CINEMA: LETTERATURA: I MAESTRI: Il Faustus di Marlowe. Cimento senza speranza2 Settembre 2013 di Gabriele Baldini Si sa che spesso il cinema non è che uno strumento di riproduzione di altri spettacoli, â— come, per esempio, nei florilegi di cabaret sexy, in voga Ano a qualche anno fa â— e che il suo inte resse, o meglio, la sua utilizzazione partecipano e vanno giudicati, in quei casi, soltanto nell’ambito del docu mentario. Questo avviene più spesso che non si creda. Molti film, ad esem pio, in specie del passato, non furono altro che occasioni per fermare lo sti le, meglio la natura, della recitazione di reputati attori drammatici: Sarah Bernhardt, Eleonora Duse, Johnstone Forbes Robertson, Ellen Terry, Wer ner Krauss, Ermete Zacconi, John Barrymore, Ruggero Buggeri e Gu stav Grundgens. Quasi sempre il docu mento restò fantasma: lo stile e la na tura della recitazione, come nel caso della Duse, venivano suggeriti al di là di troppe velature di incolmabili di stanze. Sappiamo tuttavia come anche i più vaghi suggerimenti possano es sere utilizzati, e la più severa metodo logia storica mette in guardia contro il loro spreco. Alla categoria della documentazione di altri spettacoli appartiene il recen te Romeo and Juliet diretto da Paul Czinner: si tratta solo d’una esatta riproduzione del balletto di Prokofieff interpretata da Margot Fonteyn e Ru dolf Nureiev secondo l’edizione del Royal Ballet inglese originata al Covent Garden, ma poi diffusa anche in molte città europee (da noi si vide alla Scala e all’Opera di Roma). Il film quindi interessa l’arte della co reografia e non quella del cinema. L’intervento di Paul Czinner â— che pure in epoca muta e ai primi anni del sonoro legò il suo nome a film im portanti, come Nju (1925) e Frauleien Else (1929) interpretati da sua moglie Elizabeth Bergner â— si può dire irrile vante e si esaurisce tutto nell’idea mo trice: che consistette nel far la mac china da presa spettatrice ideale del balletto e collocarla perciò di volta in volta nei luoghi del teatro meglio con facenti a sorprendere l’azione coreutica. Rappresentazioni con fini archeologici Molti, in specie leggendo i resoconti della stampa, pensarono che il Dottor Faustus diretto da Richard Burton e Nevill Coghill ripetesse il caso, appun to, del documentario d’uno spettacolo drammatico: al modo che il recente Otello con l’Olivier. Si sapeva infatti che il Burton si era affiancato, incastonandovisi nella parte principale, a una production del dramma di Chri stopher Marlowe della Oxford Univer sity Players, una società simile nelle finalità e nella tradizione alla Marlo we Society di Cambridge: valorose isti tuzioni entrambe intese a mantenere vivo il fuoco del dramma elisabettia no. Ché, com’è noto, all’infuori di Sha kespeare e di qualche sparso dramma di John Webster e di Ben Jonson, di Thomas Middleton e di John Ford, quello straordinario repertorio vive vita stenta sui palcoscenici professio nali. Queste rappresentazioni, di solito, non hanno finalità artistiche né tanto meno finanziarie, ma direi piuttosto archeologiche: servono a disseppelli re dei capolavori di lingua e di stile e a offrirli umilmente nel loro povero luccichio di cose bensì preziose all’ori gine ma di poi avvolte e compromes se, ahimè, dai valori appiccicaticci del dilettantismo filodrammatico. Riti, in somma, poco più che iniziatici, per confermare e ostentare la propria fede. Vi prendono parte, infatti, stu denti e professori e questi ultimi direi con tanta maggior civetteria quanto la loro facoltà istrionica è più stanca. Cauti sconfinamenti nel dramma clas sico (soprattutto Euripide e Seneca) impegnano talvolta anche venerate ca nizie di filologi: tali feste sceniche, in vero melanconicissime, costringono a intraudire e intraintendere per intere serate e latino e greco pronunziati alla maniera che vige lassù. Avendo familiarità con codeste fun zioni, gli parve che non valesse la pena di eternarle sulla pellicola del film, addirittura in technicolor e ten tai di convincermi che tutto il sugo di codesto Faustus si sarebbe potuto spremere nell’ascoltare dalla voce tim brata e dai fiati sapienti del Burton al cuni dei più grandi versi che ci abbia lasciato la tradizione poetica inglese. Non riuscivo a vedere nel film, insom ma, l’occasione dello spettacolo «nata lizio », tanto più che quei versi sareb bero certamente andati in frantumi nella traduzione italiana senza conta re che anche la miglior traduzione sa rebbe stata offesa dallo squallido dop piatore in agguato, sempre birignante. Cimento senza speranza, dunque; ma debbo dire che l’esperienza è stata persino più catastrofica di quanto pro metteva anche la più sfiduciata previ sione. Difatto, gli autori del film, non si sono contentati di documentare uno spettacolo â— per quanto modesto ed equivoco nella sua intima natura « amateurish » â— ma hanno voluto darci bensì una interpretazione cine matografica di Marlowe. Ora ci si sarebbe dovuti accorge re che Marlowe rifiuta il cinema an che più di quanto rifiuta il teatro. Si tratta di sublimi testi drammatici intesi per l’orecchio dello spirito: il dramma si compie nella cattedrale del l’intelletto e del gusto, non soffre spe cificazioni gestuali o scenografiche senza snaturarsi, non tollera che sia aggiunto del corpo a qualcosa di cui non si saprebbe immaginare nulla di più corposo. Marlowe, difatto, non è mai stato veicolo ruffiano o anche solo condi scendente per attori o per registi che si esibissero sulla scena: perdona, al massimo, chi se ne fa garante alla ra dio, alla filodiffusione, nei dischi: la po tenza rappresentativa della sua mu scolatura verbale, infatti, scoraggia dal rivestire di immagini la parola creatrice: qualsiasi veste risulterebbe inadeguata e povera al confronto. L’avventura un po’ ridicola corsa dal Burton e dal Coghill fece pensare piuttosto a quell’episodio triste e pit toresco che vide Beniamino Gigli im pegnato a cantare â— ma non a com porre: il testo musicale sarebbe venu to fuori da un concorso â— una roman za sulle parole « Sempre caro mi fu… » a voce spiegata, all’aperto, proprio su quel montarozzo entro la cinta delle mura di Recanati che, nelle cartoline del luogo, e in qualche commento più candido, viene chiamato, per l’appun to, « colle dell’infinito ». Manca il nome di Marlowe La cosa meraviglia, perché il Bur ton è attore specchiato, che in Inghil terra e in USA aveva già dato degnis sime prove nei più irti testi shakespea riani, e Nevill Coghill è affettuosa mente benemerito delle più leggibili traduzioni dei poeti inglesi del Tre cento (Chaucer, Langland). E’ chiaro d’altra parte che anch’essi hanno inte so come il testo rifiutasse l’esterioriz zazione così goffa e straccivendola che intesero prestargli. Non si spieghereb be, altrimenti, come vi abbiano ag giunto dei materiali â— e ampii e bel lissimi materiali â— da Edoardo II e da Tamburlaine, altri due drammi del Marlowe, a illustrare il « pageant » dei Sette peccati Capitali â— che le stampe secentesche offrono solo come pretesti per la coreografia â— e, con- vien dire, piuttosto impropriamente: ché il pezzo da Tamburlaine esalta la sete di potere militare e politico e non il peccato d’orgoglio, e quello da Edoardo II è appena la professione d’un credo estetico, certamente corrot to e bensì anticipatore ma non tale da potersi confondere con il peccato di Lussuria, che implica tutt’altre pro spettive. Nell’edizione mostrata a Roma â— com’era da prevedere â— sono state amputate le scene antipapiste in Vati cano: non ce ne dorremmo perché sono men che mediocri e certamente non di mano del Marlowe. Ma certo, le ragioni del taglio non furono di or dine estetico, e si rileverà comunque che la loro scomparsa rende sbilenco tutto il significato dell’opera. L’impresa, insomma, fu solo un ten tativo â— un po’ da vergognarsene â— di sfruttare il successo della Bisbetica domata e ripresentare la celebre cop pia Burton-Taylor in un testo elisabet tiano che alla Bisbetica è un poco pa rente. Qualche studioso, infatti, attri buisce a Marlowe alcune parti di quel la commedia shakespeariana, che co munque risente chiaramente del suo influsso stilistico: ma scommetterei che i produttori queste cose non le sanno. Non si sono preoccupati, infat ti, nemmeno di mettere il nome di Marlowe sui manifesti. Sui manifesti c’è invece il nome del la « money making star » Liz Taylor, che si contempla nella sua sfatta bel lezza solo per alcuni secondi. Con che si vuol dire che non s’è accontentato né Iddio né Mammona, ma appena la curia. Letto 3330 volte. Nessun commentoNo comments yet. 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