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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

FAVOLE: Storie del Piccolo Oro: Isola Santa e i folletti del monte Sumbra #1/8

23 Novembre 2007

di Bartolomeo Di Monaco

Tra Castelnuovo di Garfagnana, cittadella resa celebre dall’Ariosto che vi dimorò a malincuore dal 1522 al 1525, e la Versilia dei cavatori e delle fabbriche del marmo, corre una strada assai tortuosa e tetra.  
   
Chi la percorra, stretto dal monte da una parte e dagli orridi strapiombi dall’altra, avverte un brivido, la sensazione dell’agguato, il fiato dei briganti che l’hanno animata fino a tutto l’800 e resa insicura, ardita pei viaggiatori del tempo.      
    Quasi al principio, da poco lasciato l’abitato di Castelnuovo, si è colpiti da un insolito paesaggio: un gruppo di case raccolte e malandate si adagia quasi addormentato sopra un laghetto artificiale, dalle acque color verde cupo; il luogo è chiamato Isola Santa e davvero è dolce e malinconica la sua visione.
    Qui ha inizio una delle storie che voglio raccontare, accaduta molti e molti anni fa.
    Invece del lago, provate ad immaginare un fiumiciattolo irrequieto, dalle acque limpide, che allora lambiva quelle povere case.  
    Una ventina di famiglie vivevano su quel fazzoletto di terra, dedite alla pastorizia, all’agricoltura, a far legna e carbone.    
    Più avanti, in direzione del mare, un principe regnava in un gran castello, posto proprio sulla cima del monte.  
    Vi si arrivava a cavallo per un sentiero che l’assiduo andirivieni dei cortigiani e dei visitatori aveva reso largo e pulito.    
    Quel ricco signore vi dava infatti frequenti feste, e dal mare e dalla città gentiluomini e dame accorrevano a banchettare e a trascorrere spensierati giorni.  
    I poveretti di Isola Santa non lo avevano mai visto; si diceva fosse vecchio ma che non badasse a spese pur di stare in allegria.    
    Era invece duro e spietato coi contadini e i pastori; guai se il raccolto non era abbondante, se il gregge non si moltiplicava, se non rendeva gran quantità di lana e di formaggio. Alcuni erano stati licenziati su due piedi proprio per questo, senza compassione per i figli destinati a soffrire.    
    Insomma, al castello si godeva la vita e non c’era minuto del giorno che non vi arrecasse sazietà e gioia; ad Isola Santa invece la fatica e la paura angosciavano il cuore dei suoi abitanti.      

    Oro capitò ad Isola Santa una sera.  
    I pastori e i contadini stavano radunati come ogni giorno terminato il lavoro, discutendo animatamente più del solito, litigando ed imprecando contro le angherie del tiranno.  
    «Armiamoci di forche e bastoni » gridava qualcuno.
    «Prendiamo anche i fucili » urlava un altro.      
    «È tempo di ribellarci » dissero tutti assieme.    
    All’improvviso, si videro comparire davanti il piccolo Oro.
    «E tu chi sei? »
    «Chiamerò in vostro aiuto i folletti del monte Sumbra » rispose il bimbo.
    «I folletti del monte Sumbra!? Ma che dici, vaneggi, marmocchio? »
    «E chi sono mai questi folletti del monte Sumbra? Nessuno di noi ne ha sentito parlare » disse un altro, voltandosi verso di lui. «Dicci piuttosto da dove sbuchi, moccioso » aggiunse.  
    «I folletti del monte Sumbra vivono in questi boschi da molti secoli, e sono capaci di ogni sortilegio. Sono invisibili di giorno, e di notte compaiono sotto forma di piccoli batuffoli di nebbia. È molto difficile riconoscerli. Essi accorrono in aiuto a condizione che si abbia davvero bisogno di loro e si mostrano soltanto se li si cerca con amore. »
    Ma nessuno gli credeva.
    Rivelò che i folletti del monte Sumbra potevano fare di tutto e specialmente confondersi tra la gente, assumere le sembianze più disparate: una persona, un animale, una pianta, un oggetto; perfino entravano nel corpo umano e ne percorrevano le vie più inaccessibili.
    Continuavano a non credere alle sue parole.
    «Allora andrò a cercarli e li porterò qui » disse tutto indispettito, e si allontanò, seguito dagli sguardi increduli di quei contadini.
    Il piccolo Oro entrò così nel bosco ch’era già notte fonda.
    Cominciò a frugare ogni angolo.
    Ma cammina cammina, non riusciva ad incontrare alcuno di quegli esseri straordinari.
    Era stanco e sfiduciato, irritato anche, giacché sapeva bene che i folletti stavano lì ed era soltanto lui che non riusciva a vederli; e finalmente li scorse.
    Piccoli batuffoli di nebbia apparvero infatti intorno a lui; prima lontani, ora lo lambivano, lo accarezzavano.
    Alla fine entrò in contatto con quegli esseri davvero eccezionali, e insieme fecero ritorno al villaggio.  
    Proprio quella sera si dava al castello una grande festa.
    Da ogni parte erano accorsi gli invitati, soprattutto dal mare e dalla vicina città.
    La festa era al culmine.
    Compassati musicisti suonavano i loro strumenti in fondo al salone, coppie eleganti si lasciavano cullare dalle dolci note di un valzer di Strauss; insomma, tutto sembrava scorrere alla perfezione quando, all’improvviso, un’affascinante signora, senza alcun motivo, affibbiò un fragoroso ceffone al tiranno.
    Silenzio e sgomento piombarono nel salone.

    Ma di lì a poco accaddero altre sorprendenti amenità.  
    Il tiranno, presa una lunga rincorsa, andò a stampare un solenne calcione sulle natiche di una florida cortigiana, chinatasi proprio in quel momento su di un vassoio imbandito di squisitezze. Uno smilzo damerino cominciò a cantare a squarciagola incomprensibili parole di un’operetta altrettanto misteriosa; si batteva il petto e giù le note acute, le braccia levate al cielo.
    Intanto il tiranno continuava il girotondo assestando calci a tutti, davvero irriconoscibile!  
    Nei rari momenti di lucidità, si lasciava sprofondare su di un divano e guardava incredulo tutto quello scompiglio.  
    Anche i cavalli nelle stalle presero ad agitarsi all’improvviso: levavano nitriti altissimi, menavano calci alle pareti. Così pure gli animali da cortile: le oche, i conigli, le galline, numerosissimi presso quel ricco signore, attraversavano l’aia avanti e indietro di gran corsa, come impazziti. Le guardie di servizio al portone d’ingresso, lo aprivano e richiudevano sghignazzando, come prese da follia.
    E la frutta, il vino imbanditi sulla lunga tavola? Come le altre cose che ho raccontate. Ruzzolavano sul pavimento di marmo finissimo le più belle arance della Sicilia, la più bell’uva della Toscana, le più succose mele del Trentino; e finivano sotto i piedi dei ballerini in un cia-cia generale: povere scarpe di preziosa e lucida pelle, povere calze di seta pregiata!  
    Il tiranno ora urlava di rabbia, cercava di imporre la calma, il silenzio ma, scherzo della sorte, più gridava più i compagni lo prendevano in giro, lo burlavano, convinti che volesse inventare altre celie.
    Paonazzo in volto, cadde infine a terra stremato.  
    Lo portarono in camera sua e lo deposero sul gran letto a baldacchino.
    Intanto i servitori avevano il loro bel daffare a tenere a bada oche e galline che salivano su per la scalinata, starnazzando.
    «Sciò sciò » gridavano, in preda allo sconforto.
    Gran trambusto dappertutto, insomma; e non ci fu oca o gallina o coniglio che non riuscisse a passare tra quella ragnatela di gambe e di braccia, e non facesse il suo ingresso trionfale nel salone delle feste.
    Oro pensò che era giunto il momento di ritirarsi e di lasciare il tiranno solo con gli invitati.
    Fece quindi ritorno a Isola Santa.

    Allo spuntare del giorno, a poco a poco si levò nella strada il chiacchiericcio dei primi contadini; si aprirono le finestre, uscirono le capre dagli stazzi, riprese il movimento nelle case e per i vicoli.
    Oro dormiva ancora quando, sul mezzogiorno, la gente lo svegliò per sapere.
    Che risate corsero per Isola Santa allorché, aiutato dai compagni, raccontò del fracasso e della confusione al castello provocati dai suoi invisibili amici! Che allegra mattinata fu quella per tutti i paesani, radunati in cerchio nella piazza grande, seduti su panche e per terra, con le bestie vicine, quasi a ridere con loro!
    Trascorsero alcune ore, ed ecco che nel tardo pomeriggio giunse dal castello un messo a cavallo: annunciava l’arrivo di lì a poco del suo signore.
    Furono tutti presi dalla paura; certamente il tiranno veniva per punirli della crudele fattura. Si pentirono di aver concesso ad Oro tanta fiducia, e soprattutto di essersi fatti convincere da un bimbo che nemmeno conoscevano, venuto chissà da dove.  
    Le donne uscirono dalle case, gli uomini tornarono dai campi per ritrovarsi tutti assieme nella piazza, e farsi coraggio, e magari implorare il perdono.  
    Com’era stato annunciato, giunse di lì a poco il vecchio tiranno; dritto, quasi imponente, cavalcava un bel sauro dal pelo lucido, scalpitante, ribelle ai comandi.
    Penetrò il cerchio della folla seguito dai suoi soldati e, giunto proprio nel mezzo, sorprese con le sue parole il villaggio.  
    «È un miracolo! » esclamò qualcuno.
    «È un miracolo! » gridarono tutti, e presto acclamazioni di gioia accompagnarono le parole del principe, il quale annunciava di dare libertà a quella gente e di dividere con loro la terra, le case e ogni altra cosa che gli apparteneva.  
    Proclamò che un intervento misterioso e straordinario di quella notte gli aveva fatto intendere che la sua felicità era effimera se non era spartita con la sua gente, e che questa era una verità tanto facile a dirsi quanto difficile a praticarsi.  
    Ma lui voleva almeno tentare.
    Infine si allontanò in tutta fretta com’era arrivato, portandosi via al gran galoppo i suoi soldati.
    Nessuno riusciva a credere a ciò che aveva udito. Qualcuno si ricordò di Oro.
    «Dov’è andato il bimbo? » si domandarono.
    Fu cercato dappertutto, fino a tarda notte. Ma di quel bambino riccioluto e paffutello non seppero più niente.


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Bart