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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

28 Novembre 2009

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera.  È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini]

La dura verità

The Ugly Truth
Robert  Luketic, 2009
Fotografia  Russell  Carpenter
Katherine Heigl, Gerard Butler, Eric Winter, John Michael, Nick Searcy, Kevin Connolly, Cheryl Hines.

Se volete la “dura verità” sulla vostra vita o su quella di altri  non andrete certo a cercarla in un reality show, a meno che non siate un perfetto spettatore televisivo identificabile al cento per cento nel target del format  appositamente studiato per  lui, il perfetto. In base a simile ipotesi potete regolarvi sullo strato dell’interpretazione di questa commedia di Luketic (La rivincita delle bionde, 2001,  Quel mostro di suocera, 2005,  21, 2008). Un po’ facile, a prima vista, ma provate a sollevare  l’orpello e  avrete di che esercitarvi  in una lettura del senso più articolata. Questo, intanto,  è ciò che accade  quando il prodotto è ben confezionato, nella sceneggiatura, nella recitazione e insomma nella fase tecnica. Qui i due protagonisti sembrano nati per i ruoli loro assegnati. Abby/Heigl  (The Ringer, Molto incinta, 27 volte in bianco)  è la produttrice di un  programma Tv di provincia («Buongiorno –  esclama il conduttore –  è un’altra splendita giornata a Sacramento! ») che perde colpi in ascolto. Mike/Butler (Tomb Raider, Il fantasma dell’Opera, 300) è un incantatore di spettatori avidi di “verità” sul sesso e più in generale sui rapporti uomo-donna. Abby se lo trova accanto, chiamato dall’emittente per dare una scossa al programma: è uno che sembra dire pane al pane, anche in maniera sboccata. Lei è una fissata del “controllo”, frasi fatte e concetti pure. Le sue  idee standard non sembrano adatte a sollevare lo share, così l’arrivo di Mike si mostra decisivo. La manager ha rischiato di finire nuda alle previsioni del tempo ed  è costretta ad ammorbidire le proprie concezioni. E non solo sul set televisivo ma anche nel privato. La comparsa di Colin/Winter,  giovane medico e bello, richiede l’aiuto dell’esperto in seduzione. Mike è chiamato alla consulenza interessata:  guiderà Abby nella conquista di Colin e  potrà evitare di subire l’ostilità della donna sul lavoro. Poco a poco si delinea tra i due un rapporto intrigante, soprattutto si capisce che la “resistenza” di Abby alle “dimostrazioni” di Mike (l’uomo esibisce, in scene come fuori scena, una sicurezza sfrontata e demolitrice delle convenzioni comportamentali femminili e maschili) non potrà andare all’infinito. Guerra dei sessi? Meglio, disvelamento dei meccanismi, morale e costume, che determinano la “normalità” del contest. E al contempo, confronto sofisticato e seminascosto tra “vita” e sua finzione, la diretta tv e tutto ciò che lo spegnersi delle telecamere lasciano alla “libertà” delle persone. Considerate inoltre che la doppia tematica è svolta nel cinema, il che la riattiva – per così dire – nel film, ad ogni cambio di scena. Se la psicologia dei personaggi è elementare, ciò non significa che i risvolti del senso restino altrettanto “poveri”. Vi meraviglierete se, ad un certo punto, Mike diventerà «selettivo » e Abby una «troietta »? Attenzione perché Sacramento si rivelerà comunque  «un posto ideale per mettere su famiglia ».

Triage

Triage
Danis Tanovic, 2009
Fotografia Seamus Deasy
Colin Farrell, Paz Vega, Christopher Lee, Kelly Reilly, Jamie Sives, Branko Djuric.
Roma 2009, concorso.

Mark (Farrell, notevole la sua interpretazione)  è un bravo  fotoreporter di guerra. Sempre in prima linea a contatto diretto con gli orrori e con i rischi della professione, spesso si fa  scudo dell’ironia e di una certa dose di cinismo  – il film si apre con la scritta: «In guerra si muore perché si muore. Si muore e basta ». Di ritorno a Dublino  dal Kurdistan irakeno  (siamo nel 1988) dov’è stato in coppia col suo collega e amico David (Sives), Mark  non sembra più  lo stesso. Sua moglie  Elena (Vega) nota in lui un’insolita tristezza e anche nel fisico l’uomo appare minato oltre misura rispetto all’infortunio che dice di aver avuto. Noi non lo abbiamo visto, ma abbiamo assistito alla sua drammatica “sosta” in una specie di orrido  pronto soccorso e centro di accoglienza/smistamento (”triage”)  dei feriti, dove il  Dottor Talzani (Djuric)  uccideva con la pistola  gli irrecuperabili per evitare loro sofferenze troppo atroci.  Elena  ha un nonno psichiatra, specializzatosi a suo tempo nel “recupero” dei criminali della guerra civile spagnola.  Il vecchio  ”fascista” Joaquin Morales (Lee) sarà però utile per risolvere in positivo i “disturbi” di Mark, sempre più accentuati man mano che David, non essendo tornato insieme al suo amico,  sembra ormai dover essere dato per disperso. E la moglie Diane (Reilly sta per dare alla luce una bambina). «Portare il dolore con noi sempre, questo è vivere », ammonisce lo psichiatra. In effetti, l’incubo della guerra, con i massacri e i lutti di cui è stato testimone (non mancano scene da “voltastomaco”), persiste in Mark non diversamente – si pensa –  che in tanti reduci, da quella e da altre guerre. Il bosniaco Tanovic (No man’s land, Oscar nel 2001, 11′09”01, September 11 – episodio Bosnia Erzegovina, 2002) non desiste dal rappresentare, con stile comunicativo  non privo di  soluzioni forti, gli effetti della guerra. Dopo la parentesi “drammaturgica” di L’enfer (2005), eccolo alle prese con la tragedia dell’antichissimo popolo curdo. Non immune da tentazioni letterarie (”intervalli” dialettici/filosofici spiegano con cadenza regolare le ragioni e le situazioni dei personaggi), il regista  si affida alla vera e propria divulgazione con il ruolo di Joaquin Morales, sostenuto per altro dignitosamente dal mitico  Christopher Lee. Tutto sommato, al di là dei dettagli truculenti nelle scene di guerra,  il momento decisivo del film è nella citazione finale.  Sono parole del filosofo  ateniese  Platone (427-347 a.C.): «Solo i morti  hanno visto  la fine della guerra ».

500 giorni insieme

(500) Days of Summer
Marc Webb, 2009
Fotografia Eric Steelberg
Joseph Gordon-Levitt, Zooey Deschanel, Geoffrey Arend, Chloë Grace Moretz, Matthew Gray Gubler, Clark Gregg, Rachel Boston, Minka Kelly.
Locarno 2009, Piazza Grande

Il capo ha una nuova segretaria, Sole (Deschane), appena arrivata a Los Angeles dal Michigan. Tom (Gordon-Levitt) la vede e ne resta colpito. Agli amici dice che non è niente,  invece per lui sarà un incontro fatale. Il giovane fa il “creativo” in ditta ideando biglietti d’auguri, ma la sua aspirazione è di esercitare la professione per cui si è laureato, l’architettura. La ragazza, spigliata e carina, se lo fila e non se lo fila, dice subito che non ama le relazioni impegnative. Tom fa finta  che va bene,  ma non per molto: è uno che, proprio al contrario, crede nell’amore che viene all’improvviso e ti cambia la vita, per sempre. Incompatibilità? Sul filo di una scommessa sentimentale, i due protagonisti inseguono l’utopia (le due facce appartengono alla  stessa medaglia) e vanno incontro a continue sorprese, a cambiamenti di direzione, a ripensamenti, a insistenze infantili, a umorismi anche neri. Il regista è alla prima prova (viene dai video musicali) ma non sembra. Narra con spigliatezza e con un gusto per l’invenzione scenica e di montaggio che fa pensare ad un cinema ben consapevole, un po’ di Godard, un po’  di Truffaut e un po’ di quel che può venire in mente ad uno spettatore non digiuno di modernità. In maniera esplicità Webb cita il Dustin Hoffman de Il laureato (Mike Nichols, 1967), ma il suo Tom fa pensare in più di un atteggiamento anche al Belmondo prima maniera. E al modo di trattare con “leggerezza” e non senza coscienza i temi della commedia non è estraneo il cinema francese che fece epoca negli anni Sessanta. Per esempio, le sottili “provocazioni” stilistiche, la grafica nell’inquadratura, i tagli sintetici, le “didascalie” fuori campo, i dettagli che rafforzano la sintassi dei significati; e soprattutto l’ironia amara e sbarazzina. «Cosa c’è tra noi due? », domanda Tom incalzando Sole nella speranza di convincerla ad innamorarsi sul serio. «Non ho idea –  risponde lei -, ma che importanza ha? ». Non sarà una “storia d’amore”, ma non siamo molto lontani. La sorpresa finale, che rintraccia e sigilla il senso della “protesta” in forma di diario (i 500 giorni di un’estate) preannunciata nella dedica iniziale, la lasciamo ovviamente allo spettatore.


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Bart