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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I MAESTRI: Nel paese delle meraviglie

2 Gennaio 2011

[da: Vittorio Calvino, “Guida al cinema”. Prefazione di Vittorio De Sica, Nuova Accademia Editrice, 1954]

Al principio del 1938, mentre il mondo intero, un mon ­do di spettatori grandi e piccini, ammirava entusiasta il primo lungometraggio di disegni animati a colori, Bian ­caneve e i sette nani, in una casa di salute per malattie mentali, a Parigi, con lo spirito offuscato, si spegneva Emile Cohl, che era stato il creatore del cartone animato, il pioniere che aveva aperto la strada verso quest’altro pae ­se delle meraviglie.

Ora che la tecnica ha messo al servizio del disegno animato i più raffinati strumenti, e che il prodigio di que ­ste immagini viventi si rinnova con frequenza sotto i no ­stri occhi, è doveroso, per quanto malagevole, ricostruire la lunga, paziente e difficile genesi di questa invenzione, che allargò smisuratamente i confini del cinema permet ­tendogli di spaziare ancor più nel campo infinito della fantasia.

Come il cinematografo, così il disegno animato ebbe numerosi genitori. C’è chi vuoi dargli antenati illustri sta ­bilendo addirittura un legame tra i disegni animati attuali e le immagini stilizzate di uomini e animali che gli anti ­chi Egizi tracciavano sui loro monumenti; c’è chi si accon ­tenta di un elenco di scienziati più prossimi a noi, i quali studiarono e approfondirono il problema della riprodu ­zione di immagini in movimento. Ma doveva nascere un poeta perché i ritrovati tecnici diventassero strumenti al servizio della fantasia pura, per la gioia e lo stupore de ­gli spettatori. Emile Cohl fu il poeta.

Nato in Alsazia nel 1857 (il suo vero nome era Emi ­le Courtet), era andato a Parigi in cerca di fortuna e s’era fatto un certo nome come disegnatore caricaturista, lavo ­rando per i giornali umoristici più noti, quando gli capitò uno strano incidente che decise della sua vita. Un giorno osservò che un cinema s’era servito di un suo disegno per invitare il pubblico a entrare nel locale. Cohl andò difi ­lato a reclamare e si vide offrire del lavoro nello stabi ­limento cinematografico. Ciò lo introdusse nell’ambiente, dove dapprima lavorò semplicemente come montatore. Soltanto più tardi egli, ricordando d’essere un disegnato ­re e riflettendo sul fatto che il cinema è basato sul prin ­cipio della scomposizione dei movimenti nel tempo (precisamente sedici fotogrammi per ogni minuto secondo), eb ­be l’idea di far agire delle marionette sullo schermo, scom ­ponendone i movimenti a piacere. Il solo ostacolo era co ­stituito dal numero enorme di disegni necessari, tuttavia Cohl non si arrese e pazientemente si mise al lavoro. Il suo primo film, intitolato Fantasmagoria, fu presentato a Parigi nel 1908. Era lungo quaranta metri e comprende ­va 3.600 disegni. Protagonista era un buffo generale col cappello piumato che brandiva una lunga spada e tirava di scherma contro immaginari nemici.

Per quattro anni Emile Cohl lavorò negli stabilimenti Gaumont con pazienza da benedettino, creando una serie di piccoli « cartoni animati » che deliziavano il pubblico parigino. Poi andò in America a impiantare una filiale della Casa francese, sempre per i disegni animati, ma gli accadde quel ch’era prevedibile: qualcuno scoprì i suoi trucchi, gli rubò i segreti del mestiere e ne fece tesoro usan ­doli meglio.

Molti anni dopo, Emile Cohl, ormai vecchio, povero e dimenticato, diventava protagonista di una pietosa tra ­gedia. L’esecuzione monotona di qualche milione di dise ­gni aveva influenzato la sua mente a tal punto ch’egli finì col credersi perseguitato dagli stessi personaggi che aveva creato. C’era soprattutto un gendarme che lo osses ­sionava e lo molestava senza tregua. La sua pazzia giunse a tal punto che per calmarlo fu necessario recitare una piccola commedia. Un giornalista, Lo Duca, racconta di essere stato presente quando un commissario di polizia, in presenza del pazzo, ordinò ai suoi gendarmi di non molestare l’artista. Cohl fu tranquillo per quasi sei mesi. Poi l’incubo ricominciò e non ebbe termine che con la morte.

Mentre il fumo nero che usciva dal forno crematorio dove si consumava il corpo di Emile Cohl si dissolveva nel cielo di Parigi, Biancaneve e i sette nani appariva su ­gli schermi del mondo e tutti salutavano in Walt Disney il creatore di un prodigio. Walt Disney giungeva così al ­l’apice della sua carriera, dopo lunghi anni di lavoro, e dopo non pochi stenti e fatiche. Anche la sua vita era sta ­ta fino a quel momento simile a un romanzo, come quella di tutti gli uomini che costruiscono con le proprie mani la loro fortuna.

Per quanto ormai comunemente si dica che Walt Di ­sney sia nato a Chicago il 5 dicembre 1901, risulta inve ­ce che Josè Luis Zamora (questo è il suo vero nome) è nato nel 1901 a Mojacar, provincia di Armeria, in Spa ­gna, ed è figlio di Josè Guiras Zamora, emigrato poi in America nel 1903.

Rimasto orfano, il piccolo Josè Luis fu adottato dalla famiglia Disney di Chicago, e da questa prese il nome che poi diventò celebre. Il primo disegno eseguito dal piccolo e promettente Josè Luis-Walt raffigurò il cavallo di un vecchio medico, buon amico di famiglia. Il medico teneva fermo il cavallo mentre Walt disegnava, e sebbene il lavoro non fosse eccellente, fu però generosamente loda ­to da tutti con grande gioia del precoce artista.

Tuttavia il ragazzo non aveva modo di dedicarsi, co ­me avrebbe voluto, al disegno. I suoi mezzi non gli con ­sentivano questo lusso: dovette contribuire a integrare il bilancio familiare vendendo giornali prima e dopo le ore di scuola, e, più tardi, recapitando espressi per conto di un’agenzia postale.

Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, nella pri ­ma guerra mondiale, il sedicenne Walt volle arruolarsi, e, non riuscendovi, ottenne ugualmente d’essere spedito in Europa come autista della Croce Rossa. Fu per questo che gli ufficiali e le dame della Croce Rossa di servizio in Francia, assistettero con grande stupore alle evoluzioni di uno strano veicolo decorato con le più pittoresche imma ­gini di animali: era l’autoambulanza di Walt Disney, il quale aveva a suo modo decorato il tetto e le pareti del veicolo, forse per rendere meno triste il tragitto ai feriti che trasportava.

Alla fine della guerra, Disney si trovò al bivio. Una strada lo portava verso il teatro, l’altra verso il disegno. Scelse la seconda e, per cinquanta dollari al mese, si mise al lavoro per conto di un’agenzia di pubblicità che gli commissionava disegni di vasche da bagno e barattoli di marmellata, spazzolini da denti e rastrelli. Dopo due me ­si egli ne aveva abbastanza e, senza pensarci due volte, decise di mettersi a lavorare per proprio conto. Insieme con il fratello Roy prese in affitto un vecchio garage, dove si dedicò ad esperimenti piuttosto azzardati per quel tempo: la realizzazione di un cortometraggio pubblicitario a dise ­gni animati. Sembra che una famiglia di sorci avesse scelto come residenza il garage: il giovanotto s’interessò vi ­vamente agli ospiti del suo studio, seguendone i costumi e le abitudini con attenta simpatia. Nacque così Mickey Mouse, il nostro « Topolino », eroe di mille avventure me ­ravigliose, il personaggio cinematografico forse più noto e popolare del mondo intero.

Ma non furono anni facili: Disney dovette lottare a denti stretti prima di riuscire a farsi notare, a ottenere qualche ordinazione, e quando egli giunse finalmente a Hollywood, ricco di cinquecento dollari avuti in prestito da uno zio e di una macchina da presa piuttosto malan ­data, dovette rassegnarsi ad alloggiare in una modesta ri ­messa arredata con casse d’imballaggio. Questa fu la base dello sviluppo futuro: da quelle casse di legno grezzo uscirono, come per miracolo, gli edifici candidi e assolati conosciuti col nome di « Walt Disney Studios » a Burbank, in California. Tuttavia il primo passo era già fatto: pro ­duttori interessati si unirono a lui; egli ebbe la prima grossa ordinazione. Due nuovi elementi entrarono a far parte della società, due ragazze, una delle quali, Lilian Bounds, è ora la signora Disney.

Così venne gloriosamente al mondo Topolino, in un primo cartone animato che fu presentato al pubblico il 28 settembre 1927, dopo otto anni di studio e di lavoro. Quando, recentemente, la colonia holliwoodiana ha festeg ­giato il venticinquesimo compleanno di Michey Mouse, il suo creatore ha rivelato un piccolo particolare da molti igno ­rato: la voce di Topolino è la voce di Disney in persona.

Incoraggiati dal successo di Walt Disney, altri si era ­no messi intanto sulla sua strada. Il disegno animato con ­quistava il mondo con i suoi personaggi di fantasia, ani ­mali e creature umane, come Felice-il-gatto, creato da Pat Sullivan, o Betty Boop-la-vamp e Popeye-il-marinaio ai quali dettero vita i fratelli Fleischer, austriaci trapiantati in America. In Europa, Francia, Inghilterra, Italia, Rus ­sia, Cecoslovacchia, non mancarono geniali artisti che si cimentarono nel disegno animato senza però raggiungere la popolarità e soprattutto la ricchezza di Walt Disney. Del resto, gli stessi concorrenti non potevano non rico ­noscere che il padre di Topolino s’era ben meritata la sua fortuna. Eternamente insoddisfatto, Disney non è uomo da « mettersi a sedere ». Quando le cose vanno bene, egli pensa subito che potrebbero andar meglio. Ed è così che, contro il parere dei suoi prudenti consiglieri, egli pensa a un certo punto che bisogna tentare il grande esperimento del colore.

Non è impresa facile, naturalmente, né di poca spesa. Occorre anzi mettere in bilancio una somma discreta per arrivare a capo di qualche cosa. Altri produttori, i grossi capitani di Hollywood, hanno tentato, e poi, spaventati dall’alto costo del sistema proposto dai tecnici, hanno ab ­bandonato l’impresa. Disney non si scoraggia. Nel 1932 ottiene da un tecnico, il dottor Kalmus, i diritti di esclusi ­vità per un anno del sistema Technicolor, e realizza il pri ­mo cartone animato sonoro e a colori che s’intitola I tre porcellini. È un piccolo miracolo di tecnica, di grazia e di armonia che seduce e conquista il mondo intero.

Ecco dunque un altro procedimento tecnico, il colore, che, dopo il sonoro, viene ad aggiungersi alle molte at ­trattive offerte ai fedeli clienti della « fabbrica dei sogni ». Ma, per la verità, non è Walt Disney il primo a portarlo sullo schermo. Fin dai lontani inizi del cinema, il proble ­ma aveva appassionato i realizzatori di film: quella spe ­cie dì geniale sognatore che fu Georges Méliès, anzi, si era dedicato con pazienza da certosino a colorare uno dei suoi primi film a mano, fotogramma per fotogramma. I risultati, se non convincenti, erano stati almeno commo ­venti per lo slancio ingenuo di chi aveva voluto, con que ­sto sistema primitivo, dare col cinema una immagine quan ­to più possibile fedele al vero.

Anni dopo, col progredire della tecnica fotografica, si arrivò alla fabbricazione delle pellicole per fotografia a colori, e si pensò di sfruttare lo stesso procedimento nel campo del cinema. Dapprima furono soltanto inserite po ­che scene « a colori » nei film in bianco e nero. Così in Ben Hur, realizzato nel 1926 da Fred Niblo, così in un film di Douglas Fairbanks, Il Pirata Nero, girato nello stesso anno. Il pubblico non mostrò, però, di farci gran caso, forse non del tutto soddisfatto da quelle tinte accese e un tantino oleografiche che falsavano completamente la realtà.

Fu Walt Disney che, come abbiamo detto, ruppe gli indugi. L’occasione gli fu offerta da un incontro con una donna, Natalie Danfee Kalmus, moglie del dottor Her ­bert Kalmus. È a questi due coniugi, uniti nel lavoro un po’ come la coppia Curie, che il cinema deve la scoperta del « Technicolor ».

Anche per i Kalmus la vita non era stata sulle prime un sentiero fiorito. C’è chi ricorda entrambi a Zurigo, quan ­do il marito lavorava in un laboratorio di chimica e la moglie seguiva corsi d’arte all’Università, vivere una vita frugale e ritirata, perché ogni dollaro risparmiato voleva dire un giorno di studio e di lavoro di più. La loro col ­laborazione era così stretta e la loro intesa tanto perfetta, che gli amici si divertivano a definirli così: lui è il « Techni » e lei il « color ». Da questi anni di studio, da questa collaborazione ormai ventennale, nacque la « Tech ­nicolor Motion Picture Corp » una potente società che pos ­siede oggi 249 brevetti e della quale la signora Kalmus è direttrice-tecnica. È lei stessa che sceglie le tinte delle stoffe, le decorazioni e le truccature da usare e c’è chi assicura che in questo campo ella possieda un sesto senso. Naturalmente moglie e marito navigano ora nell’oro, tanto che si permettono il lusso di rifiutare quei soggetti che a loro non vanno a genio.

Con I tre porcellini di Walt Disney, i coniugi Kalmus che pure avevano al loro attivo tanti esperimenti riusci ­ti di cinematografia a colori, a cominciare dal lontano Pirata nero, si vedevano assicurato il successo e spianata la strada verso l’avvenire. Tuttavia il loro vero trionfo fu Becky Sharp, realizzato nel 1935 e considerato come il primo film a colori degno d’essere preso in considerazione anche dai critici più incontentabili. Becky Sharp, tratto dal notissimo romanzo di Thackeray, « La fiera della va ­nità », fu diretto da Rouben Mamoulian ed ebbe quale protagonista Miriam Hopkins.

Da quel momento i progressi del colore non ebbero più sosta: nel 1941, appena sei anni più tardi, furono sviluppati a Hollywood ben 30 milioni di metri di pelli ­cola. E sebbene il film in bianco e nero regga ancora vit ­toriosamente il confronto, si può affermare che, fra non molto, la produzione sarà completamente orientata verso il colore.

Walt Disney, per suo conto, ha già risolto ogni dub ­bio. I suoi film sono ormai esclusivamente colorati. Del re ­sto ciò è comprensibile: egli conduce i suoi amici nei pae ­si delle meraviglie i cui abitanti, fiori, animali, nuvole, nani, devono rivestire tutti gli elementi cromatici della fan ­tasia. Dumbo, Bambi, Pinocchio, I tre caballeros, sono le prestigiose creature alle quali egli ha dato vita, suono e colore. E gli ultimi suoi film, Saludos Amigos, Fantasia, Musica Maestro, dimostrano quali risorse egli abbia sapu ­to trarre dai mezzi che la tecnica moderna ha messo a sua disposizione.

Ma l’attività di Walt Disney non conosce sosta: abban ­donati per il momento i personaggi scaturiti dalla sua fertile matita, egli ha affrontato, con grandiosità di mez ­zi, un tema insolito, dedicandosi alla realizzazione di Ventimila leghe sotto i mari, un film tratto dal popolare ro ­manzo di Giulio Verne.

L’attore inglese James Mason è il protagonista della vicenda nelle vesti del capitano Nemo; il sommergibile « Nautilus », costruito con scrupolosa aderenza al modello descritto dal suo celebre creatore, navigherà tra le foreste di coralli nel Mare dei Caraibi. Il film, per il quale sono occorsi quattordici mesi di lavoro, è costato due miliardi e mezzo di lire. Qualcuno, forse, rimpiangerà le prime creature di Walt Disney, un po’ ingenue eppur fresche e vi ­ve e ricche d’una grazia poetica incomparabile (ricordate I tre porcellini?); ma può forse questo rammarico ferma ­re un artista sulla via d’una evoluzione che non conosce confronti? E, del resto, siamo ancora e sempre nel regno delle meraviglie: con Ventimila leghe sotto i mari ripercorreremo, guidati da Walt Disney, i sentieri della nostra infanzia, un mondo sconfinato da esplorare e scoprire, i più bei sogni della fantasia tramutati in immagini per il nostro piacere.


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Bart