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CINEMA: I MAESTRI: Jean-Luc Godard. Armati soltanto della purezza

24 Agosto 2013

di Gabriele Baldini
[da “La fiera letteraria”, numero 6, giovedì, 8 febbraio 1968]

La Chinoise è un film facile e puli ­to, il più mondo â— tra i recenti â— da scorie e slacci di problemi buttati sgar ­batamente nella mischia e subito per ­duti di vista. Tanto non basterebbe a raccomandarlo, in specie fra i fedeli del Godard, un artista nato all’insegna dello sbaraglio. E difatti credo che tutta codesta lindura â— a tratti per ­sino con sospetto di perbenismo â— siano i limiti dell’opera.

Anche La Chinoise (1967) come al ­tri film di Godard, adotta lo schema: tema con variazioni, di origine illu ­ministica. Con il sottinteso che il te ­ma sia il più vago possibile. Ci sono dei giovani: due ragazze, e tre ragaz ­zi asserragliati in un appartamento della media â— e anche oltre â— bor ­ghesia con porte e finestre dipinte al ­la brava a colori vivaci, che occupa ­no le giornate a citare, diremmo, più che propriamente a discutere, talune massime sparse tratte dal breviario di Mao, al fine di convincersi sem ­pre meglio â— più per ostinazione che per forza dialettica â— che in quelle si trovi l’unica interpretazione accet ­tabile del marxismo e del leninismo, e a elaborare piani di propaganda e di rivoluzione e addirittura â— qui è la maggiore audacia e violenza sullo spettatore â— a portarli a termine: as ­sistiamo, o almeno così sembra, alla soppressione d’un capo avverso.

Ma il film non ha la mutria serio ­sa: si propone anzitutto come « divertissement », bensì anche alle spalle dei borghesi contro cui sono elabora ­ti i piani dei giovani, ma più spesso alle spalle degli stessi giovani: il loro fanatismo, difatto, oltre che negli aspetti immediati e schietti, si offre anche nei suoi risvolti ridicoli e buf ­foneschi. La commedia, la grande commedia non è raggiunta perché non può esservi commedia quando la osservazione del costume è tanto ap ­prossimativa e distratta, e soprattut ­to quando il punto di vista è così po ­co saldo. C’è al suo luogo un carezzamento continuo leggero delica ­to e soprattutto elegante delle « topics » di moda. La materia figurativa, insolitamente tersa e specchiata per il Godard, vede gli interni francesi con occhi e nostalgie americane (un punto di vista, comunque) e i suoi modelli ispiratori â— ma senza ironia, ché sarebbe stato troppo facile â—. so ­no soprattutto Vogue e il New YorJcer. Tanto spiega il successo presso il pub ­blico, che si trova rassicurato da que ­sto caldo comfort, rimandate in alto mare le soluzioni dei problemi più ur ­genti.

Il talento superiore del Godard e soprattutto le sorti del dibattito for ­se più assillante delle stagioni che at ­traversiamo non passano per questo film. Passano invece, forse senza che lo stesso Godard se lo proponesse, per un altro suo film d’un anno in ­nanzi, Masculin Féminin, (1966) che è stato mostrato per la prima volta a Roma, in un cine club, in questa stes ­sa settimana. I due film, curiosamen ­te, si sentono in qualche modo paren ­ti, ma come per un parallelismo ca ­povolto: l’uno s’incastra nell’altro per ­ché è esattamente tutto quanto l’altro non è. Stesso schema narrativo: gior ­nate di giovani, che qui son due ragaz ­zi e tre ragazze. Ma questi non sono intellettuali dichiarati: lavorano in caotici uffici di grandi department sto- res parigini immersi in un incessan ­te frastuono attraverso il quale giun ­gono appena â— richiami-segni afferra ­ti e subito smarriti â— le parole es ­senziali per dir dell’affiorare dei sen ­timenti: per trovare qualche raccogli ­mento e tentare le compromissioni più appassionate, procurano d’incon ­trarsi nel W.C. dell’ufficio, ma le pa ­reti sottilissime, se non il tumulto della città, rimandano anche qui l’eco dello stridore e dell’arroganza di vo ­ci private che ripropongono in toni diversi i loro stessi casi.

Si ritrovano nelle lavanderie a get ­tone, e ingannano l’attesa con qualche storiella oscena portata con la sobria grazia che solo sanno i francesi, in qualche balera ottenebrata, in scomo ­di cinematografi, attorno al tavolo di qualche bistrot per un pasto breve e affrettato. I rumori più feroci strin ­gono d’assedio forsennato codesti gio ­vani, ma la loro gioventù e la loro freschezza e sincerità riescono pur a dirsi qualcosa. Del resto i rumori non sono distorti: non c’è nessun tenta ­tivo di renderli ossessivi- lo sono. Ogni tanto queste fragili creature si trovano costrette a testimoniare atti di estrema violenza: una donna spa ­ra a un uomo in strada, davanti agli occhi forse del loro bambino; un ra ­gazzo, abbandonato il flipper, si confic ­ca un coltello nel ventre, barcolla, non si fa in tempo a soccorrerlo; un intellettuale « buddista » Si fa regala ­re di forza una scatola di cerini per elevare la sua protesta cospargendosi di benzina e incendiandosi. E tutta ­via, nel frastuono della città questi sono dei fatti come tanti altri: non c’è tempo né modo di analizzare le reazioni che potrebbero determinare: pure queste operano anche senza es ­sere interrogate.

La vita è ridotta a una così precaria e meschina condizione che, attinti al ­cuni essenziali umili piaceri â— solo, così, per ascoltare il proprio polso â— si può gettarla via, reperto sanguinan ­te incartato in un giornale. Ché que ­sti giovani sono armati soltanto del ­la loro purezza e hanno volti parole e gesti da angeli, anche se un po’ goffi e impacciati nei loro vestitucci di moda; ma, fors’anche per indul ­gere ài loro peccati con tanta triste naturalezza e lealtà, non sono per nulla astratti, come i giovani de La Chinoise’, sono anzi estremamente ca ­ratterizzati, ognuno per suo conto e con sfumature diverse, proprio dalla loro indifesa tenerezza e dalla loro coraggiosa rinunzia al cinismo.

Il protagonista Paul â— l’attore Jean Pierre Léaud, che già ammirammo dodicenne nei 400 coups di Truffaut, e che presta la sua arte controllata anche alla Chinoise â— è uno dei per ­sonaggi più poetici cui abbia dato vi ­ta il cinema di questi ultimi anni: proteso trepidamente verso una cono ­scenza che gli sfugge di continuo â— come quella sigaretta che non riesce mai a farsi saltare bene in bocca co ­me ha visto fare a qualche eroe ame ­ricano del cinema â— ma che ne fa un autentico intellettuale contro quelli di maniera de La Chinoise; ansioso del ­l’adempimento dei pochi grati doveri che la giovinezza e l’amore hanno in serbo per lui, come l’abbia adempiuti, opta per un suicidio senza retorica, che i suoi compagni sapranno pieto ­samente mascherare.

Gli altri personaggi, la brunetta dai capelli morbidi e setosi, la biondina lesbica, il ragazzotto dalle efelidi e la terza ragazza (indimenticabile lo idillio di costoro in cucina) si offrono a un grado attenuato solo per aureolarlo meglio. E’ chiaro che tutto questo è ottenuto per una tecnica del ­la ripresa che non consenta a questi attori di recitare ma solo di lasciar ­si sorprendere a vivere, e credo che a questo scopo sia evitato anche ogni aggiustamento dell’illuminazione, che non è mai predisposta e quindi irreale. Tanto procura che la « suspension of disbelief » non sia mai in ­terrotta. Dallo spettatore convenzio ­nale tutto questo potrà venir scam ­biato addirittura per sciatteria o impe ­rizia fotografica, ma quando si sia in ­tesa la forte carica espressiva di que ­sta povera luce quotidiana si sarà ag ­giunto un importante connotato alla consapevolezza stilistica di Godard.

Confesso che, prima di vedere Ma ­sculin Féminin, avevo dei seri dub ­bi su questo regista tanto strombaz ­zato, e m’erano saputi piacere abba ­stanza solo Une femme est une /em ­me (1961) e Vivre sa vie (1962) men ­tre per il resto l’irritazione soverchia ­va pure l’ammirazione per taluni splendidi passaggi. Certo si tratta di un ingegno pericolosamente dise ­guale in cui estro furbizia faciloneria fretta e drizzoni compromettono trop ­po spesso i doni d’una fantasia crea ­trice lucida e originale; ma bastereb ­be questo Masculin Féminin, â— ag ­graziata e insieme severa voce del nostro tempo â— a metterlo al centro d’una stagione.


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