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CINEMA: “Tris di donne e abiti nuziali” di Vincenzo Terracciano

20 Dicembre 2009

di Francesco Improta

Finalmente, quando ormai disperavo di riuscirci, ho visto Tris di donne ed abiti nuziali, presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, film bellissimo e struggente e… ho pianto anche se, per un malinteso senso di pudore, sono riuscito a nascondere le lacrime. È un film di emozioni forti per tutti e a maggior ragione per chi come me, dedicatario del film, si è sentito catapultato indietro, nei luoghi della propria giovinezza, a rivivere una lunga stagione di slanci e di flessioni, di voli e di cadute in un mare di nebbia che si differenzia certamente da quello del Viandante di C. D. Friedrich (nel film la foto di questo quadro è presente sul comodino della figlia del protagonista) per assomigliare invece al bicchiere di acqua e anice di cui parla P. Conte ma nel quale si può pur sempre naufragare racchiudendo debolezze e miserie, vagheggiamenti e fralezze, in poche parole solitudine e sradicamento.

Accantoniamo, però, le mie emozioni, per quanto vivide es ­se siano, e parliamo invece del film.

Credo sia superfluo soffermarsi sulla trama, che è, co ­munque, molto più complessa e articolata di quanto possa sembrare a una prima visione o di come sia stata raccontata da critici frettolosi, distratti o semplicemente incompetenti. I temi sono tanti e tutti più o meno approfonditi: il gioco, nella sua duplice visione di professione lucrosa (è il caso di Vittorio) e di passione sfrenata, la famiglia, il rapporto marito-moglie e soprattutto genitori-figli, l’intercambia ­bilità dei ruoli, la solidarietà o mutuo soccorso, l’usura, la malavita, il sesso, l’amore, la poesia, inseriti in un progetto culturale e cinematografico di grande spessore ed efficacia.

Non è, a mio avviso, una commedia anche se non mancano reminiscenze della grande tradizione italiana (mi riferisco a Comencini, Germi, Risi e Monicelli), anzi credo che il film in questione poco o nulla abbia a che vedere con la comicità – che, sia ben chiaro, non ha in sé nulla di disdicevole – in quanto si muove su un piano più alto e più maturo, quello dell’umorismo nell’accezione che di questo termine dà Luigi Pirandello nell’omonimo saggio. L’umorismo, ossia il momento adulto della comicità che nasce quando subentra la riflessione, al riso si sostituisce il sorriso pensoso e ci si chiede che cosa ci sia dietro quel fatto e quali siano le motivazioni che inducono a comportarsi in un determinato modo. Franco Campanella, il protagonista, non è un personaggio comico né tanto meno farsesco, come qualche critico ha detto, ricordando la sua corsa iniziale, impacciata e inaspettata, per sottrarsi allo strozzino che, claudicante, lo insegue, o certi ammiccamenti che nelle intenzioni dello stesso Castellitto, splendido, superbo, straordinario protagonista, dovrebbero riportarci – e infatti ci riportano – a Eduardo, ai fratelli Giuffrè o addirittura al mitico Totò, diretto da P. P. Pasolini; Franco Campanella è soltanto un uomo debole, dominato dalle passioni, che ha nella sua stessa fragilità la propria umanità e la propria forza. Non solo, infatti, riuscirà a recuperare l’affetto della moglie e anche la stima del figlio che spesso lo aveva aspramente criticato (la figlia invece lo ha sempre amato e perdonato come rivela la bellissima poesia di Camillo Sbarbaro (“Padre se anche tu non fossi mio padre…”) che lei gli dedica e che viene recitata dalla voce off di en ­trambi), ma si fa carico consapevolmente della respon ­sabilità delle proprie scelte e va incontro al proprio destino assumendo dinanzi alle acque del golfo di Napoli, buie e catramose, la stessa posizione e lo stesso atteggiamento del viandante di Friedrich.

Felicissime le scelte stilistiche: innanzitutto l’atemporalità, determinata dalla mancanza di riferimenti espliciti all’at ­tualità; se si esclude, infatti, la presenza di moto di grossa cilindrata cavalcate da giovani e arroganti camorristi privi di scrupolo non ci sono rimandi o allusioni ai nostri tempi e ciò da un lato conferma che il gioco è antico come il mondo e non è legato a precise coordinate spazio-temporali e dall’altro facilita e legittima l’espressionismo di fondo della pellicola, scelta stilistica, quest’ultima, particolarmente cara a Terracciano che l’aveva parzialmente adottata nel suo primo lungometraggio “Per tutto il tempo che ci resta”.

Non è un caso che prevalgano notturni lividi; inquadrature dense di ombre, talvolta sbilenche, bellissima quella in cui S. Castellitto e M. Gedeck sono a letto abbracciati, quasi a formare un simbolico gruppo marmoreo, inciso e solcato da forti chiaroscuri; antri cavernosi (la sala biliardi) o interni affastellati di oggetti come la casa di F. Campanella; scale ripide a simboleggiare le alterne vicende della vita e della città in cui si svolge la vicenda e che il buon Castellitto sembra più scendere che salire.

Doveroso ricordare inoltre la presenza della poesia, cui da sincero e qualificato estimatore il regista rende doveroso omaggio, non solo attraverso la lettura che ne fa la figlia Teresa, professoressa precaria, nell’esercizio della sua professione, ma anche attraverso la lettera lasciata al padre, i ritratti dei poeti affissi al muro e i versi bellissimi di Sandro Penna (“Io vorrei vivere addormentato / entro il dolce rumore della vita”) scritti sulla parete sopra la spalliera del letto della figlia, che alla fine recepisce e mette in pratica la lezione del padre, abbandona il lavoro e rinuncia ai suoi sogni piccolo-borghesi (il matrimonio e la cerimonia nuziale) per difendere la propria libertà e le proprie scelte autonome. Non a caso il padre le aveva detto: “Non sacrificare te stessa”.

Molto belle le musiche di Nicola Piovani che scandiscono, più di quanto non faccia il calendario a muro, che pure ha una sua funzione e dignità, perfettamente le varie fasi della vicenda e particolarmente efficaci, nonché sapientemente dosati, i movimenti di macchina.

Tra le scene che rimarranno a lungo nel cuore e nella mente degli spettatori: la vestizione di Paolo prima della partita conclusiva; Franco a ridosso di un muro alto, minaccioso e incombente, che sembra schiacciarlo con il suo peso e la sua imponenza, quando va a bussare a soldi da Iaia Forte che sta giocando a carte (vergogna, senso di colpa? Mi ha ricordato una delle ultime scene di Senso di Visconti, quando Livia Serpieri vaga per la città dopo aver de ­nunciato al Comando austriaco Franz Mahler); Franco che rovista con i piedi fra i biglietti che rivestono, come una coperta di illusioni infrante o un mucchio di foglie secche, il pavimento della sala corse, mentre il figlio lo osserva da dietro le sbarre della saracinesca, il campo controcampo ci indica che entrambi sono prigionieri del demone del gioco e dei problemi a esso connessi, anche se il figlio non n’è ancora consapevole; Franco che si sdraia sul tavolo da biliardo come in una bara; e, anche se un po’ scontata, la scena della fellatio dinanzi al vassoio dei babà in primo piano.

Magistrali entrambi i protagonisti, a conferma ancora una volta della indiscutibile capacità di Terracciano nel dirigere gli attori, che del resto sono tutti bravi e professionali con una doverosa citazione per Paolo, il figlio (P. Briguglia), e per Ferdinando, il biscazziere (Salvatore Cantalupo), mentre Iaia Forte, a mio avviso, è un po’ sopra le righe.                                                                                                                

Tris di donne e abiti nuziali  
Regia: Vincenzo Terracciano
Sceneggiatura: Vincenzo Terracciano, Laura Sabatino
Attori: Sergio Castellitto, Martina Gedeck, Paolo Briguglia, Raffaella Rea, Salvatore Cantalupo, Paolo Calabresi, Elena Bouryka, Gigio Morra, Renato Marchetti, Giovanni Esposito, Iaia Forte
Montaggio: Marco Spoletini
Musiche: Nicola Piovani
Produzione: UMBERTO MASSA PER KUBLA KHAN, RAI CINEMA, CAMALEO
Distribuzione: 01 DISTRIBUTION
Paese: Italia 2008


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2 Comments

  1. Commento by armando — 25 Settembre 2011 @ 18:01

    ho visto questo film oggi bellissimo e con grande stupore in giro dper la rete, a parte la tua bellissima recensione ho trovato davvero una critica che lo definiva mediocre proprio come l’occhio e la manio o di chi ha scritto quegli articoli senza soffermarsi…come ha detto tu frettolosi critici…bravo e grazie per la recensione…mi sono commosso anche io al “banco” detto sugli scogli da castellitto

  2. Commento by Nick — 6 Febbraio 2012 @ 16:46

    …ho appena visto il film…semplicemente stupendo, attori in gran forma, Castellitto (oltretutto di Campobasso come me) magistrale, Cantalupo poi ti da la sensazione di essere in teatro…il finale lascia l’amaro in bocca ma “così è se vi pare”…

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