che riguardano i due personaggi e che  rappresentano anche  un contesto vivente, amorevolmente indagato, ripescato dalla confusa stratificazione dell’attuale. Per esempio Roma. In Questione di cuore c’è una Roma non smemorata, che non è dato vedere nel cinema dei nostri anni. Il discorso vale pure, in un tutt’uno, per la conduzione degli attori, guidati per mano e insieme  liberi di trovare la propria autenticità , cosa rarissima di questi tempi. E non vale solo per i protagonisti. Basti vedere i ruoli di Francesca Inaudi (Carla, la donna che sa lasciare “libero” Alberto) o di Chiara Noschese (Loredana, la caposala in ospedale) e le apparizioni di Villaggio e Verdone, curate come fossero da primo piano. Letto 5150 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||