CINEMA: I film visti da Franco Pecori14 Novembre 2009 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini] Good Morning AmanGood Morning Aman Aman (Sabrie), ragazzo somalo a Roma, parla italiano e sogna di vendere automobili e di sposarsi. Gli nasce un problema di solitudine quando il suo amico Said (Nour) se ne va a lavorare a Londra. Aman non dorme la notte. Sul tetto del palazzo dove va spesso ad aspettare il giorno incontra Teodoro (Mastandrea, ben calato nel personaggio), anch’egli insonne. Con lui può scambiare qualche parola, ma il tipo si rivela molto strano, difficile, affettuoso a suo modo e a suo modo impenetrabile, distaccato. Sembra covare un problema dentro. All’incirca quarantenne, Teodoro viene dal pugilato ma qualcosa deve averlo estromesso ed ora vive solitario nella casa dov’è nato, lasciatagli dai genitori. Aman lo sente come una possibile compagnia, ma non riesce a capire se l’ex pugile sia un bravo padre in crisi (lo vede tentare di riappacificarsi con la moglie e avvicinarsi alla figlia) o un “gran figlio di…” . Il ragazzo rimane poi stordito dall’esplosione di violenza che segue ad una rimpatriata di Teodoro con gli amici dello sport. E pensare che in certi momenti gli sembra perfino di aver trovato un buon padre. Si va avanti così, indagando il possibile incontro delle due solitudini, un po’ “pedinando” i personaggi, un po’ “rappresentandoli” in primo e primissimo piano, come tentando di entrare nella loro anima, finché un giorno Aman chiama Said al telefono e gli dice che vuole raggiungerlo. Roma si è rivelata una città infida. Anche Sara (Caprioli), la bionda di cui Aman stava per innamorarsi si perde nel giro sbagliato. Ci sarebbe un fratello in Canada, rapper di successo, ma forse è troppo lontano e chissà quanto potrà durare il suo momento buono. Si finisce con lo schermo nero. Mistero. L’occhio di Noce (primo lungometraggio dopo la pubblicità, i corti e i video musicali) tratta con pari dignità i due protagonisti, avvicinandosi fino al dettaglio oppure seguendoli a mezza distanza, con discrezione. Il regista utilizza le diverse ottiche come se la loro “grammatica” non fosse convenzionale ma rispondesse ad una propria legge interna, costitutiva. Corre così il rischio di utilizzare gli obbiettivi trasferendo automaticamente la forma espressiva sul piano dei contenuti, fino ad arrivare quasi al paradosso di una rigidità del senso, un po’ come accadrebbe a chi, volendo dire “Parigi”, mostrasse la Tour Eiffel. E invece, magari diciamo un’ovvietà, le funzioni espressive dell’ottica non si trovano scritte nell’ottica. Ecco che, allora, la scelta stilistica non può evitare, per così dire, le proprie responsabilità estetiche a fronte del contenuto. Non a caso, quando si tratta di chiarire, finalmente e parzialmente, il nodo psicologico di cui soffre Teodoro, Noce ricorre a flash esplicativi, i quali chiariscono sì la situazione interna del personaggio, ma attenuano di molto la sua precedente diffusa ambiguità. Il contest rappresentazione-narrazione finisce per non tenersi fino in fondo. D’altra parte, i ripetuti “pedinamenti” di Teodoro e Aman per le vie e per gli anfratti di Roma, sarebbero apparsi già inutili a Rossellini, come lo stesso maestro neorealista ebbe a insegnare. È vero che nel cinema spesso la “realtà” fotografica dice di per sé molte più cose o più efficacemente di quel che possano le parole, ma il problema di Noce sembra restare nell’oscillazione tra realismo referenziale e costruzione psicologica. Che poi è forse il problema stesso che blocca Teodoro nella sua esistenza irrisolta. Un alibi perfettoBeyond a Reasonable Doubt Falso su falso uguale vero. La formula non è tanto riferita al fatto che questo “alibi perfetto” è un rifacimento non letterale di Beyond a Reasonable Doubt (con Dana Andrews e Joan Fontaine) – il ”noir” con cui Fritz Lang, nel 1956, chiudeva la sua esperienza americana – quanto all’intreccio che, dopo oltre mezzo secolo, viene confermato da Hyams (Atmosfera zero, 1981, Condannato a morte per mancanza di indizi, 1983, 2010 – L’anno del contatto, 1984, Giorni contati, 1999) con qualche aggiustamento sui personaggi e sulle loro motivazioni. Nicholas (Metcalfe), il protagonista, è un giovane giornalista di “nera”. E il contesto lascia intravedere scenari politici degni del nostro tempo: Hunter (Douglas), il procuratore “falsario”, trucca le accuse falsificando la prova del Dna. Nicholas dà sfogo alla propria irrefrenabile ambizione di successo e prova a costruire la trappola per bloccare Hunter. Si farà accusare di un omicidio, preparando al contempo i dettagli in base ai quali verrà dimostrata non solo la propria innocenza ma soprattutto la falsità dell’accusa, la corruzione del procuratore. Aiutano Nicholas il suo collaboratore Corey Finley (Moore) ed Ella Crystal (Tamblyn), assistente di Hunter. A questo punto, siamo in una situazione che potremmo definire hitchcockiana, dato che abbiamo gli elementi sufficienti per seguire il filo del thriller. Per il “noir” mancano però i connotati stilistici. Soprattutto per la figura di Nicholas, impersonata in modo inadeguato. E comunque l’azione è solo a tratti montata con efficace “oscurità”. Va meglio quando il film assume più semplicemente un carattere di thriller e vediamo Ella rischiare la vita, dato che Hunter ha scoperto il gioco. Ci sarebbe poi il nodo finale, la svolta della “verità” dopo il doppio falso. Ma ci dobbiamo fermare, ovvio. Gli abbracci spezzatiLos abrazos rotos Giallo cinefilo. Romantico. Composito. Artificioso. Logorroico e simbolico a strati, senza però che il senso cresca col moltiplicarsi delle situazioni e dei tempi. Eppure autentico, rispettoso della dignità dell’autore, di sé. Almodí³var si prende il suo, continua a filtrare e trasmettere sensazioni, colori, sentimenti, non badando a spese: fino a pagare, per un po’ di cinema, il prezzo della cecità. Il protagonista è cieco, il regista è cieco, noi siamo ciechi, finché non percepiamo il senso del film e lo assumiano come cinema. La trama non conta poi tanto. Le allusioni esplicite ai film classici, di Rossellini (Viaggio in Italia), di Malle (Ascensore per il patibolo), di Powell (L’occhio che uccide), di Fellini, di Lang e di ogni altro dicono che si vive tutti immersi nel mito delle immagini e delle favole (Audrey Hepburn, Marilyn Monroe…).Vediamo e siamo ciechi sì e no, in base alla nostra storia intima e tattile, buia e luminosa. Proprio come una pellicola che scorre nel proiettore, o come i pixell che vediamo riprodotti nel monitor. Questo il succo. Almodí³var ci gira attorno e sembra che la trottola non voglia fermarsi mai. A tratti emerge il layout di un fumetto, le scene s’intrecciano in una serie di flash che vanno indietro e avanti, valorizzano i ricordi, spiegano le situazioni, colgono i frutti del racconto dalla bravura degli attori, ritagliano profili dei personaggi e li incollano in un sincronismo che cancella e nello stesso tempo chiarisce. Gli abbracci spezzati continua il pathos di Volver traducendolo in una metafora “di genere” che cede all’attrazione del montaggio, alla suspense delle passioni. Si segue un “giallo” e si cerca l’”assassino” di Matteo Blanco (Homar) cineasta. Quando il suo amore per Lena (Cruz) fa ingelosire Ernesto Martel, malefico spasimante e protettore della ragazza, si alza una montagna di ostacoli e il plot si complica. Madri, figli, tradimenti, genitori, sospetti, innocenze. I destini si sdoppiano e si incrociano, sostando a volte in pause impressionistiche che attenuano la tensione e insieme rilanciano la corsa verso il finale. Nodo importante, la confessione di Judit (Portillo), agente di Matteo addetta alla produzione dei suoi film. Il regista è tornato in sé dopo essersi sdoppiato in Harry Caine in seguito all’incidente d’auto che ha spezzato i suoi abbracci con Lena. Ma per lui il bello deve ancora arrivare. In una seduta al bar con Matteo e col suo giovane “assistente”, Diego (Novas), Judit si rivela e dà profondità umana alla propria vicenda di donna, buona e cattiva. Ora Diego vede Matteo con altri occhi e il regista, non più Harry, può tornare al suo film che attende un nuovo montaggio, più vero e risarcitorio dell’”assassinio” consumato da Ernesto sui materiali di Chicas y maletas (Ragazze e valigie), lasciato incompiuto da Matteo e Lena, amanti in fuga. «I film vanno terminati [solo terminati?] comunque, anche da ciechi ». E non basta. Il figlio di Ernesto offre a Matteo l’immagine “rubata” dell’ultimo bacio in macchina prima dell’incidente. Un dono tattile, ormai. Matteo lo vede toccandolo. I sensi del cinema non sono finiti, se vogliamo essere cinefili. 20122012 Enorme, spettacolare favola catastrofico-fantascientifica. Altro che “nuova glaciazione” (L’alba del giorno dopo, 2003). Emmerich affronta ancora il tema di una “fine del mondo” annunciata (i Maya già sapevano), ma questa volta il fenomeno “ultimo” è dovuto allo strano comportamento dei neutrini. L’uomo non può più farci niente. Sono loro a determinare tempeste solari così forti da far salire rapidamente la temperatura interna del Pianeta, modificando la posizione delle placche terresti col conseguente prodursi di un’immensa catena di terremoti, di esplosioni laviche, di tsunami. Nel 2012, Los Angeles e le metropoli di tutto il mondo verranno distrutte. Sarà la fine. L’impressionante accumulo di sommovimenti cattura l’attenzione dello spettatore per buona parte del film, in un crescendo mai visto (efficacissimi effetti digitali) di catastrofi progressive, mentre i presidenti e i capi di governo dei maggiori Paesi, assistiti da scienziati e tecnici, sono impegnati in febbrili calcoli e in trattative per salvare il salvabile. Lottano anche contro il tempo, visto che le previsioni si stanno rivelando più “larghe” del vero. Occorre pensare alla sopravvivenza almeno di un numero ristretto di individui per assicurare un futuro all’umanità. La Cina ha preparato tre grandi navi, capaci di resistere all’impatto. Rivive il mito dell’Arca. Due delle imbarcazioni supertecnologiche sono riservate a persone selezionate con criteri scientifici. La terza ospiterà gli animali e i possessori di costosissime prenotazioni, roba da ricconi russi. Nel caos generale si muovono una serie di personaggi, dal presidente degli Stati Uniti, Thomas Wilson (Glover), e sua figlia Laura (Newton) al suo consigliere scientifico, Adrian Helmsley (Ejiofor) e al capo dello staff (Platt), ciascuno con la sua carica di umanità e di responsabilità. Il premier italiano ha preferito rimanere a Roma per pregare in Vaticano. Resterà schiacciato dal crollo della Basilica insieme ai preti e alla folla di fedeli. Ma soprattutto c’è la famiglia, la famiglia che si salva. Lo scrittore Jackson Curtis (Cusack) ha rischiato di perderla definitivamente, moglie (Peet) e due figli, a causa dell’eccessivo impegno nella stesura del suo romanzo. Ritroveranno l’unità degli affetti attraverso le più mirabolanti e drammatiche scene di fuga per la salvezza. E anche una nuova famiglia potrà nascere dall’incontro di Adrian con Laura. Lo spettacolo più rovinoso avrà avuto il suo effetto catartico. Nella perfetta tradizione. Letto 2073 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||