CINEMA: I film visti da Franco Pecori13 Marzo 2010 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini] LegionLegion Biblico in lingua americana. L’arcangelo Michele è Michael (Bettany), Gabriele è Gabriel (Durand). Hanno le ali e non sarebbe una novità, senonché il mago degli effetti Stewart (Mars attacks!, Iron man), passato ora alla regia, le fa scomparire e riapparire quando e come vuole. In più, fornisce le due creature di armi modernissime da far paura. Che fanno gli arcangeli? Gestiscono una situazione da horror (genere zombi con cataclisma punitivo) dovuta all’ira divina. È in arrivo l’Apocalisse (una delle tante, ma questa pare proprio la più grossa e definitiva) che metterà fine alla cattiveria umana. «Dio è buono e misericordioso finché non si arrabbia ». L’istanza di un Nuovo Inizio presiede al rigurgito medievale modernizzato secondo un allestimento misterico un po’ dozzinale, tanto che alla fine può risultare sbalorditivo e divertente. Basta non credere agli asini che volano e soprattutto si raccomanda di avere dei dubbi sulla propria cattiveria. Altrimenti, la “guerra all’umanità” perderà la sua forza allegorica e finirete per odiare gli arcangeli. Fare attenzione, perché proprio buonissimi non sono. Fisici da palestra, armature aggressive, reattività programmata in funzione della salvezza dell’innocente. Questa è la torta. Assaggiarla fino in fondo significa abbandonarsi all’attesa del parto della cameriera del vecchio bar/ristorante sperduto nel nulla. Suo figlio salverà il mondo. Capìta l’antifona? Il resto conta poco. Cosa volete che sia una vecchietta dall’aspetto buono, la quale invece morde come una belva assetata di sangue e si arrampica disinvoltamente sui muri? Perfino lo scontro culminante tra Michael e Gabriel, feroci e indecisi nella spartizione della Bontà/Potere, sembrerà qualcosa di già visto. E dunque, al parto! al parto! Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo: Il ladro di fulminiPercy Jackson & the Olympians: The Lightning Thief Chi ha rubato il fulmine di Zeus? La ricerca si sviluppa in ambiente mitologico. L’arma più potente non può essere lasciata vagante col rischio di una catastrofe universale anticipata. Sembra incredibile, ma l’inconsapevole Percy Jackson (Lerman) è oggetto di un destino più che strano al giorno d’oggi. I cellulari e le tecnologie digitali più evolute non hanno avuto il modo di demistificare il mondo degli antichi Dei dell’Olimpo. Anzi. Il ragazzo, non proprio bravissimo a scuola, viene a trovarsi in una dimensione assurda, viene a sapere di essere figlio di Poseidone e in quanto tale di avere dignità e potere di semidio. È lui l’indiziato del furto. Dovrà difendersi dalla grave accusa. Giove, Medusa, Chirone, Poseidone, Persefone, Ade, Afrodite, Atena, Era, Dioniso, Ermes entreranno tutti nella sua vita come in una favola vera, scritta da un lettore appassionato, dimentico di Omero ma esperto di Harry Potter. Così, il passaggio dalla bacchetta magica al bastone fulminante può sembrare facile e quasi ovvio. E il retro lucido dell’iPod funzionerà da specchio per dare la caccia alla Medusa (Thurman) senza incontrarne il malefico sguardo. Il Monte Olimpo è proprio sopra New York, gli Inferi sono in California, ai piedi della mitica collina di Hollywood. Tutto realistico, come l’orologio al polso delle comparse dei mitici Peplum-Movies di Cinecittà, molto prima del digitale. L’elmo da guerrieri antichi è indossato dal popolo dei semidei nel campo di addestramento organizzato per loro (Camp Half Blood) con un netto carattere di verosimiglianza che fa pensare a certe forze speciali. A dirigere e comandare c’è un vero centauro (trucco facile con i mezzi attuali), busto e faccia di Brosnan, cavallo tutto il resto. I ragazzi meno bravi a scuola verranno a sapere che un satiro è un giovane simpatico dalle zampe caprigne, il quale a mo’ di angelo custode fa compagnia a Percy nelle sue avventure; e che la figlia di Atena, Annabeth (Daddario), è scesa dai trionfi della soap opera americana per fare coppia con il figlio di Poseidone. Columbus, il regista che viene da Potter ma anche da Gremlins e Home Alone (Mamma, ho perso l’aereo), è andato tranquillo. Ha saputo che Rick Riordan, l’autore della storia fantastica che avrebbe poi preso la forme del libro, primo dei cinque tomi destinati a sbancare il tavolo dei primati, aveva testato l’idea con gli studenti della scuola dove insegna. Nessun dubbio sul successo. Donne senza uominiZanan bedoone mardan Teheran, 1953. Il Primo Ministro Mohammad Mossadegh viene deposto con un colpo di stato, complici gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, e il potere dello shah Mohammed Reza Pahlavi viene restaurato. Quel golpe avrebbe poi portato l’Iran fino alla rivoluzione islamica del 1979. Gli avvenimenti di quella lontana estate fanno da referente storico alle vicende intrecciate di quattro donne, narrate dalla regista iraniana al suo primo lavoro cinematografico, realizzato in tandem con l’abituale collaboratrice Shoja Azari. Emigrata negli Stati Uniti, Shirin Neshat ha praticato finora l’arte delle video installazioni. Premiata con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1999, ha poi realizzato una serie di video dedicati alle protagoniste del romanzo Donne senza uomini della scrittrice Shahrnush Parsipur. L’installazione, articolara in diverse stanze, ha avuto successo nel 2008 in Danimarca e quindi a Pechino e ad Atene. Infine, la versione cinematografica, ispirata sia al libro della Parsipur sia alle relative realizzazioni in videoart. La regia ha avuto il Leone d’Argento alla Mostra di Venezia del 2009. L’approccio della Neshat al lungometraggio cinematografico risente della precedente attività, soprattutto in termini di consapevolezza espressiva. Un certo carattere di “militanza” culturale/politica si sostanzia di una notevole capacità di elaborazione dei linguaggi. Agiscono nel film quattro donne e vanno a comporre altrettanti ritratti con un filo che le lega: la volontà e il coraggio di assumersi la responsabilità di riappropriarsi della propria vita. Il che, nel contesto di cui sopra, può anche significare la rinuncia a vivere, il suicidio, pur di non cedere alla voglia di libertà. È il caso di Munis, oppressa dall’ottusa arroganza del fratello, vittima egli stesso dei pregiudizi che ne condizionano l’amore verso la sorella. Altro destino tragico è quello di Faezeh, violentata mentre sogna una famiglia per sé. E poi Zarin, la prostituta distrutta dall’orrore del suo mestiere; e Fakhri, la quale trova nella maturità la forza di abbandonare il marito per ritirarsi in campagna. Nel suo giardino trovano rifugio le altre e vanno a formare una sorta di comunità ideale mentre a Teheran la situazione precipita nel modo che sappiamo (e vediamo). La rappresentazione assume a tratti un valore spiccatamente simbolico, mantenendo nel complesso un apprezzabile tono poetico. Una sorta di realtà magica va a sostituirsi all’orrore della vita violenta da cui la città è sconvolta. Arte e utopia si legano in una provocazione molto attuale. Mine vagantiMine vaganti Fa ridere, ma prendiamola a piangere. Oppure no, scherziamoci su. Sembrerebbe la storia di uno strano suicidio. La nonna (Occhini) è golosa di dolci, la sua glicemia preoccupa in casa. È una donna dall’aria sofferta, vagamente ironica, mostra sapienza nei rapporti con i figli di suo figlio Vincenzo (Fantastichini), specialmente con il minore, Tommaso (Scamarcio): «Non farti mai dire dagli altri – ammonisce – chi devi amare e chi devi odiare. Sbaglia per conto tuo, sempre ». Parole importanti, pesanti, di cui Tommaso, sensibile e intelligente qual’è, finirà per tenere conto. In ogni modo, il “segreto” che la nonna si porta dentro – verremo a conoscerlo durante il film e capiremo il senso della sequenza iniziale, tipo sogno/ricordo, con la nonna giovane sposa (Crescentini) in fuga e salvata non dall’uomo che veramente ama e amerà sempre – funziona da catalisi morale per i diversi aspetti ed esiti delle vicende che coinvolgono in vario modo tutta la famiglia in quel di Lecce. In superficie, il tema portante sembrerebbe l’omosessualità, tenuta nascosta dai due fratelli Tommaso e Antonio (Preziosi), per difendersi dai pregiudizi aggressivi e condizionanti, incarnati dal loro stesso padre. Tema alquanto ovvio ormai e perciò, forse, svolto virando con una certa insistenza la sceneggiatura (di Ozpetek e di Ivan Cotroneo) in direzione esplicitamente grottesca, ad un passo dalla macchietta suditaliana. Ma, entro questi limiti, il film rischierebbe di non tenere e di risolversi in una facile proposta ridanciana. Non immemore della propria ricerca di “sincerità” e di “coscienza” contemporanea, il regista de Le fate ignoranti, La finestra di fronte, Saturno contro sembra più che mai alla caccia di un suo spettatore ideale da soddisfare. Accenna al dramma, piega verso il comico, attinge alla psicologia, si complica nell’intreccio e, insomma, non trova pace, oscillando dall’inizio alla fine in un’altalena di aspirazioni, tra realismo, colore e sociologia, intrigo e introspezione. Sicché è lo stesso progetto del film, nel suo realizzarsi così variegato, a configurarsi come “mina vagante”, al pari con i personaggi, con le loro aspirazioni, prigionie, frustrazioni, malinconie, ironie, sofferenze, speranze. La principale delle quali è di Tommaso. Lungi da lui la vocazione del pastaio, come invece vorrebbe il padre, titolare appunto di una fabbrica di pasta. Il giovane (giustamente sfumata l’interpretazione di Scamarcio) amerebbe scrivere romanzi e starsene a Roma, lontano dalle beghe aziendali e vicino al suo compagno Marco. Il problema è come dirlo in famiglia proprio mentre si delinea un conflitto con il fratello più grande, il quale all’improvviso decide di confessare lui la propria omosessualità. La speranza di Tommaso è infatti immersa in una situazione ambientale alquanto composita (c’è anche una zia ninfomane ben recitata da Elena Sofia Ricci), che fa pensare alla tradizionale commedia nostrana più “cattiva” e “severa” verso certi difetti della famiglia. Si sono fatti i nomi di Monicelli e di Germi. E però, resta distante il tocco artistico dei due grandi registi. Ozpetek pare preoccupato di rendere chiare le allusioni, lineari le battute, e continuamente aggiunge una “didascalia” al divertimento, una “spiegazione” alla complicanza, frena sul limitare della tragedia, spinge sui risvolti “leggeri”. Perfino il mistero si veste di virgolette, con l’attraente maschera di Alba (Grimaudo), ragazza che seduce senza sedurre, promette senza dire, allude alla possibile diversità senza intaccare davvero le certezze omosessuali di Tommaso. Un giorno tutti si apriranno a tutti? Lo vedremo in un film di Ozpetek? Letto 1962 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||