CINEMA: I MAESTRI: Pier Paolo Pasolini. L’arcangelo in famiglia12 Luglio 2014 di Adele Cambria A Pier Paolo Pasolini invidia mo tutti, a diversi livelli, la « soluzio ne » cinematografica al problema, irre solubile, di scrivere libri: e anche arti coli sui giornali. Facendo film, ha sal tato il dramma della solitudine, impo tenza, davanti alla macchina per scri vere: ha scavalcato la responsabilità della pagina. Responsabilità individua bile non delegabile. Fare il film si gnifica stare con gente, a mucchi, che lui, emanando dolcezza genuina schia vizza ed enuclea: enuclea da loro quanto gli serve; butta via il resto. Io lo so da me. La prima volta, è stato per l’Accattone: la sceneggiatura dice va: « Nannina, una donna piccola pic cola come una gatta… ». E ancora: « Nannina, voi siete ‘na femmina d’o ro. ‘Na femmina a diciotto carati ». Ero una donna incinta, piena di figli, col marito dentro e fuori dal carcere, devota. Allora mi ribellavo contro questa decifrazione di me. Allora, che respingevo, il trionfo, l’origine di me: il Sud. Ora la sceneggiatura dice: « Gli occhi pietosi di Emilia si allargano sullo sfacelo della famiglia borghese ». Emilia, animale domestico. Serva, a lutto, con un nodo di trecce sulla nu ca. « Léccale la mano, baciala, baciala. Ora guardala con pietà. Chiamala, chiamala: “Signorina Odette”, Signori na Odette ». Esegue. Odette è l’attrice Anne Wiazmski. E’ la nipote di vent’anni di Francois Mauriac. Era la protagonista di Au ba sard Balthasar di Bresson. Il tuttoton do del nudo di lei, vigoroso, ampio, nel film di Bresson â— che faceva il ba gno, mi pare, in una tinozza di conta dini â— ha fornito a Pasolini l’idea di utilizzarla in Teorema. Il contrasto della salute fisica con la gracilità dei nervi, che la faccia di Anne, come pie tra appena sbozzata, esprime. Anne di questo non sa niente. Va e viene in ae reo da Parigi, qualche volta accompa gnata dal marito, Jean-Luc Godard, non chiedendosi niente. Esegue. Nella misura in cui ha deciso, ma non ha ancora deciso, di fare l’attrice (il film di Bresson, mi racconta, è stato soltan to «una grande vacanza »), allora si arrabbia, tacitamente fumando, una si garetta sopra l’altra, di non sapere nulla. Non ha letto la sceneggiatura. Io ho rubato pagine di lettura al testo (cioè colpevole), e so. Il testo di Teorema è poesia. Mi esprimo all’ingrosso, da una che non se ne intende. I libri, romanzi, di Paso lini, non mi sono mai piaciuti, salvo uno, il primo, Il sogno di una cosa, che era meglio: questo Teorema è in cantato come Il sogno di una cosa, ma molto più filtrato. Dico: puro e impavi do. Lo sgomento è pensare alla possi bilità di realizzarlo usando materiali concreti â— facce, case, automobili â— materiali quotidiani grevi di scorie, e cavare da questi, l’aguzzo diamante della poesia. La storia, a raccontarla, si presta alle beffe. Sono quattro per sone, una famiglia altoborghese, di Mi lano, ricca a miliardi, e tuttavia già re mota dalla volgarità del denaro, piut tosto esangue che vive in vacuum: un vuoto squisitamente ben educato. I quattro sono: il padre e la madre, che si chiamano Lucia e Paolo, e i due figli, un maschio e una femmina, ado lescenti, che si chiamano Pietro e Odette. Le parti sono state affidate a Silvana Mangano e Massimo Girotti (i genitori), a un ragazzino cileno, di cui nessuno si ricorda mai il nome vero, sul set, e ad Anne Wiazmski. La famiglia è visitata da un arcan gelo: lo chiamano l’ospite, è bello, az zurro, innocente, e li mette in rappor to â— di nuovo in rapporto, o per la prima volta in rapporto â— con se stes si. L’ospite, inconsapevole, e, a ogni modo, gloriosamente naturale, emana carità. I quattro invetrati ex-umani â— padre e madre, figlio e figlia â— si svegliano a lui, per lui, spasimano, ne so no sconvolti, ne godono, in totale ri scoprono i dati, aboliti dall’oggi quoti diano, della felicità e del dolore. Il rapporto carnale che ciascuno dei quattro ha con lui (salvo Odette, la quale, nella sua durezza di vergine, se lo nega, e impazzisce) è un modo di esprimersi dell’ospite-arcangelo, un modo che ha il valore preciso, circostanziato, di pietas fraterna. Quanto sia difficile far intendere questo, nel film, senza scadere in pornografia, è problema che compete al regista: lo scrittore, nel testo, secondo me ci è riuscito. L’ospite arcangelo è l’attore inglese Terence Stamp. Osservo Pasolini al lavoro, utilizza re il materiale umano, edilizio, paesag gistico, di cui dispone, per far poesia. Silvana Mangano lavora gratis in que sto film, si vede che si aggrappa sia al la storia che all’intelligenza, al carat tere del regista, per uscire fuori, pro babilmente, anche da una sua storia di nevrosi personale. E’ ridicolo che al mattino, quando va a prenderla l’auto mobile, per portarla sul luogo di lavo razione, lei sia traumatizzata se la fac cia dell’autista, la prima faccia che ve de, cambia. Ma non credo che siano at teggiamenti di divismo. Sta male, nel fisico, si richiude come un’ostrica, non riesce a inghiottire, per tutta la gior nata sul set, nient’altro che acqua di selz. E’ una persona interrorita dal rapporto con gli altri. Si chiude in una stanza e lavora a petit-point. Doman dandole io se le va di fare una intervi sta in TV, risponde di prendere mate riale di repertorio: « Ma ci servirebbe la persona viva… », obietto. « Quella è morta da tanto tempo ». Boutade? Di cono che io mi lascio frodare dai pati menti altrui. Forse. La sequenza in cui la Mangano si strappa il bikini, come si strappasse la pelle, con gemiti, in solitudine, e lan cia l’indumento, come fosse il suo pro prio corpo (levigato, squisito, artefat to da lunghe stagioni di istituti di bel lezza), lancia questo indumento, allo ra, in modo che la offerta di sé all’o spite sia irrevocabile, al di là del muro del solarium, è stata girata con Teren ce Stamp e Pasolini alla macchina da presa: nessun altro. Vedo la Mangano dopo: secondo la sceneggiatura, si veste per un té in villa. E’ bianca, fragile, grifagna, rico perta di breitschwanz leggero come ri camo, chiffon; io, luttuoso fido animale domestica reggo questi lembi di chif fon e, della signora della villa, ho gran pena. Il film, a colori, risulterà girato tutto a Milano â— e ambientato nella radice neurotica di Milano â— ma per esigenze di produzione (come Pasolini vince, in una non sua placata mitezza gli ostacoli finanziari, tecnici, ecc., co me ignora l’intrallazzo, la cialtroneria non evitabili nel milieu del cinema), allora, circa quattro settimane di lavo ro si fanno a Roma: gli interni sono girati tutti in questa villa al Trionfale, assurda, tangerina, con patio e archi, e piscina a forma di ninfea, cui si arriva bestemmiando dopo che ci si è stroz zati nel traffico, intasati nel mucchio di semi-grattacieli e baracche, e conventi-palazzine di monache, infine, la periferia di Roma. La villa è di un industriale di Colleferro (credo abbia il monopolio di cer ti prodotti chimici), sposato da dieci o undici anni a una nobile milanese, il meglio della nobiltà, e, come cigno, la bellezza di lei: ricordo il loro matrimo nio sul lago, i paggi in velluto, e i sali ci, e il velo della sposa, e lui magro biondo, e i raccolti capelli neri sulla nuca di lei, ci domandiamo che fine hanno fatto, aspettando di essere chia mati a girare, nelle stanze con le moquettes, Alfonso Gatto e io. Hanno co struito questa villa, un sogno modula to secondo le convenzioni di massa, l’hanno costruita sul grufo porcino di Roma, perché lei non soffriva di vive re a Colleferro, e non l’hanno abitata mai. Forse, pure inconsapevoli, so praffatti dall’incongruo. Dopo, si sono separati. Ci chiamano. La scena è della pazzia di Odette. Prima, io sono nella cucina, raggelante come clinica, della villa: imburro sandwichs, di corsa alle spal le mi arriva la padroncina, Anne Wiazmski-Odette, e mi chiede un metro. Un metro per misurare. Mi parla al di là di un cristallo, la sua faccia è gentile remota. Io non capisco e non chiedo di capire: eseguo, mi asciugo le mani, vado ad aprire un cassetto, le porgo il metro, io non capisco le ragioni di questa gente, i signori, che beneducati percorrono le strade più sterili della follia, io non so niente se non la com passione. Odette vestita di rosa, le do il metro, per me, residuo arcaico, il suo pallore e la sua grazia sono i segni del male. Io credo male fisico. Vorrei ripararla, ma non so come. La sera che vado a bussare alla sua camera, per dirle che il pranzo è servito, la trovo immobile stesa sul letto: gli altri del personale della villa mi hanno det to che la signorina è pazza, sono cin que giorni che non si muove, irrigidi ta sul letto, ha la crisi, hanno sentito parlare di clinica per malattie nervose e mentali («il manicomio dei ric chi »), gli altri, camerieri e cameriere, sono di bell’aspetto, rifiniti, io no, roz za, e voglio in qualche modo salvare la signorina. Per esempio, se si alza stasera per cena, ragiono, non la porte ranno nella casa dei pazzi. E chiamo, e chiamo, mi fido a prenderla per le spalle… « Scuotila, chiamala », con mitezza inesorabile il regista dirige le mie ma ni, i sentimenti. « Chiamala di nuovo: “signorina Odette”, ora vinci il rispet to, le togli le coperte, bene, così sco pri il suo pugno chiuso e irrigidito, ti fa orrore, cerchi di aprirlo, leccale la mano, baciala, baciala, stop ». Schiacciata contro il muro vedo la signorina sollevata da due infermieri che se la portano in clinica, muta, di marmo (Ilaria del Carretto?), sopra la barella. A Milano, la villa non è in affitto: cioè la produzione non paga, per l’uso del giardino e degli esterni. È una vil la a San Siro, il quartiere dei ricchi, molti tenori (per esempio Di Stefano e Del Monaco), case color prugna e gialle, ma questa è di ricchi già ben educati, da qualche ventennio. Il can cello è di moderato liberty. Il compor tamento dei padroni di casa è giusto, come se avessero letto la sceneggiatu ra di Teorema. Possiedono fonderie, per qualche miliardo. Ma hanno avuto le nurses appropriate, gli appropriati collegi, il loro gesto, di non voler de naro per l’affitto della villa (esterni), è una forma squisita di noncuranza: sono i ricchi secondo Scott Fitzgerald, « non sono fatti come noi ». Ci ignora no. Non per arroganza o cattiva edu cazione. Semplicemente, non li inte ressiamo. I signori milanesi di questa villa non sono interessati al fatto del cine ma: non li riguarda. Sono quattro, la composizione della famiglia identica a quella immaginata da Pasolini: padre e madre giovani, i figli, maschio e fem mina, sui quindici-diciotto anni. Pren dono le loro automobili (il parco mac chine mi sembra ne includa sei), esco no, ritornano, come se i cavi, le luci, gli attrezzi, non esistessero. Al più, se si trovano un cavo sulla strada do mandano, molto gentili e remoti: « Posso uscire, o vi do noia? State per caso girando? ». Noi non osiamo neanche mangiare i cestini nel parco. Ci rintaniamo nelle macchine della produzione, o anche, con Pier Paolo, Laura Betti, Francesco Leonetti, sull’orlo del marciapiede, fuori. Pure Camilla Cederna che è ve nuta per fare l’articolo. Ci sentiamo, beati, d’altra razza: avventuriera, mi serabile zingara. « Gli attori non veni vano sepolti, fino al 1700, in terra con sacrata ». Laura Betti con Pier Paolo avrà, è probabile, in questo film, premio e ap pagamento, essendo, per istinto e na tura, attrice. Bestemmia contro il regi sta. E’ vero che facendo, per mestiere e anche vocazione l’attrice (o attore), uno si sente umiliato dalla prepoten za, non evitabile, del regista: ridotta al ruolo, per esempio, delle bottiglie di Morandi, io che ho un altro lavoro, mi riposo: la Betti urla. Dice che lei non vende salumi, quin di non può fornire a richiesta l’espres sione n. 19 â— benevola compassione vole â— o la n. 15, interiorizzata misti ca, senza almeno sapere che diavolo sta facendo: lei è fortunata perché sa di Teorema da quando Pasolini ha co minciato a pensarci; due anni, in pra tica ne ha seguito pagina dopo pagina la stesura, ma, prima di girare le sce ne, vorrebbe leggere qualche pezzo di carta. Pasolini sorride incrollabile, e, finiti i venti minuti del cestino, si rico mincia. Laura, nel film Emilia (io so no Emilia Seconda, la cameriera che viene dopo questa, scomparsa, tornata con furore avido alla terra, nel Lodigiano) deve prendere un telegramma dalle mani del postino. Il postino è Ninetto Davoli. Sul suo grumo impolve rato di ricci, io credo che si ostinino il lusioni. Quanto durerà l’arcobaleno di speranza che da Ninetto emana? Laura e Ninetto di scena. Poi Massi mo Girotti, ridotto uno straccio, a pie di nudi, cammina sull’erba. Sono le prime ore del mattino, la luce è arbo rea. Erano anni che non vedeva cre scere il sole; anni, ma forse, perché è giovane, che non respirava prati e ru giada. Ora ha l’ulcera. Comprimendosi lo stomaco esce, in pigiama, nel giardi no che, finora, per lui, ha significato soltanto un’astrazione di cifre, scritte sopra i libretti degli assegni. Le sterlizie, i rododendri, i tulipani olandesi: quando mai l’ha guardati? Laura di scena. Con la valigia. Dopo che l’ospite è partito, l’ospite che era Bontà e Bellezza celeste, se ne va an che lei. Torna al paese, tenendosi stretto il miracolo di avere conosciuto lo straniero.
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