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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

20 Marzo 2010

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera.  È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini]

Io sono l’amore

Io sono l’amore
Luca Guadagnino, 2009
Fotografia Yorick Le Saux
Tilda Swinton, Flavio Parenti, Edoardo Gabbriellini, Alba Rohrwacher, Pippo Delbono, Maria Paiato, Diana Fleri, Waris Ahluwalia, Gabriele Ferzetti, Marisa Berenson.
Venezia 2009, Orizzonti. Berlino 2010, fc.

Rispettabile tentativo. Non sono molti i registi che  cercano di  fare cinema mentre mettono in atto sceneggiature. Parole grosse? No, se non le si prende per un giudizio di valore. Parliamo piuttosto di metodo. Guadagnino (i suoi film circolano per lo più per i festival, The Protagonists, Mundo civilizado, Cuoco contadino, Melissa P.) ha l’aria di aver voluto  scalare fino in cima la propria piramide artistica offrendo al pubblico una  lampante prova di stile. Prova sconfinante a tratti  nell’esercitazione formale, ma complessivamente non povera di senso. Cioè della consapevolezza, sia pur esibita, del valore della ripresa e del montaggio nella traduzione del racconto in immagini cinematografiche.  Attratti dalla non usuale puntualità visiva della rappresentazione anche  degli ambienti, alcuni hanno pensato a Visconti. Invece, sull’eleganza e l’attrattiva iconologica e plastica prevale decisamente quella sorta di apparente distacco e di accanita “obbiettività” che definiscono il metodo di Antonioni, nel suo “livellamento ontologico” della realtà plastica. Per cui, a dirne una, il sentimento non proprio di simpatia verso una famiglia della  borghesia  industriale milanese risalente al compromesso col fascismo, è connotato attraverso l’interesse paritario della cinepresa  per i volti, le rare parole, i movimenti freddi  e discreti, le decisioni gentili e feroci e  per gli oggetti e i panorami della vita. A delimitare la storia bastano poche battute. Edoardo/Parenti,  figlio  di Tancredi/Delbono,  designato alla successione del vecchio  patriarca (Ferzetti)  alla guida dell’azienda, dice  alla sorella Betta/Rohrwacher, lesbica ed estranea al sistema famigliare: «Betta, è finita. Vendiamo tutto ». E Betta quasi sorridento: «Diventeremo sempre più ricchi ». Quindi la madre Emma/Swinton nel “tragico” e lungo  finale: «Io amo Antonio ». Antonio/Gabbriellini  è il giovane cuoco toscano, altro “estraneo”, il quale si esprime attraverso  i piatti che Edoardo crede realizzati per segreto  trasporto maschile e che invece colpiscono la sensualità di Emma. Chiude Tancredi, il quale reagisce così alla confessione della moglie: «Tu non esisti ».   Battute che fanno ridere? Prese in sé, forse. Ma dentro al metodo di cui sopra hanno più o meno il ruolo di quelle di un Tonino Guerra nei film di Antonioni. Valore paritario con gli oggetti dalla ripresa. Ovviamente la differenza con l’autore de L’eclisse e de La notte c’è e si vede, ma è da misurare piuttosto nella consistenza di valore, nella tendenza di Guadagnino ad insistere, ad  esagerare, sicché la stessa  costruzione della metafora (”sesso e natura”, per esempio) finisce per prevalere sulla propria valenza estetica. E perfino le parti che più attingono ad una dimensione sentimentale/erotica (il nascere e l’esplodere dell’attrazione “trasgressiva” Emma-Antonio)  risultano più  contaminate che determinate  dalla ricerca formale.

Il profeta

Un prophète
Jacques Audiard, 2009
Fotografia Stéphane Fontaine
Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Reda Kateb, Hichem Yacoubi, Jean-Philippe Ricci, Gilles Cohen, Antoine Basler, Leïla Bekhti, Pierre Leccia, Foued Nassah, Jean-Emmanuel Pagni, Frédéric Graziani, Slimane Dazi.
César 2010:  Film, regia e altri sette premi.

Un’analogia tematica piuttosto vaga, suggerita dalla citazione finale della musica di Kur Weill, non colma la distanza tra Audiard e Brecht. Il destino di Malik El Djebene, il “profeta” interpretato dal bravo Tahar Rahim, somiglia sì a quello di Mackie Messer, ma il finale del film conserva un’ambiguità di prospettiva che nell’Opera da tre soldi era invece chiarita dallo straniamento strutturale nonché dall’ironico intervento della regina che salva il condannato e lo fa baronetto. Il giovane di origini arabe Malik, analfabeta e spaesato, si ritrova in carcere per una reazione verso un poliziotto. È presto evidente che la sua condanna a sei anni sarà ben poca cosa rispetto al cambio di vita che lo attende. Dovrà imparare come la detenzione risponda a regole implicite per nulla diverse e anche più dure di quelle che governano la “libertà” civile. Una squadra di carcerati còrsi obbedisce al boss Luciani (Arestrup, Tutti i battiti del mio cuore, Lo scafandro e la farfalla), il quale coltiva Malik fino a farne il suo favorito per i rapporti con l’esterno. Il ragazzo deve farsi assassino e, quando poi è fuori, approfitta dei permessi per far fruttare a proprio vantaggio i contatti malavitosi. Intelligente, impara a leggere e capisce che gli conviene lasciare Luciani per schierarsi con la banda degli arabi, ormai dominante dopo   che la maggior parte dei còrsi hanno finito di scontare la pena. Audiard, realista sensibile (Regarde les hommes tomber, Un héros très discret, Sulle mie labbra, Tutti i battiti del mio cuore), si dilunga con passione a seguire l’evoluzione del personaggio,  si immedesima nel suo sofferto calvario fino a varcare la soglia narrativa. Diciamo si dilunga perché la componente stilistica finisce per andare oltre l’intenzionalità del senso e ci restituisce una vicenda partecipata ma senza sbocchi, nemmeno ambigui (dell’ambiguità estetica).

È complicato

It’s Complicated
Nancy Meyers, 2009
Fotografia John  Toll
Meryl Streep, Alec Baldwin, Steve Martin, John  Krasinski, Hunter  Parrish, Lake  Bell, Daryl  Sabara, James Patrick  Stuart, Zoe  Kazan, Blanchard  Ryan, Robert  Curtis-Brown, Michael  Rivera, Caitlin  Fitzgerald, Peter  Mackenzie, Rosalie  Ward, Emily  Kinney, Emjay  Anthony, Sean  Hamrin, Stefanie  Bari.

Finezze all’ingrosso. Una collina residenziale a Santa Barbara, California. Case bellissime immerse nel verde, automobili di lusso, avvocati, architetti, matrimoni, divorzi. Rispettosa dell’ambiente, Nancy Meyers (Quello che le donne vogliono, Tutto può succedere, L’amore non va in vacanza) ha scritto, diretto e prodotto una sofisticata ricognizione di un universo che in pochi conoscono veramente ma in moltissimi amano immaginare. Immedesimarsi nella situazione dei tre personaggi, Jane/Streep, Jake/Baldwin e Adam/Martin, non è difficile e non è certo compromettente. Tutto fila liscio dall’inizio alla fine, sul filo di un dubbio sistematico che non lascia molto spazio al… dubbio. Qui è la consolazione pronta all’uso. Jane, donna matura e affascinante, da dieci anni è divorziata da Jake, professionista senza problemi di status. Hanno tre figli grandi, sfoggiano manifesta “simpatia” ogni volta che, sia pure con qualche fastidio, si incontrano, trovano che le loro sopraggiunte diversità non siano più, ormai, che normale amministrazione – lui è risposato con una donna più giovane ed ha in casa un bambino piccolo che gli crea qualche problemino, lei ha superato il malessere post-divorzio e,   quanto a sesso, si trova al limite della «vaginoplastica », come confessa alle amiche in salotto raccontando del lungo digiuno. Mentre ancora prosegue la non breve parte introduttiva (quasi un film compiuto), cogliamo Jane alle prese con il progetto di ristrutturazione della sua bellissima casa. Un architetto di alto livello le sta preparando una grande cucina attrezzata, degna della passione della signora per la pasticceria artigianale – come dimostra il grande laboratorio di cui è proprietaria e che dirige con successo. Adam, l’architetto, ha tutta l’aria di non volersi limitare, in un prossimo futuro, al puro rapporto professionale. E qui è un lato della complicanza. Scontenta e affamata non solo di dolci, vitale e prestante, Jane (Streep sempre in gran forma) si   districa con abilità nell’intreccio ragionevole e istintivo,   passionale e   determinato – Jake (l’altro lato) insiste molto per ricongiungere i fili di un rapporto forse mai del tutto chiuso ed ora riacceso.   La sostanza è che la donna è di un’altra categoria rispetto ai due pretendenti, i quali si dimostrano, per un verso o per l’altro, inadeguati. Il problema della “normalizzazione” resta nel sottofondo. A tratti, sembra non riuscire a soffocare del tutto l’istanza di riscatto personale che Jane avverte come una “complicata” tentazione.   Ma   nel complesso, non si va oltre una serie infinita di smorfie e ammiccamenti, repertorio della commedia americana classica. Ed è questo, alla fine, il lato prevalente e consolatorio, che tutto si risolva in una complessità solo apparente. Molte finezze, ma grande semplicità.

Fuori controllo

Edge of Darkness
Martin  Campbell, 2009
Fotografia Phil  Méheux
Mel Gibson, Ray Winstone, Danny Huston, Bojana Novakovic, Shawn Roberts, Caterina Scorsone, Denis O’Hare, Jay O. Sanders, Gbenga Akinnagbe, David Aaron Baker, Tom Kemp.

Memoria televisiva. Campbell, dopo il grande successo di Casino Royale (2007), rielabora per il cinema una serie della Bbc, risalente ad oltre 20  anni fa. E sceglie Gibson per  il ruolo di protagonista, trasformando il poliziotto duro, spietato  e  ”spettacolare” di  Arma letale in un esperto detective della omicidi, onesto e amoroso padre single. Thomas Craven/Gibson, subisce un profondo e inaspettato trauma per l’uccisione di Emma/Novakovic, la figlia ventiquattrenne venuta a trovarlo a Boston  in una rara pausa del proprio  lavoro presso la Northmoor,  società privata di ricerche sotto copertura governativa. Thomas, il quale  non ha mai smesso di  ”sognare”  la sua  bambina, i suoi giochi con lui in riva al mare, oltre ad essere colpito dalla strana morte violenta della ragazza viene incuriosito dagli indizi che man mano vanno a  comporre un quadro  a dir poco sorprendente  della vita di Emma. Qui entra la componente politica del racconto. E mentre la  sostanza narrativa del padre alla ricerca del colpevole che ha distrutto i suoi affetti più cari poteva sembrare scontata, l’attualizzazione del tema britannico/tatcheriano anni Ottanta (il pericolo nucleare) assume connotati così rilevanti da portare in primo piano l’inquietante ipotesi di un affarismo internazionale cinico fino al rischio dell’autodistruzione. Veniamo a sapere – e ovviamante non possiamo rivelare tutto – che Emma aveva scoperto all’interno della Northmoor  un terribile intreccio “industriale” sconfinante, per così dire,  nei territori della jhad islamica. L’ipotesi che un certo traffico, tanto  paradossalmente ignobile, potesse riguardare  i destini stessi del  Paese ha trasposto il genere del film fino a sbilanciarlo verso problematiche forse troppo importanti. Procedendo l’indagine, le crescenti  difficoltà di Craven (scontri fisici e a fuoco) si fanno sempre più esterne al suo mondo e il ruolo dei “cattivi” (Bennet/Huston il capo della Northmoor e Jedburgh/Winstone il misterioso ripulitore di prove) non è che la contrapposizione scontata, anche se ben rappresentata, ad una minaccia  di ben più ampia portata. Il finale un po’ vago è la conseguenza di tale sbilanciamento. A Thomas non resta che continuare a “sognare” Emma. Sua figlia gli sarà sempre  accanto, pure se l’immagine sfuma in una specie di aldilà. Va sottolineata la buona prova d’attore di Mel Gibson, poliziotto umano e credibile in un contesto purtroppo verosimile.


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Bart