CINEMA: I MAESTRI: Dieci anni dalla “Dolce vita”10 Aprile 2013 di Alfonso Madeo Roma, gennaio. Quel giorno, neve a Milano tramontana a Roma. Gio vanni Gronchi andava a Mo sca per incontrarsi con Kru sciov. All’Avana, raffiche di mitra contro Mikoyan. Le cronache giudiziarie s’interes savano al processo Melone e alla causa per l’annullamen to del matrimonio Bergman-Rossellini. L’economia nazio nale conseguiva due risultati positivi: aumento del venti per cento delle esportazioni e riconoscimento europeo alla solidità della lira. Si celebra vano i funerali di Fred Buscaglione, morto in un banale incidente stradale a Porta Pinciana. La classe politica era impegnata nelle polemi che intorno al caso Milazzo in Sicilia. Calati in un’atmo sfera di pigrizia culturale, euforizzati dal miglioramento delle condizioni economiche generali, gl’italiani si avvia vano indolenti all’appuntamento con il giugno tambroniano. Cedevano con gra dualità soddisfacente gli indici di disoccupazione. Si diceva teddy-boy, lolita, ninfetta, fusto e maggiorata.
Storia remota
Fra mille difficoltà logisti che e finanziarie, Michelan gelo Antonioni girava L’av ventura. Achille Lauro pre vedeva incauto: «Lo stadio di Napoli educherà le masse ». Alberto Sordi era Gastone, Vittorio Gassman era II mat tatore. Crisi di Angelillo al l’Inter. Dior ordinava di ac corciare le gonne d’un cen timetro sotto il ginocchio. Il mondo si preparava a giusti ziare il tarzan del cavillo giu ridico, Chessman. Era il 5 febbraio 1960. Sono passati dieci anni da quel giorno. Adesso pare storia re mota. Ma nessuno obietterà sull’opportunità d’una com memorazione in piena rego la. Siamo un popolo vittorio samente incline a celebra zioni d’ogni specie. E, dopo tutto, un decennale è sempre un decennale. E quel giorno all’inizio degli anni Sessanta non fu un giorno qualsiasi. E’ la data ufficiale d’una ri voluzione nel costume e nella cultura della società italiana. Difatti, ricorderete che quel giorno fu presentato al pub blico di Roma e di Milano un film di Federico Fellini de stinato ad incassare miliardi, ad invelenire i rapporti politici fra minoranze e mag gioranze in Parlamento, a turbare le coscienze religiose, ad investire con la violen za di un ciclone le strutture del moralismo benpensante, a scatenare ire clericali, a mo bilitare l’opinione pubblica. Si intitolava La dolce vita. Quel giorno, gl’italiani fu rono costretti a specchiarsi in una immagine crudele e deformante di se stessi, delle proprie debolezze, delle pro prie manie. Prima di quel giorno, dopo il fascismo e la sconfitta, non era mai acca duto che un avvenimento ar tistico producesse tanto tur bamento da indurre un’intera società tradizionale alla revi sione di molti valori e alla presa di coscienza di nuove realtà sociali e psicologiche. Ciò avvenne in un clima di scandalo. Il film era interpretato da Marcello Mastroianni, Anita Ekberg, Magali Noèl, Yvonne Fourneaux, Anouk Aimée, Na dia Gray. Era stato scritto da Ennio Flaiano e Tullio Pi- nelli. Venne a costare una cifra-record. Rivelò che il mi to della nordica bionda era profondamente radicato nel la mentalità dell’uomo meri dionale. Impose alla produ zione cinematografica corren te la moda dello spogliarello. Dimostrò che l’irruzione di Eros nella vita dell’italiano aveva operato serie modifica zioni nei rapporti sociali. Sve lò i miserabili retroscena di via Veneto. Denunciò l’esalta zione delle peggiori contraddizioni psicologiche e morali, che il modello consumistico si preparava a compiere. Era naturale che l’opera di Fel lini fosse accolta dagli spetta tori con una sorta di trauma. E andò così. Quel giorno, nei cinemato grafi di Milano e di Roma, le reazioni furono vivaci: segno, conviene annotarlo, che Felli ni aveva fatto centro. Gli ap plausi si sovrapposero a gri da esasperate: « Basta! Ba sta! ». « Basta! », l’indomani, L’osservatore romano intitolò una sua nota d’intervento po lemico, che vale la pena di rileggere per comprendere il grado di tensione cui erano arrivati gli spiriti. «Bisogna, è tempo, che quel basta final mente gridato dagli spettatori â— scriveva l’organo del Vaticano, portavoce della cultura cattolica â— si indirizzi ai pub blici poteri, ai quali compete e la sanità del costume e il ri spetto al buon nome di un popolo civile ». Dunque, da un lato si batteva il tasto d’un più incisivo e drastico impe gno della censura e da un altro lato si insisteva sul dato oltraggioso da respingere con determinazione. A qualunque livello, poi, le discussioni si servivano di toni apocalittici. Poche sere fa, a Roma, sono entrato in un cinemino di quart’ordine per rivedere La dolce vita. II film era stato rispolverato dal gestore in os sequio alla vocazione commemorativa nazionale. Ci saran no stati in sala una cin quantina di persone. Gruppet ti di giovani-bene, alcuni an ziani. Aria stanca. Quelli che erano stati i nodi scabrosi del racconto felliniano, le cause dello scandalo di dieci anni fa, s’inseguivano sullo scher mo con intatta forza espressiva. Niente, però, sembrava colpire il pubblico: gli anni Settanta ci colgono più maturi, più aggiornati, più disincantati. Forse, pure, più indifferenti. Abbiam fatto l’abi tudine alla nostra immagine riflessa negli specchi della satira. La ventata moralistica non tardò ad abbattersi sul pae se, dopo la presa di posizione del giornale cattolico. Tre de putati democristiani si rivol sero al presidente del consi glio e al ministro degli inter ni con una interrogazione che reclamava misure rigorose per impedire la libera circola zione del film di Federico Fellini. Di nuovo intervenne L’Osservatore Romano. Grosso scandalo. Si mobilitarono le associa zioni di padri, madri, bene fattori dell’umanità, figli del la carità, fautori della fratel lanza, dame misericordiose. Considerato che La dolce vi ta era un’offesa al popolo ro mano, il senatore democri stiano Bonadies si decise a chiedere il ritiro del film a chiare lettere. Forze di poli zia erano chiamate a presi diare i cinema dove si proiet tava il film per timore di disordini, di scontri fra spet tatori di opposte convinzioni estetiche e morali. Il Centro cinematografico cattolico in cluse La dolce vita nel cata logo delle opere vietate a tutti, centenari compresi. In un dibattito pubblico, presieduto da Moravia, si pre sentò Pier Paolo Pasolini a sostenere che Federico Fellini aveva diritto d’essere rite nuto un autore cattolico e al cuni gesuiti si isolarono da gli atteggiamenti di « condanna globale », riconoscendo al film meriti sottili di critica costruttiva: queste furono le prime voci di dissenso dalla campagna moralistica, che si allargava e investiva il paese. L’anno era cominciato co me un anno qualsiasi, in una successione normale di avve nimenti lieti e tristi. Lo Scià di Persia aveva sposato Farah Diba e Soraya aveva inaugu rato la stagione delle vacan ze a Sankt Moritz, già avvolta dalla leggenda della melanco nia inguaribile. I medici ave vano consigliato la cura del sonno a Edith Piaf, il passe rotto stanco di Montmartre. Georgia Moll aveva rotto il fidanzamento con John Barrymore ir. Diciannovenne e paffuta, Mina si proponeva al le glorie di Sanremo. Il mer cato dei libri-strenne segnala va le preferenze del pubblico per Corrado Alvaro (L’ultimo diario) e Virgilio Brocchi (Mamma). Brividi di cordo glio popolare erano stati su scitati dalla morte di Fausto Coppi. Ora, a metà febbraio l’Italia accademica e tradizio nalista si trovava d’un colpo a fare i conti con uno scan dalo senza precedenti.
Aspra realtà
Ciò che meno tollerava la opinione pubblica era il silen zio di Fellini e così il Grande Federico s’indusse a uscirne. Pronunciò parole memorabili, dalle quali emergevano sgo mento e buonsenso. Non aveva voluto fare una satira sociale, no, sebbene la realtà gli apparisse ben più aspra e cattiva: son aggettivi suoi. E aggiunse severo: « Su La dol ce vita si sta imbastendo un caso nazionale. Proprio è ve ro che gl’italiani sono sempre pronti a sbranarsi. Ma vo gliamo smetterla di credere a cose in cui non vale la pena di credere, festival di Sanre mo e miti di uno stupido na zionalismo? Si sta creando una psicosi morbosa che ca rica lo spettatore di curiosità malsane. Vogliamo piantar la? ». Festival musicali e miti nazionalistici continuano ad impegnare gl’italiani, a dieci anni da quel giorno di feb braio: probabilmente, da que sto punto di vista, il tempo trascorre senza conseguenze nella società italiana. Peccato, proprio. Come dire, secondo Fellini: italiani, siamo seri. C’è da os servare, però, che La dolce vita proponeva con serietà sostanziale una quantità di te mi seri ed era inevitabile che gli effetti nell’opinione pub blica fossero clamorosi. Tanto è vero che tutta la faccenda finì in politica. Meno di due settimane dalle « prime » di Milano e di Roma, difatti, il sottosegretario Magri prese la parola a nome del governo per un giudizio sul caso Fellini. Alla Camera si ebbe una « se duta calda », quale non si ri cordava da tempo. Magri de finì il film un « tenebroso af fresco di vita degradata e smarrita che urta la sensibili tà della gente sana » e la mentò che le commissioni di censura si fossero dimostrate di manica larga, benché il re gista non avesse ceduto a compiacimenti deteriori. A conclusione, venne auspicata l’opportunità che i produttori cinematografici elaborassero un codice di autocensura, ido neo ad integrare il codice di censura ministeriale.
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